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Orso contro Squalo           _letture

 

Poteva essere una bella sorpresa il romanzo d'esordio di questo autore quarantenne proposto in Italia da Minimum Fax, ma finisce quasi inesorabilmente per affondare sotto il peso dei suoi stessi cliché. Scrittura frenetica e compulsiva quella di Bachelder, scaltra nella sua inclinazione mimetica verso i nuovi linguaggi della comunicazione, ma a lungo andare anche un po' pesante: buona l'idea di frazionare il romanzo in capitoli minimi dai titoli ironici ed illuminanti, ma la tendenza ad imitare la sovraesposizione dei mass media e delle strategie commerciali, la serialità dei flussi informativi, alla fine mostra la corda. Il messaggio di fondo è condivisibile ma risaputo, gli espedienti metanarrativi vivaci ma non troppo originali (lui è bravo comunque a smascherarli, aprendo un rapporto franco e smaliziato con il lettore) ed anche la vena satirica riesce in fondo alquanto insipida. Certo, si lascia leggere, non è lungo o particolarmente impegnativo e in qualche passaggio diverte: uno per tutti, lo scontro in tribunale tra la perfida avvocatessa e la torta al cioccolato "eroticamente glassata".   

‘Orso contro Squalo parte seconda’è insieme l’evento più atteso ed il passatempo preferito degli americani in un futuro imprecisato e forse prossimo, formula sotto copyright impacchettata e venduta alle grandi corporation ma anche moderno koan vagamente new age con corredo di simbolismo spiccio, cereali da colazione e cuscini ergonomici ufficiali. Passatempo oltre che evento, si diceva: pure limitandosi a pochi secondi di ferina virtuale ultraviolenza, come insegnano i media e la comune alienazione ritualizzata, l’attesa è tutto. Al lettore tocca viverne pulsioni e ottuse frenesie seguendo il viaggio dei Norman verso il grande spettacolo del Darwin Dome, Stato Sovrano di Las Vegas, “Polmoni contro Branchie nel deserto al neon”. I Norman, piccola agghiacciante tribù da sitcom delle più trite, archetipo della famiglia yankee più media della media, si sono aggiudicati quattro biglietti per la grande serata perché il figlio minore Curtis – forse il meno peggio del clan ma pur sempre atroce –  ha vinto il concorso nazionale per il miglior tema scolastico sul significato di ‘Orso contro Squalo’ per la società americana. Ed il romanzo si sviluppa dunque come resoconto di questo pellegrinaggio marziano, in diretta e in esclusiva, oltreché della delirante trepidazione di un’intero paese, caricaturale ma neanche poi troppo stando alle intenzioni dell’autore.
 
Quella evocata con enfasi grottesca e maliziosa nelle schizofreniche pagine di ‘Bear v. Shark’ è una realtà che, “diversamente dai vecchi televisori, non ha pulsanti di spegnimento”. Arriva come un’onda di piena di frastornanti idiozie e la si incassa passivamente, come i quintali di luoghi comuni che Bachelder individua nel nostro quotidiano di consumatori consumati e sovraccarica sino al paradosso in questo allucinante pastiche sardonico, traendo il possibile (forse anche il meglio) dalla propria vena pop surrealista e poco incline al politically correct. Il risultato è una delirante polifonia americana in cui tutti – ma proprio tutti – parlano senza avere nulla di veramente significativo da dire: ospiti radiofonici, camerieri, sponsor e testimonial di bassa lega, intellettuali morti come Thoreau o Roland Barthes, celebrità assortite del calibro di Neil Postman o D.F.Wallace e persino i cuscini ergonomici. Il tutto tracima in questo esasperato accumulo di parole in libertà, finti spot e quadretti nonsense, alcuni dei quali deliziosi, altri decisamente scontati. Nel bel mezzo, scampoli di metanarrazione, tripudio di esuberanti richiami fatici, poetici, conativi e metalinguistici, oltre ad una messe di allusioni ironiche e trucchetti volti ad esplicitare (citando Calvino e Barthelme) l’intento satirico di un testo che vorrebbe essere un pungolo (nel raccontare il ridicolo della nostra contemporaneità) ma riesce forse un po’ troppo facile, meccanico e calcolato, furbo più che intelligente. Alla fine della fiera la pagina più terrificante di un libro che si lascia leggere, ma entusiasma di rado, è quella in cui è riportato il tema di Curtis, con ‘Orso contro Squalo’ interpretato come ragione per vivere giulivi accantonando ogni problema, il panem et circenses che può aiutare un’intera nazione a coltivare illusioni sfiorite, a sentirsi ottimista, “avere la cultura” e, in definitiva, credere ancora alle stanche repliche del proprio grande e logoro sogno.

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Le Fantastiche Avventure di Kavalier e Clay                   _letture

 

Avevo sentito parlare molto bene di questo romanzone di Michael Chabon e non ho potuto che verificare se le voci entusiastiche di tanti lettori su Anobii fossero fondate o meno. Che dire? Bello è bello, ma non si tratta certo del capolavoro di cui alcuni hanno scritto e forse anche il Pulitzer vinto non è poi chissà quanto meritato. E' un romanzo profondamente americano, ecco, questo deve aver influito per forza. Progressista, ottimista, politically correct, anche sottilmente retorico come tanti prodotti letterari (e non) made in U.S.A.. Al di là di questo limite, l'ironia dell'autore si è rivelata assai piacevole come la sua scrittura molto naturale, forbita senza risultare saccente. E' estremamente accurato Chabon nel raccontare una realtà scintillante da lui non vissuta, anche se non si può dire altrettanto per la resa psicologica dei suoi amati personaggi: un po' troppo superficiali, un po' sbrigativi, come si trattasse anche in questo caso di veloci abbozzi su carta, disegnati in maniera grezza e poi ripassati a china. Si legge comunque volentieri, e forse è questo ciò che conta, perché dice cose non banali sul più grande dramma del novecento e sulla guerra in genere, ma lo fa con garbo e senza appiattirsi su una vuota prospettiva pietista. Un romanzo d'avventura, anche, e di costume, di quelli che dovrebbero essere divorati. Stranamente io non ci sono riuscito, procedendo con lentezza (ma senza vera noia) tranne che in alcuni frangenti più esaltanti. In ogni caso, consigliato. 

Ha ragione chi ha definito ‘The Amazing Adventures of Kavalier & Clay’ il “romanzo della fuga”, anche se sarebbe forse più corretto completare la formula parlando di fuga negata, o impossibile, dall’inesorabile sventura del divenire adulti. Chabon dissemina di infiniti rimandi al concetto di evasione le oltre ottocento pagine di questo libro, a partire dall’incontro in cui i due protagonisti – i cugini citati nel titolo – si scoprono motivati da un comune desiderio di diserzione dal presente e realizzano di poter diventare i migliori alleati l’uno dell’altro nella direzione dei propri sogni. Sam “Sammy” Clay l’indole del sognatore ce l’ha da sempre, da quando abbandonato in tenera età da un padre celebre e scellerato, “tutto muscoli e niente cuore”, iniziò a coltivare propositi infantili di riscatto nei panni del grande romanziere americano, del critico geniale o del medico eroico, allenandosi sin da giovanissimo a mentire spudoratamente come riflesso dell’aspirazione a diventare qualcuno di molto diverso. Joseph “Joe” Kavalier, esule da una Cecoslovacchia ormai caduta sotto gli artigli della Germania Nazista, è al contrario sicuro del proprio talento, estroverso e competente, anche se ha non meno ragioni del cugino per aggrapparsi con forza ad un mondo più roseo di quello reale, una sceneggiatura orchestrata dal potere dell’immaginazione per sancire il trionfo incontrastato di giustizia e libertà. Messi alla prova da una coppia di avidi editori, Sammy e Joe trasformano da subito in qualcosa di vincente il loro sodalizio, inventando dal nulla un nuovo supereroe dei comics, l’Escapista, personaggio armonioso destinato a fare concorrenza a Superman in qualità di liberatore degli oppressi. Ovviamente dietro l’artificio della fiction c’è la dura realtà di chi come Joe ha davvero studiato da fuggiasco: gli anni del suo apprendistato escapista a Praga presso il vecchio Kornblum, ebreo lituano maestro illusionista e seguace di Houdini, sono ampiamente trattati dall’autore in pagine ricche di fascino e sinceramente commoventi. Un po’ come quelle in cui è raccontata la genesi dell’eroe disegnato a china, a dire il vero forse un po’ troppo lunghe ed infarcite di dettagli marginali: la febbrile materializzazione del sogno dei due ragazzi e le iperboliche fantasie del fumetto da loro ideato sono piani che si intersecano compenetrandosi, contaminandosi grazie alla prosa leggera ma brillante di Chabon, dando forma ad un universo nuovo fatto di confini incerti, illusori, eppure assai intrigante: “la nostra, se posso dirlo, è una fottutissima bella storia!”. E’ a questo punto che il personaggio di Joe ruba letteralmente la scena a tutti gli altri. Il suo passato, più drammatico e movimentato, si riflette inesorabilmente su un presente divenuto prestissimo un’autentica missione. Disegnare le storie violente dell’invincibile nemico dei nazisti è il solo mezzo per combattere con un certo costrutto la propria guerra personale: legittimare la libertà conquistata grazie ad una fortuna mancata ad altri – primo tra tutti l’adorato fratello minore Thomas – stimolare nei giovani americani del 1939 l’odio per Hitler e, almeno tra le pagine dei fumetti, sconfiggere il mostro e vendicarsi. I soldi ed il successo arrivano (anche se in misura minore rispetto agli effettivi meriti) ma Joe non trova pace. A New York non si sente a casa pur essendo grato per tutte le opportunità ricevute e fatte fruttare. Soffre per quella condizione di esule impotente, lontano da una famiglia destinata all’annientamento, che lo condurrà sull’orlo di un baratro emotivo e materiale. L’amore per la ricca e bella Rosa Saks, pittrice e spirito libero incontrata grazie ad un gioco benevolo del destino, segna una svolta. Senza annullare l’orgoglio che lo ha sempre visto irriducibile di fronte alle richieste di autocensura dei suoi editori (“Io credo nel potere della mia immaginazione!”) per non tradire gli ideali che hanno animato tutto il suo lavoro, Joe e la sua arte si fanno più disciplinati e concreti. Da strumento di una sterile vendetta rivolta a nemici troppo lontani o troppo insignificanti, i fumetti possono trasformarsi in qualcosa di più costruttivo, qualcosa di prezioso per esprimere fino in fondo se stesso e le proprie aspirazioni. Il cuore di Kavalier sembra riuscire finalmente ad uscire dal caos, anche grazie al progetto, ormai quasi in porto, di salvare Thomas e tanti altri bambini ebrei dagli orrori della guerra e da morte pressoché certa. La fatalità si impone comunque e rimescola tutte le carte, definendo una brusca sterzata negli eventi narrati. Chabon è limpidissimo nei confronti del lettore. Sin dalle pagine dei trascorsi praghesi di Kavalier è prodigo nell’affabulare ma lascia comunque intuire che piega prenderanno gli avvenimenti, trattenendo quasi confuso sullo sfondo un senso di morte e di ineluttabilità che è ben presente pur restando nella sfera del non detto, rispettoso silenzio di fronte alla tragedia di tutto il popolo ebraico. Reso cieco dall’odio e partito per combattere, Joe è protagonista di un plateale ritorno in scena dopo una serie di avventure picaresche ed una fuga non meno monumentale da tutto e tutti (un ellissi durata anni, spesi come un’ombra divorata dal rimorso e dalla vergogna), in un finale positivo all’insegna del ricongiungimento, forse sin troppo accomodante.

Cosa aggiungere a proposito di questo colossale romanzo vecchio stampo? E’ un libro che prende, senza dubbio, un libro sicuramente molto bello cui è difficile non affezionarsi. Non è un capolavoro. Forse conquista più che altro per la disinvoltura descrittiva con cui Chabon tratteggia l’America ormai prossima alla seconda guerra mondiale, il 1941 di ‘Citizen Kane’, delle feste con Dalì e di Pearl Harbour. Una miriade i riferimenti culturali (alti e non) che stordiscono ed affascinano, imponendosi in fin dei conti anche sulle vicende narrate e sui protagonisti. Un trionfo per la funzione referenziale e per il contesto, segno di qualità straordinarie di cronachista ed illustratore, a scapito però del narratore. Certo ‘The Amazing Adventures of Kavalier & Clay’ non è comunque un libro noioso, niente affatto, ma rivela un autore spesso troppo affezionato al mondo raccontato, troppo incline a soffermarsi sul pur entusiasmante inessenziale per poter colpire realmente al cuore. Cosa che accade, comunque, anche se quasi esclusivamente nelle pagine della rocambolesca fuga di Kavalier assieme al mitico Golem di Praga, oltre a quelle della sua vera guerra nella crudele alienazione dell’antartide; momenti, questi, incredibilmente appassionanti, con il protagonista messo finalmente a nudo, svuotato dal desiderio di assoluta vendetta al cospetto del quale tutto finisce col perdere senso: l’arte, l’affetto, l’amicizia e perfino la pietà (memorabile l’episodio della morte del cane Oyster). Il libro funziona egregiamente come celebrazione dell’età dell’oro dei fumetti, come atto d’amore incondizionato verso i comics in generale, ribaltando a loro esclusivo merito la logora accusa secondo la quale essi offrirebbero “solo” una facile fuga (ancora) dalla realtà. Non altrettanto memorabile il lavoro sui personaggi, sviluppati ed approfonditi meno del dovuto come fossero proprio eroi di quell’arte a torto considerata minore. In confronto all’eccezionalità (romanzesca) e allo spessore (apparente) di un personaggio “pieno” come Joe Kavalier, tagliato con l’accetta ma ugualmente sfuggente, Sammy Clay può apparire pallido, normale, convenzionalmente impostato, eppure moderno e pirandelliano (dove Joe è più “all’antica”, vero eroe da romanzo d’avventura): reduce in fuga (ancora, sì) da un’irrisolta relazione omosessuale, è chiamato ad incarnare la mediocrità di chi è sempre e comunque presente, maturo e responsabile, “incatenato al mondo in modo irrevocabile”. Emblematico per un attore infelicemente incompiuto come questo è il romanzo autobiografico “La Disillusione Americana”, mastodontica tela di Penelope da lui sempre ripresa e sempre abbandonata, simbolo forse facile ma efficace: “un po’ commedia amara, un po’ stoica tragedia alla Hemingway, l’autobiografia di un uomo che non sapeva porsi di fronte a se stesso, un intreccio complicato di stratagemmi e bugie senza la capacità artistica di trasmettere, anche inconsapevolmente, la propria realtà”. Se Sam convince quindi in generale più di Joe, è ottima in questo quadro la figura crepuscolare del suo implicito mentore Deasey, colui che lo aiuta a diventare consapevole dei propri mezzi in un mondo di profittatori e ad aprire gli occhi sul mesto ma inevitabile fallimento di ogni talento letterario. Talento che a Chabon è valso il Pulitzer e che in ‘The Amazing Adventures of Kavalier & Clay’ è stato espresso con ogni probabilità al massimo delle proprie potenzialità visionarie.

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Il Nipote                        _letture

 

Doppia Review dedicata a James Purdy, come promesso il mese scorso quando scrissi senza troppo entusiasmo a proposito del suo esordio 'Malcolm'. Di essermi imbattuto in un autore di un certo spessore mi sembra di averlo già affermato in quell'occasione. Ora torno sull'argomento per avvalorare l'impressione di allora, avendo nel frattempo consumato altri due suoi romanzi, entrambi assolutamente significativi. Meglio, molto meglio di 'Malcolm' questa opera seconda, 'The Nephew', pubblicata appena un anno dopo (1960) eppure così incredibilmente diversa. Il taglio espressionista che caratterizzava la surreale avventura del ragazzo bramato da tutti è rovesciato nella prospettiva di un realismo piano e rigoroso. L'enfasi riservata al piano simbolico del racconto è scomparsa, così come le ingenuità inventive e le non rare banalità nella trama. Al loro posto una prova superba in termini di sottile narrazione psicologica. Purdy lascia da parte la pirotecnia dell'azione per farsi cantore eccelso di stati d'animo, di fragili ma sostanziali equilibri relazionali, di vite marginali fatte di ritualità e piccoli gesti. Avrebbe potuto annoiare o scivolare nuovamente (a maggior ragione data l'ambientazione) in un comodo e bieco Gotico Americano, invece risulta commovente. Grandi temi esistenziali rattati con maturità sorprendente ma senza voler imporre né lezioni né la propria morale di fondo. Un anno di distanza, quasi due scrittori diversi: insistere, per quanto mi riguarda, ha pagato. E un certo Cabot Wright lo ha confermato… 

Negli anni della guerra di Corea, gli anziani fratelli Alma e Boyd Mason trascorrono le loro giornate sempre uguali aspettando notizie dal fronte dove il nipote Cliff sta combattendo. Un laconico telegramma che da per disperso il giovane spezza l'incantesimo e disegna per questa anomala coppia una diversa quotidianità: rituali e preoccupazioni nuove per colmare il vuoto ed il silenzio di un'assenza improvvisa. Mentre Boyd vive senza condividerlo con altri il proprio dolore ("Non hai il minimo senso della comunità", lo ammonisce spesso Alma), la sorella decide di scrivere un memoriale sul nipote, una commemorazione infarcita di ricordi personali ed alimentata dalla speranza del suo ritorno a casa. I primi giorni Alma sembra trovare pace e raccoglimento nelle sue confuse meditazioni sul tempo e sul giovane, scoprendosi anche più tollerante nei confronti del fratello. Trascorre molto tempo "a dare, in un modo vago e sognante, nuova forma alla vita di Cliff", cercando di leggere nelle sue stringate lettere dal fronte "quel molto che c'era", specie nelle omissioni, ed il promemoria somiglia sempre più nelle intenzioni alle ricette di cucina scritte da sua madre tempo addietro, "perché qualcuno avrebbe potuto avere bisogno di consultarle quando lei non ci fosse più stata". La speranza tuttavia sbiadisce poco per volta, con la consapevolezza di non avere nulla di significativo da scrivere. La sensazione di aver conosciuto il nipote meno di tutti gli altri, pur amandolo come forse nessuno, diventa certezza man mano che le sue indagini presso i vicini entrano nel vivo. Spiazzata dall'inesorabile ingarbugliamento del tempo, dei ricordi e di verità del tutto ignorate, Alma mette da parte i suoi propositi preferendo tuffarsi anima e corpo nei problemi degli altri, con disagio e perplessità crescenti ma anche con il sollievo di una prolungata evasione dal proprio soffrire. Alla fine saprà però affrontare a viso aperto la realtà con la consapevolezza che ognuno ha le proprie croci, registrando la fine di illusioni e certezze che l'inevitabile chiusura della propria ricerca porta con sé: "il tempo è proprio strano", afferma lei ad un certo punto, "per un po' le cose cambiano impercettibilmente, poi, all'improvviso, sono irriconoscibili".
Ad appena un anno di distanza da 'Malcolm', Purdy torna a raccontare la marginalità di un'America minore riuscendo là dove forse aveva fallito. L'evanescente macchiettismo allegorico dei suoi primi personaggi è rimpiazzato in questo caso dalla superba concretezza con cui viene raccontato il mondo quasi immobile degli anziani fratelli Mason e l'incerto ma sostanziale equilibrio tra loro. Purdy scrive con precisione e finezza psicologiche rare, tratteggiando con realismo affettuoso la sua indimenticabile protagonista in lotta contro l'inesorabilità del fato: i suoi sentimenti franchi e limpidi, la sofferenza dietro al non detto, l'amore non confessato e andato irrimediabilmente perduto, la sua "grigia malinconia" come schermo perenne al senso di una morte mai raccontata ma sempre incombente. Riuscitissimo anche il personaggio di Boyd, razionale, pragmatico ed opportunamente evasivo ("Io ci tengo ad esser sordo quando si parla di certi argomenti"), ma anche fondamentale per mitigare l'istinto della sorella e sostenerne la volontà nei momenti peggiori. Descrivendo in modo acuto ma sincero il loro "specioso presente", servendosi di una narrazione regolare e priva di eccessi inutili o forzature, l'autore riesce a rendere al meglio stati d'animo, pregiudizi ed incomunicabilità nella quiete senza tempo di una provincia ormai perduta per sempre. Una qualità pura, preziosa, che fa di 'Il Nipote' un romanzo commovente ed assolutamente riuscito.

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Cabot Wright Ci Riprova    _letture

 

Ed ecco appunto Cabot Wright. Di nuovo, come in 'Malcolm', un personaggio ideato per restare nella memoria eppure astratto, vaporoso, eternamente sfuggente. Di nuovo una figura che è un concentrato di allusioni, un assortimento di sirene simboliche, e che si conferma alla prova dei fatti non troppo agevole da decifrare. E' sicuramente d'aiuto un finale in cui è resa evidente, nel protagonista di questo romanzo del 1965, la voce quasi da profeta di un James Purdy di molto in anticipo sui tempi nella tabella del disincanto. Proprio come era stato in 'Malcolm', raccontando per iperboli grottesche l'anticonformismo destinato a rivelarsi esplosivo solo qualche anno più tardi. Rispetto all'esordio tuttavia qui c'é molta più consapevolezza, un controllo della materia narrata – decisamente autobiografica visto il ruolo centrale del mondo editoriale e letterario di quegli anni – sufficente a preservarlo dal rischio di scivoloni nel grossolano e nel semplicistico. Non di una banale burla si tratta, ma di un affondo feroce nei confronti di una controcultura emersa con il trionfo del capitalismo e dei moderni mezzi di comunicazione di massa. Più freddezza asettica, meno cuore rispetto ad un testo toccante come 'Il nipote', ma non meno sincerità dietro questo grido di dolore di un americano colto e disorientato. Gustoso per certi memorabili e spietati ritratti, convincente come analisi originale su temi spesso banalizzati quali l'identità, la parzialità di ogni prospettiva soggettiva, il ruolo dell'intellettuale nella società. Anche il titolo italiano è prezioso, racconta la volontà di riscatto di un personaggio in cerca di se stesso attraverso il giusto autore (decisamente meglio di quello della prima pubblicazione Einaudi, 'Un Ignobile Individuo', del tutto inopportuno). Ancora una volta, come negli altri due libri di Purdy che ho qui citato, risulta cruciale il ruolo dello scrivere, del fissare la (propria) verità su carta, del tramandarla. Intento vano, forse, in anni in cui la dimensione visuale ha preso il sopravvento su quella verbale – così come la televisione sulla radio o sulla stampa – e l'apparire ha schiantato la sostanza dell'essere. Vano, dicevo, ma pur sempre nobile ed in fondo benefico, soprattutto per chi scrive: per Malcolm, che vuole regalare alle proprie avventure il giusto spazio perché vengano ricordate; per Alma, alle prese con il memoriale del nipote per affrontare il dolore di una perdita e lasciarselo alle spalle; per Cabot, intento a definire una volta per tutte il proprio passato per potersi riscrivere un domani; ed anche per Purdy, che evidentemente amava così tanto la letteratura da metterla in discussione, per salvarla. 

Bernie Gladhart, omuncolo iper-nostalgico ritratto dal suo autore con delizioso accanimento, è un aspirante scrittore ambizioso quanto mediocre e di eloquenza “piuttosto limitata”. Per la moglie Carrie, porta dentro di sé un grande libro destinato al grande pubblico, ma a mancargli è l’argomento. E’ proprio lei a fornirgli un soggetto valido in Cabot Wright, eroe della cronaca nera di qualche anno prima, condannato alla galera per centinaia di stupri e da poco rilasciato dopo aver scontato la propria condanna. Incoraggiato dalla donna che ha già pronto un valido rimpiazzo amatorio, Bernie si trasferisce a Brooklyn – l’”ano del cosmo” – sulle tracce di Wright, lo incontra addirittura nei panni del tranquillo vicino di casa e scrive un ampio manoscritto rifacendosi agli articoli sulle riviste e alle cronache giudiziarie. Assunta dallo stesso editore di Gladhart e con il medesimo incarico, la sua conoscente Zoe Bickle propone all’ex maniaco di rielaborare a quattro mani il testo di Bernie. Lei mira a trarne un prodotto vendibile, mentre per lui è l’occasione buona e forse definitiva per fare chiarezza nel proprio nebuloso passato e ritrovarcisi, alla fine (“Ho sentito raccontare la mia vita tante di quelle volte che mi pare la storia di un altro”). Attraverso le interazioni di questi improvvisati collaboratori, veniamo a conoscenza delle incredibili vicende della vita di Cabot: un matrimonio fallimentare, la stanchezza cronica, il misterioso trattamento medico/psichiatrico intrapreso, la sua repentina metamorfosi in criminale dai modi garbati e poi un autentico tourbillon di avvenimenti tanto assurdi quanto sconvolgenti, vissuti dal protagonista con impressionante distacco. Nei resoconti Wright pare davvero aver condotto la propria esistenza sotto anestesia, privato sempre più di ogni interesse proprio come tutti gli altri rispettabili cittadini americani, uomini e donne che “odono, ma non intendono” e “vedono, ma l’immagine è sfocata”, mentre la pioggia “cade sugli schermi delle loro TV”. L’incontro tra i due sembra dare comunque buoni frutti. Insieme romanzano in maniera febbrile il materiale raccolto da un Bernie ormai sempre più disperato ed avulso dalla realtà. Zoe si esalta scoprendosi romanziera ed aggiunge colore alla fredda cronaca, Cabot ritrova smalto poco per volta vedendo prendere forma una versione dei fatti autentica dietro il proprio mito: “un sedimento finissimo delle vaghe, assurde, frustranti, incongruenti minuzie di una vita”. Il re degli editori di New York, da sempre più che entusiasta del progetto, boccia però senza appelli ‘Macchia Indelebile’ dopo averlo proposto preventivamente al gotha della critica. Un responso negativo dovuto non tanto al tema della violenza carnale (considerato addirittura fuori moda) bensì al fatto che nel racconto il protagonista si imbatta solo ed esclusivamente nei rappresentanti di un’America poco edificante – ad esser generosi – e si venga imbottiti di “anormalità e pensieri corrosivi”. Fantastica la giustificazione di Purdy a proposito di questo fallimento: il libro è definito oscuro, scoraggiante, inquietante, sordido ed assolutamente privo di qualsivoglia richiamo per il lettore in quanto non soltanto sporco ma anche troppo ben scritto, quindi difficile, senza la minima traccia di una comoda attrattiva. Nonostante il rifiuto o forse proprio grazie ad esso, alla fine Cabot Wright si dice guarito dalla stanchezza, dalla noia e dall’assenza di emotività. Dopo aver solamente ridacchiato per anni, ha imparato a ridere. Dopo aver raccontato a Zoe la propria storia, è finalmente libero di dimenticarsela, di dimenticare se stesso e di iniziare una nuova avventura ai margini della società, da homeless.

Colpisce come nell’amarissimo finale, dove si sostiene per bocca di Zoe che “non vale la pena essere uno scrittore in un posto e in un’epoca come questi”, lo stupratore seriale Cabot wright appaia nella sua purezza priva di cattiveria o cinismo quasi alla stregua di un gentiluomo vecchio stampo, che fa simpatia perché non agisce per secondi fini e diventa suo malgrado oggetto delle attenzioni ben più morbose di una società nuova ed ipocrita, di una borghesia spietata, ignorante ed arrivista che non ha costruito la propria fortuna ma si è limitata ad ereditarla. E così il libro di Purdy diventa un pamphlet feroce sull’inutilità dello scrivere, della letteratura, in un contesto in cui falsità e mediocrità propinate a tutto campo soprattutto dal mezzo televisivo definiscono l’agenda culturale e condizionano nel profondo il modo di pensare (e di essere) di un’intera nazione. E’ questo nuovo grande spaccato sull’insensibilità della sazia ed annoiata America alto borghese degli anni sessanta a colpire nel segno: il necrologio prematuro di una “nazione di meduse congelate”, dove “a nessuno piace più nulla”, dove si violenta per noia, dove conta solo fare soldi ed apparire eternamente belli e giovani (memorabile nella sua miseria il personaggio della vacua Goldie). Che i limitati riscontri di critica e commerciali dei suoi primi romanzi abbiano accentuato la piega pessimista dello sguardo di Purdy è cosa pressoché certa, ma in ‘Cabot Wright ci riprova’ il disincanto appare comunque totale: lo si intuisce dall’alone quasi terapeutico con cui vengono presentati per il protagonista i “Sermoni” del vecchio Warburton, deliri xenofobi ma anche canto del cigno di una classe sociale autoritaria eppure rigorosa, fondata su solidi valori. Emerge qui il senso di disorientamento in cui è facile riconoscere la modernità di un romanzo che Purdy scrisse in anni di cambiamenti cruciali, non solo sul piano sociale e culturale ma anche in termini di dinamiche della comunicazione, nella trasformazione dei cittadini in consumatori, nella radicale falsificazione e nella mercificazione di realtà dolosamente artefatte, gli albori della cosiddetta fiction descritti con impressionante e profetica visionarietà. L’elite letteraria newyorkese non gradì l’attacco, forse perché fu costretta ad identificarsi nel grande editore senza scrupoli Princeton Keith e nel suo inesorabile fallimento. Anche lui, comunque, almeno una perla la regala: “la maggior parte dei libri viene al mondo facendo meno rumore di un bambino nato morto”. Una critica che non si può certo rivolgere a Purdy ed alla prosa cordialmente spietata di un romanzo attualissimo come ‘Cabot Wright ci riprova’.

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Soffocare                        _letture

 

Finalmente Palahniuk, finalmente all'altezza della sua fama. Dell'idolatrato autore di 'Fight Club' avevo letto sino ad oggi solo 'Rabbia' e 'Ninna Nanna', libri deludenti per più di una ragione. In entrambi i casi l'impressione era stata quella di un pugno di idee grandiose portate avanti anche egregiamente sino ad un certo punto (davvero ottima ad esempio tutta la prima parte di 'Rabbia', come pure l'espediente stesso del romanzo/inchiesta), e poi irrimediabilmente affogate in un gorgo di pasticciate assurdità, tradotte senza grande convinzione in fantafumetti deliranti ed anche un po' irritanti. Con 'Soffocare', al contrario, Palahniuk riesce ad essere concreto anche distribuendo iperboli come suo solito, maneggia una materia meno instabile ed esplosiva ma senza voler strafare a tutti i costi, quindi conducendo in porto la nave. Lettura leggera senza essere banale, dissacrante nell'affrontare vecchi tabù con sguardo maligno ma legittimo e soprattutto spassosissima. Ci sono stati passaggi in cui mi sono trovato a ridere da solo come un idiota, tanto era vivo il sarcasmo del racconto. Cinismo amichevole quello di 'Choke', duro e crudo ma intelligente e mai gratuito. Non un capolavoro – a questo punto dubito che l'autore ne abbia scritti, 'Fight Club' è in attesa anche se la lettura partirà condizionata dall'inevitabile fardello dei rimandi al film di Fincher – ma comunque un'opera capace di parlare dell'oggi senza giocare ad imitarlo, senza trincerarsi dietro facili trucchetti gergali o modaioli. Il sesso resta il coprotagonista del libro: franco, per nulla scabroso, narrato quasi con gli occhi di un maturo adolescente. Sarà forse per merito di questa prospettiva giovanile (ma non giovanilistica), oppure per via dello stupefacente disincanto che anima tutte le fasi cruciali nella narrazione, di certo 'Soffocare' riesce a catturare dalla prima all'ultima riga e non stanca. Impresa ardua per un vero amante delle reiterazioni e dei refrain killer come Palahniuk.

Il roboante viaggio nella progressiva alienazione di Victor Mancini, figlio paranoico e mai abbastanza amato di una madre decisamente fuori dal comune, figurante in un finto villaggio coloniale per turisti e scolaresche, truffatore con anima da samaritano e ricca inventiva, sessodipendente in cura ma senza significativi margini di miglioramento.  Difficile dire quale di queste quattro dimensioni sia quella sviluppata con maggior acume da un Palahniuk davvero cattivo ed irriverente. Di certo la gustosa miscela dei tanti spunti azzardati risulta brillante e consente di mettere a fuoco riflessioni non banali sugli squilibri di una contemporaneità allucinata e priva di grandi speranze, in barba al progresso sempre celebrato come idolo. Memorabili in tal senso alcune battute lapidarie messe in bocca al protagonista, specchio fedele di un’America emotivamente anestetizzata, incapace di affrontare e sanare i propri conflitti irrisolti e regno di una omologazione sempre più feroce: <<la mia vita sta prendendo una piega tale che mi sembra di recitare in una soap opera guardata dai protagonisti di una soap opera guardata da gente reale in un luogo imprecisato>> o, anche, <<più vado avanti, più mi sembra di vivere facendo una pessima imitazione di me stesso>>. Il rapporto di Victor con la madre è assolutamente cruciale, come evidente dal montaggio alternato di un presente di miserie (emblematici i rituali jamais vu nella casa di cura, dove il nostro si spaccia ora per questo ora per quell’ex avvocato della donna) ai frammenti di un passato tutto sconquassi per via del tormentato legame con la genitrice, scriteriata anarcoide esponente di un non meglio precisato “terrorismo cosmetico”.  Meno rilevanti (e poco raccontati, nonostante il richiamo nel titolo), ma pur sempre indispensabili per rendere la complessa interiorità del licenzioso antieroe, i suoi espedienti per far soldi e pagare le cure alla madre: un breve quanto maniacale affresco, utile a cogliere il senso di implicita sudditanza di Victor nei confronti degli altri (e sorta di emblema degli squilibri insiti in ogni relazione sociale). In un romanzo che parla di pazzia in termini di ossessione e dipendenza, anche la soggezione verso l’altro gioca un ruolo di primo piano: per sentirsi buoni, degni, “divini” quasi. E così Victor Mancini simula soffocamenti in pubblico e, facendosi salvare dall’improvvisato eroe di turno, gioca a dare un senso alla vita altrui, oltre che alla propria: <<questa persona sarà fiera di te perché tu l’hai fatta sentire fiera di se stessa>>. E ancora, con ironia nera e cinismo d’alta scuola: <<potresti addirittura essere la buona azione di una vita, il ricordo che in punto di morte giustifica un’intera esistenza>>. Inevitabile che, proprio come il sesso e come la madre, anche questo gioco diventi una droga e, in quanto tale, presenti alla fine il suo conto al protagonista. Per una volta Palahniuk sa essere concreto anche senza rinunciare alla sua classica vena surreale, al suo inconfondibile stile pop-noir eccentrico ed iperrealista. Di più, riesce veramente spassoso, impietoso, amaro ma divertentissimo (esemplari le pagine dedicate alle pazienti della casa di riposo, con la sentenza fenomenale: “tanto varrebbe tentare di ridipingere una casa in fiamme”). Soprattutto, per una volta, si dimostra capace di confermarsi su alti livelli senza mai sbracare, specie per merito del ribaltamento finale della prospettiva. Anche in ‘Soffocare’ non mancano richiami messianici e viaggi nel tempo, ma l’autore se ne serve come pretesto per esplicitare il tema sempre più inesorabile della follia. Il delirio abbracciato in chiusura da Victor, dall’amico Danny, dalla sbiadita Beth e dalla misteriosa Paige Marshall, diventa l’unica possibile via di salvezza in un mondo che sembra aver smarrito ogni significato insieme al senso del limite. Lo dimostra chiaramente la madre del protagonista, altro personaggio che in questa realtà alla rovescia parrebbe vaneggiare ed invece si dimostra l’inossidabile baluardo di una ragione altrimenti perduta: <<L’America ha uno slogan: “Mai abbastanza”.  Niente è mai abbastanza veloce. Abbastanza grande. Non siamo mai contenti. Cerchiamo sempre di migliorare>>, anche se questa è una triste chimera. Solo una delle tante illusioni di cui è infarcito il romanzo, la più riuscita delle quali rimane forse il passato fasullo – per metà Disneyland, per metà Alcatraz – di Colonial Dunsboro. Veramente irresistibile.

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Disturbing the peace      _letture

 

OK, mi tocca fare ammenda per esserci arrivato tardi. E facciamo ammenda. Come scritto con l'avvio di questa nuova rubrica, ho ricominciato solo da poco e Yates, beh, proprio non lo conoscevo. Avevo sentito parlare di lui quando uscì l'adattamento cinematografico di 'Revolutionary Road' con relativa schiera di scintillanti star hollywoodiane, ed è a quel punto che mi sono annotato il nome. Ovviamente ignoravo del tutto che Yates fosse morto da quasi vent'anni, né potevo anche soltanto immaginare i dettagli della rocambolesca vita dello scrittore di Yonkers. Ne ho letto la biografia solo dopo aver consumato, letteralmente, il romanzo in questione, trovandovi come ovvio una serie impressionante di parallelismi. Curioso come l'intesa con Yates sia stata subito perfetta, nonostante 'Disturbo della quiete pubblica' venga ancora considerato da molti il suo peggior lavoro. Non avendo letto altro di Yates non ho modo di fare confronti, ma che questo sia il peggio mi sembra quantomeno difficile da credere. Più probabile che rientri nello standard dell'autore, essendo per il sottoscritto decisamente elevato. Un romanzo che scorre fluido pur svelando un po' per volta scorie di pessimismo radicale senza valide consolazioni. Un romanzo lucidissimo, a differenza del suo protagonista, impietoso più che verso di lui nei riguardi dell'intera società americana degli anni di Kennedy. Yates obbliga il lettore a fare i conti con lo sgradevole John Wilder, ad immedesimarsi in lui riconoscendovi le proprie peggiori ossessioni, i propri sogni più biechi e le aspirazioni di ogni perdente che speri di non essere tale. In questo senso Wilder non può essere antipatico, anche se diventa insostenibile fare il tifo per un genitore e marito scriteriato come lui. Ci si aggrappa ai suoi sogni di meschino per forza di cose, forse ben sapendo che le cose non andranno comunque a finire come lui avrebbe voluto. E' forse la sua follia, proprio lei alla fine, a definire i cortocircuiti necessari a preservarci dall'immedesimazione piena, a ridestarci quasi mentre il protagonista pare cedere al sonno della ragione. Una precauzione sufficiente a lasciare tra le pagine un'angoscia che nelle intenzioni di Yates andava forse estesa a tutto il contesto e a tutta un'epoca: quella della fine delle illusioni. Un libro eccezionale.

Una "vita d'ordinaria follia" quella di John C. Wilder. Follia pura, perché tesa ad assumere i contorni di una progressiva condanna, perché germogliata inesorabile dai semi dell'autodistruzione; ed ordinaria anche, riflesso di un personaggio tetro quanto si vuole ma spaventosamente autentico, genuino nella sua irriducibile ed umanissima mediocrità.
Il romanzo di Yates, da molti considerato a torto uno dei suoi lavori minori, è tutto racchiuso nel suo straordinario protagonista: venditore di successo eternamente insoddisfatto, attore e bugiardo per indole, razionale sino al paradosso, camaleontico come un novello Zelig, opportunista e cialtrone capace però anche di grande umanità. Un borghese terra terra che sembrerebbe in grado di poter dire la sua, che vorrebbe trovare a tutti i costi l'ordine dal caos ma alla fine è travolto dai propri limiti e deve arrendersi. Yates fotografa ad un tempo gli anni del suo crepuscolo e di quello parallelo di un'America bruscamente ridestatasi dal sogno dell'era Kennedy. Lo stile è secco, incredibilmente asciutto, senza forzature teatrali, senza compiacimento, con un distacco calibrato che non esclude forti richiami autobiografici e soprattutto non giudica il suo antieroe. Un personaggio sgradevole questo Wilder, ma in fin dei conti non così antipatico da negare una qualche identificazione nei suoi confronti o la partecipazione sincera alle sue tristi vicende. Nell'alcool ha i propri demoni, quelli che annientano maschere e facciate per ripiombarlo alla fine in un baratro di gelosie, volgarità, vili meschinità ma anche umanità, in fondo, pure nella pazzia. Il colpo di genio sta in quella sorta di meccanismo meta-narrativo architettato dall'autore grazie allo stratagemma del film sulla prima esperienza di Wilder in manicomio. In questo modo leggiamo di John non solo in cronaca diretta ma anche attraverso la proposta di un oscuro sceneggiatore chiamato a dire la sua per rendere meglio vendibile la storia di Wilder al Bellevue di New York: un abbozzo di copione che si rivelerà quanto mai profetico.
Un grande ed impietoso romanzo che può ricordare vagamente 'Corri Coniglio' di Updike: con meno dissertazioni esistenzialistiche, maggior concretezza ed una critica più puntuale alla società americana. 

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Malcolm                        _letture

 

Incrociato quasi per caso in un'infruttuosa ricerca in biblioteca, questo romanzo d'esordio dell'autore dell'Ohio mi si è presentato la scorsa settimana con premesse interessanti, andate poi per lo più in fumo alla prova dei fatti. Incoraggiante la sua presenza nella scuderia Minimum Fax, recente veicolo di ottime sensazioni per il sottoscritto grazie a Richard Yates e al suo 'Disturbo della quiete pubblica' (di cui scriverò prossimamente). Bella la copertina, bello l'elogio di Gore Vidal sulla quarta, curiosa la trama abbozzata in sintesi proprio lì a ridosso. Il nome di Purdy poi non mi era del tutto sconosciuto: me l'ero annotato un secolo fa dopo averlo letto in abbinamento ad un altro commento alquanto lusinghiero, in un libercolo sui migliori libri di autori stranieri del novecento, uscito con l'Europeo forse nel 1985 ed incontrato diversi anni dopo in mezzo ad altre cose dello stesso genere, in una delle librerie del mio vecchio. Il testo magnificato in quella specie di breve recensione era un altro, '63: Palazzo del Sogno', la primissima raccolta di racconti che Purdy riuscì a pubblicare nel 1956, tre anni prima di questo 'Malcolm'. Nel frattempo l'autore ha avuto tutto il tempo di essere dimenticato, riscoperto e, fra una cosa e l'altra, di passare a miglior vita (neanche due anni fa). Memore di quelle lontane ma entusiastiche parole ho preso senza indugi il libro dallo scaffale insieme ad un altro dello stesso autore che a breve attaccherò. Buone sensazioni presto svanite, quindi. Se l'idea di fondo è valida, i buoni spunti non mancano e l'interpretazione simbolica riesce abbastanza agevole, il romanzo soffre comunque per l'eccessiva debolezza nelle caratterizzazioni (troppo "pallido" il protagonista, troppo caricati ed inverosimili i personaggi di contorno), per la contenuta visionarietà del piano descrittivo (con un soggetto di questo tipo sarebbe stato preferibile osare molto di più) e per l'insistito ricorso a dialoghi tutt'altro che memorabili. Poi certo, a posteriori si possono cogliere ulteriori riferimenti validi a livello complessivo, ma nel presente della lettura 'Malcolm' ha mostrato molto meno mordente di quanto era lecito attendersi e praticamente non è mai decollato. Non un brutto libro in fin dei conti (il finale per esempio non è affatto malvagio), ma incapace di coinvolgermi in un vero trasporto e di lasciarmi qualcosa di più profondo che una bella immagine di tanto in tanto. Spero che 'Il Nipote' sia meglio e poi ci saranno quei vecchi elogi da verificare, sempre che io trovi da qualche parte quella prima opera tradotta in italiano una vita fa. Forse che siano i racconti brevi la dimensione idonea ad uno scrittore comunque da riscoprire come James Purdy?

Chi è Malcolm? Soltanto un innocuo giovanotto senza radici, un respiro vitale che tutti bramano o il simbolo di una generazione ormai pronta a ridestarsi dal sogno americano? La chiave di lettura simbolica pare la sola praticabile per questo primo romanzo di James Purdy, per quanto la prosa poco incisiva non aiuti il lettore nel riconoscimento delle metafore o nell’apprezzamento della loro forza, invero alquanto relativa. Scrittura dal chiaro intento mimetico quella di ‘Malcolm’, specchio fedele di un protagonista innegabilmente unico ed originale. “Non mi pare che tu sia molto sveglio, ma hai un certo fascino ed un’aria di…innocua amicizia”, afferma il pittore Kermit dopo il primo incontro con il misterioso ragazzino. Ed innocuo in realtà Malcolm pare esserlo sul serio: impalpabile, trasparente, imbambolato senza volontà o sostanza, senza polpa, sangue, carattere, in balia di situazioni quantomeno grottesche e di una schiera di adulti eccentrici e deliranti, al cospetto dei quali risulta addirittura il personaggio più maturo ed equilibrato. E’ un’impressione, ovviamente. In qualità di contemplativo perennemente distratto, Malcolm somiglia ad un novello Forrest Gump all’incontrario, in netto anticipo sul protagonista del film di Zemeckis: seduto sulla sua panchina in attesa di una compagnia che gli porti delle storie, anziché raccoglierle da lui. Del tutto ingenuo, incapace di mentire, disarmato dall’inesperienza, è attore fuori contesto, fuori parte, nell’ambiguo microcosmo in cui si trova suo malgrado a recitare. Forse per questo motivo in tanti hanno letto (col senno di poi) nel suo moderno smarrimento quello dei giovani degli anni sessanta, belli ed invidiati dagli adulti ma in fondo orfani come Malcolm ed incapaci di comunicare con le altre generazioni, ormai segnati da un clima di disillusione radicale: “Non riesco ad avere un’opinione su me stesso” – sostiene lui ad un certo punto – “mi sembra quasi di non esistere”. L’aver captato, anticipato e trasfigurato certi umori generazionali, quel senso di profonda disperazione appena attenuato dal taglio onirico delle vicende narrate, è forse il massimo pregio di un romanzo per altri versi mai troppo riuscito. Anche se l’intento ironico di Purdy si rivela in più frangenti, a prevalere è quell’amarezza di fondo mal supportata dall’eccessivo schematismo di una scrittura macchinosa, ripetitiva e senza lampi autentici. Di momenti gustosi o almeno divertenti se ne incontrano ben pochi ed i dialoghi per lo più fumosi, qua e là demenziali ma veramente a fuoco solo di rado, hanno l’irritante tendenza a soffermarsi come la trama e come il protagonista solo su dettagli poco significativi, privilegiando uno sguardo ingenuo, infantile e non esente da banalità. Così, arrivati all’ultima pagina, torna in mente un’affermazione-tormentone, partorita ora da un personaggio, ora da un altro: “Ho l’impressione che la vita stia per cominciare”. Ecco, la sensazione a giochi fatti è che non si possa dire la stessa cosa a proposito di questo libro.

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L'arcobaleno della gravità  _letture

 

Ed ora qualcosa di completamente diverso. Beh no, non proprio. Con questo post intendo inaugurare in effetti una nuova sezione, quella delle letture, anche se il criterio sarà il medesimo già adottato per i dischi recensiti altrove. Ci starebbe un preambolo più o meno ampio sul mio rapporto con i romanzi, ma cercherò di farla breve per non annoiare. In passato ho sempre letto parecchio (alle medie e al ginnasio ero un mostro in questo senso) ma con gli studi universitari ben avviati questa passione ha subito uno stop brusco quanto non ben motivato: manuali e libri di testo, saggi in abbondanza, ma letteratura sempre meno e con sempre minor entusiasmo. Dopo la laurea lo zero assoluto, solo musica a getto continuo. Bene, la scorsa primavera ho ricominciato timidamente a leggere e non mi sono più fermato. Devo ammettere che ho scelto di trattarmi discretamente bene: il libro del "nuovo inizio" è stato la 'La versione di Barney', che volevo affrontare sin dai tempi del suo imprevisto boom italiano, quindi dieci anni o giù di lì. Tra gli altri mi sono dilettato con opere veramente ottime come 'La Schiuma dei Giorni' di Boris Vian, 'Eureka Street' di Robert McLiam Wilson e 'Hey Nostradamus' di Douglas Coupland, autori che non conoscevo minimamente. Poche le delusioni – e comunque parziali – legate a grossi calibri come Houellebecq o Palahniuk di cui avevo sempre sentito dire cose strepitose. Con 'Corri Coniglio' di Updike ho invece iniziato ad affrontare alcuni classici del romanzo americano del dopoguerra, annotati nella mia agenda da tempo immemore. La vera impresa in tal senso è stata rappresentata da questo colosso, un testo che mi feci regalare anni fa e che iniziai a leggere due o forse tre volte, senza riuscire mai ad arrivare neanche alla centesima pagina (su quasi mille, con carattere microscopico e margini striminziti). Avercela fatta ora in un mese scarso, per giunta con buona continuità d'impegno anche nei momenti di maggior pesantezza mi ha convinto della bontà di questa mia fase di rinnovato interesse per il romanzo. Non credo che ricadrò in un buco di alcuni anni come l'ultima volta, anzi. Con 'Gravity's Rainbow' è mia intenzione fissare su questa pagina anche dei brevi resoconti dei testi appena terminati, come da mia recente tradizione su Anobii. Se è vero che io non posso spacciarmi per critico musicale nonostante la già discreta mole di recensioni e live report pubblicati online su vari siti negli ultimi quattro anni, è assolutamente ovvio che non possiedo alcuna qualità né quelle necessarie competenze che facciano di me un critico letterario. Ho scritto e scrivo questi pezzi (i vecchi evito di riportarli qui ma lo farò con i nuovi d'ora in avanti) solo per puro piacere personale, come traccia della lettura o per ricordarmi in futuro cosa mi aveva colpito di un determinato romanzo o autore. Scrivo da dilettante, come sempre, e questa è la vera linea comune con le recensioni di dischi e concerti. Un ultimo chiarimento prima del pezzo scritto per Anobii (purtroppo non lo si può linkare direttamente. Il link dalla prima immagine porta direttamente al mare magnum delle recensioni in italiano sull'opera di Pynchon): non mi sento di consigliarlo anche se è di un capolavoro che si tratta indubbiamente. E' un'opera che richiede una pazienza assoluta nel lettore, un libro monumentale e forbitissimo che tende a sviare, illudere, annebbiare, per poi tornare sul sentiero e divagare nuovamente, lasciando una serie di impressioni più generali, un senso diciamo, ma non permettendo di cogliere una miriade di riferimenti culturali a tutto campo. Può essere spossante, sgradevole anche. Nella parte finale deraglia evidentemente dai binari della logica ma non smette di rivelare un suo oscuro fascino, un personale magnetismo. Ed è scritto bene, veramente bene. Se non li conoscete comunque, ed avete voglia di abbandonarvi a qualcosa di non così ferocemente impegnativo, approfittate dei primi quattro titoli che ho citato più su. Difficilmente resterete delusi.

Opera apocalittica e dissacrante, autentico Moloch letterario, ‘Gravity’s Rainbow’ è considerato a ragione un capolavoro tra i romanzi postmoderni. Servendosi di una scrittura farcita, stracolma di citazioni, motti, arguzie, poesie e canzoni, una prosa febbrile – discontinua e coltissima – che stordisce ed affascina, Pynchon delinea un personale affresco simbolico su vecchi e nuovi miti, sulla guerra fredda, sulla paranoia individuale e collettiva come specchio di un irriducibile baillamme emotivo e sociopolitico, sull’identità negata e sulla prevaricazione che condiziona ogni forma di rapporto tra esseri umani. Gli insistenti richiami alla storia (meglio, alle storie), alla scienza ed alla tecnologia, sono solo il vestito di un testo che in realtà intende raccontare il continuo presente di un’umanità dal passato incerto e senza alcun futuro, anche se immortale: abbruttita, brutale, infelice e mai veramente libera. Come la lampadina Byron, capace di una presa di coscienza su di sé eppure condannata all’impotenza, al rancore e alla solitudine.  Le prime tre parti del libro (Londra sotto i razzi tedeschi, vicende al Casinò Hermann Göering, peregrinazioni nella Zona) sono costruite da Pynchon per accumulo dando l’illusione di un disvelamento della realtà che sarà poi negato dall’incredibile vortice scatenato nell’ultimo capitolo. La trama è costantemente tradita, resa incerta da uno sproposito di ellissi, ubriacata dall’aprirsi frenetico ed improvviso di sottotrame, di sottotracce, di lunghe parentesi nelle parentesi. Il bello della scrittura dell’autore sta proprio in questa invadente ed inebriante confusione di spunti, sempre e comunque ricondotti all’origine del senso, strappi immancabilmente ricuciti o rabberciati con una bella sfilza di topoi (in guisa di toppe), avendo cura di guidare il lettore, di tirare sempre le fila della sua attenzione, di aiutarlo ad uscire dalla pazza foschia alzatasi nella messe di rimandi profusa. Assumono i contorni di lunghe narrazioni oniriche e minacciose queste prime tre parti, realtà sospese, illusorie, policrome e cangianti, come l’arcobaleno appunto, un teatro dell’assurdo in cui però tutto e tutti sono strettamente collegati da un unico filo, dove quasi nessuno muore e chi muore è come obbligato a riemergere in qualche delirante seduta spiritica. Poi nell’ultima parte questo sfiancante gioco di digressioni, di specchi deformanti, condito dall’immancabile humor caustico e dalla sublime predilezione per il grottesco si chiude dopo l’impennata, avviandosi ad una rovinosa caduta verso il caos. Un crollo progressivo ma repentino, inesorabile, con lo sfarinamento della trama e delle pur labili certezze del lettore in un marasma che certifica ed elegge a modello la nullità dei confini tra passato e presente, le già fragili separazioni tra plausibile e fantastico, miscelando in un mixer allucinato i tratti portanti dei vari personaggi principali con l’imporsi della gravità che trascina il razzo al suolo. Non c’è inizio, non c’è fine. Ogni logica è sconfessata insieme al principio di causalità – in barba a Pavlov e al suo modesto devoto officiante Pointsman – e inevitabilmente ci si perde senza più appigli validi. Tyrone Slothrop è quanto di più simile ad un protagonista in questo ribollente mosaico di figurine di carta, ma forse è solo uno specchietto per allodole, schiantato in una impietosa frammentazione identitaria che i suoi tanti nomi (lo Slothrop presente e i suoi avi-duplicato, Rocketman, Ian Scuffling, Max Schlepzig, il mitico maiale Plachazunga) evidenziano e che la sua picaresca odissea nella Zona non solo non può colmare ma rende anche quanto mai drammatica ed evidente, irrisolvibile. Un po’ come questo titanico capolavoro, difficilissimo da assimilare, impossibile da trattenere.
 

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