Month: maggio 2012

Dum Dum Girls @ Spazio211    03/04/2012         _ Il nostro (altro) concerto

      

Dai Sea, raccontaci un’Astoria! Va bene, ma solo perché è da lì che devo cominciare questo resoconto sulle Dum Dum Girls a Torino. C’era una volta l’Astoria, appunto, e a quanto pare c’é ancora. Ma che fatica! Partito senza essere pronto con un live dei Cults dirottato all’Hiroshima, poi un paio di concerti cancellati quasi sul traguardo (Is Tropical e Summer Camp, se non ricordo male), e infine un altro pacco di imprevisti con lo spostamento allo Spazio di quest’altro show (e forse anche altri, immagino): se sulla carta le intenzioni del locale di San Salvario erano più che lusinghiere, i tanti errori della prima stagione non possono che aver raffreddato gli entusiasmi. Non è mai decollata la programmazione, sempre molto attenta alla novità straniera ma incapace di regalare nomi davvero forti (sempre artisti esordienti e scommesse ancora tutte da vincere, tranne forse i Black Lips, che pure non sono la mia tazza di the), e ha soprattutto influito in negativo la dimensione della sala concerti e la sua collocazione underground (un grosso scantinato in pratica, davvero angusto per ospitare band di un certo rispetto). Nonostante le premesse, insomma, l’Astoria non ha saputo rappresentare il salto di qualità per una città che, dopo i fasti di Studio2, Big Club, Barrumba ed Hiroshima, e con lo Spazio ormai condannato ad un sempre più nero anonimato (e quando capitano belle serate – tipo quella di tre giorni fa con gli Obits di Rick Froberg – si scade nella figuraccia con trenta/quaranta spettatori malcontati), si sta ritrovando sempre più a secco di validi concerti di musica alternativa.


Tutta questa lunga disquisizione/lamentela quasi per non parlare della già citata tappa cittadina delle Dum Dum Girls. Non perché si sia trattato di un live particolarmente scialbo (come avevo temuto) o dannatamente breve (come quello della cantante Dee Dee con il marito Brandon Welchez, lo scorso anno), ma proprio per quel carattere da “senza infamia e senza lode” che ha quasi inevitabilmente espresso. Per una volta devo confessare di aver fatto poca attenzione alla parte musicale. Canzoni che mai mi sognerei di etichettare come garage, ma che pure sono scivolate via senza risultare sgradevoli (alcune, in realtà, niente male, tipo la loro classica ‘He Gets Me High’ o l’apprezzabile cover di ‘Sight of You’ dei Pale Saints); una buona convinzione da parte di tutte le musiciste (la batterista dagli occhi a mandorla resta la migliore del lotto) e soprattutto gran sfoggio d’avvenenza, con sugli scudi la nuova bassista Malia James (che rimpiazza quella storica con i capelli rossi) e proprio la diva Dee Dee, da me ritenuta praticamente insignificante fino a questo show per poi venire completamente riabilitata dopo un’ora abbondante trascorsa a quaranta centimetri da lei e dal suo bellissimo caschetto. Intendiamoci, non di un fenomeno si tratta: con la chitarra è parsa bravina, ma niente più, mentre la sua prova vocale è risultata tutto fuorché indimenticabile. Ci sta, in un genere sulla carta più aggressivo (sulla carta eh) e più suonato non è così fondamentale il cantato. L’apparire si è ritagliato allora quasi naturalmente il grosso dello spazio e delle attenzioni, e per una volta si è trattato di un risvolto anche divertente. Hanno fatto la loro figura da attrici brave e consumate queste Dum Dum Girls, e tanto basta a promuoverle tra le cose migliori passate a Torino in una stagione desolante. Per il resto, non credo ci sia in giro qualcuno così pazzo da pretendere che siano proprio loro a salvare il rock. Quindi bene così, sperando che al prossimo giro si possa davvero raccontare tutta un’altra Astoria…

SETLIST: ‘He Gets Me High’, ‘Catholicked’, ‘I Will Be’, ‘Wasting Away’, ‘Rest of Our Lives’, ‘Bedroom Eyes’, ‘Bhang Bhang, I’m a Burnout’, ‘Jail La La’, ‘Always Looking’, ‘Hold Your Hand’, ‘I Got Nothing’, ‘Sight of You’; ENCORE: ‘Coming Down’.

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Leopardo o medusa?

       

Comincia a diventare davvero difficoltoso riuscire ad orientarsi nella selva di pubblicazioni legate alla ditta Skygreen Leopards. Se l’impresa pare disperata parlando di Glenn Donaldson, chitarrista e cantante con all’attivo una quarantina di album in neanche tre lustri (con una quindicina di progetti diversi, tra cui il supergruppo Badgerlore con Ben Chasny e Grouper), complicata per giunta dalle copiose uscite del gruppo principe, un po’ più agevole dovrebbe essere la catalogazione dei lavori dell’altra metà della band di San Francisco, quel Donovan Quinn che ha sin qui messo a referto due dischi sotto il misterioso alias Verdure, uno a proprio nome ed altri tre con l’aggiunta dell’etichetta “& The 13th Month”. L’ultimo del lotto è questo ‘Honky Tonk Medusa’, arrivato in sordina a febbraio e passato pressoché inosservato (per dire, neanche un nuovo video su youtube da postarvi in fondo), anche più del pregevole album eponimo e del successivo ‘Your Wicked Man’. Non farà certo la storia della musica questo ennesimo oscuro songwriter yankee, e nelle sue corde non ci sono mai stati capolavori. Se lo stile assembla in maniera personale idee già strametabolizzate, la voce è di quelle che possono lasciare seriamente perplessi, nella sua pedissequa devozione verso il Dylan più lagnoso e disimpegnato. Non sembra proprio una grande pubblicità quella racchiusa in queste stringate righe, ed assicuro che nemmeno intende esserlo. A difesa di Quinn mi tocca però spezzare qualche lancia, sostenendo che di un artista abbastanza genuino si tratta, di quelli che poco si curano dell’apparenza preferendo seguire il proprio sentiero capiti quel che capiti. Artista borderline, è bene ribadirlo, di quelli che chiedono pazienza e non è detto la ripaghino. ‘Honky Tonk Medusa’ non aggiunge nulla a quanto detto dai predecessori e soprattutto dai migliori Skygreen Leopards (‘Jehovah Surrender’ e ‘Disciples of California’, per quanto mi riguarda), insistendo su uno standard di musica delle radici a metà strada tra folk e country senza essere né l’uno né l’altro, forse anche per merito delle sottili contaminazioni (lo-fi, psichedelia assai vaga) che la incrociano senza soluzione di continuità.

Il cantautorato  molle ed indolente di Quinn si muove dunque su binari sempre molto classici, senza guizzi da virtuoso ma con la regolarità e la disinvoltura di poche illuminazioni anche intriganti. L’indole introversa ed amabilmente sfuggente, il controllo, l’essenzialità, l’aderenza ai propri cliché prediletti, trovano conforto in un’impronta sonora tra Saddle Creek e Jagjaguwar sempre parca negli arrangiamenti, efficace per la resa emotiva, scarna ma non tetra ed a suo modo indimenticabile. Per quanto sia proprio tutto fuorché pirotecnico, Donovan Quinn dimostra di conoscere bene i trucchi del bravo cantautore, quello attento a svelare la meraviglia nascosta nell’ordinario, e riesce anche nell’intento di rendere appetibilmente vario un lavoro dagli ingredienti altrimenti limitati. Il fantasma di Mr. Zimmermann torna a far capolino solo nel voce e chitarra d’altri tempi relegato alla traccia numero cinque, ‘Shadow On the Stone’, dopo aver rasentato il plagio soprattutto nel primo album condiviso con il “tredicesimo mese”. Questo consente di lasciare un po’ più spazio alle sorprese, a cominciare dagli echi di Twin Peaks che introducono la ballad narcotica ‘My Wife’, degna di un Simon Joyner minimalista, per proseguire con il numero à la Conor Oberst (la voce che si fa largo nel chiacchiericcio insistente prima di un fraseggio di chitarra ripulita) ed il taglio amatoriale, finto dozzinale, docilmente stentato e rumoristico (una bassa fedeltà gracchiante e bizzosa) che segna a fondo la registrazione in ‘Night Shift’ e che, al di là del vezzo formale, proprio non dispiace. Tutto il resto è riempitivo. Pure valida arte del frammento, sabotata con elettronica povera o intrisa di dolente romanticismo, ma pur sempre fuffa. Non l’avevo forse detto all’inizio di non aspettarvi chissà quale capolavoro?

    

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The Fleshtones @ United Club   04/05/2011

    

Se è vero che esistono tante disgrazie che non si augurerebbero a nessuno, vi sono anche innumerevoli esperienze che sarebbe bello tutti potessero far proprie, almeno una volta. In fatto di musica dal vivo, uno dei riferimenti che mi sento di far rientrare in questa categoria è senza dubbio l’incontro live con gli inossidabili Fleshtones, forse la band più divertente che mi sia capitato di ammirare sopra (e sotto) un palco, peraltro in più di un’occasione. Per la seconda in particolare ho scritto questo affettuoso e non certo imparziale live report, valido in fin dei conti anche per la prima, risalente ad un ormai preistorico concerto del ’98 all’Hiroshima. Come raccontare simili avventure a chi non abbia la minima idea di che deliranti show si tratti? Difficile, incompleto. Così almeno le parole nella mia cronaca, che pure riescono in parte a far riemergere quell’atmosfera unica e piacevolmente deragliante. I Fleshtones incarnano alla perfezione la purezza del rock’n’roll. Il suo spirito più genuino e scanzonato, la leggerezza gioiosa, l’inclinazione ad un carnevale perenne ed il piacere di fare musica assieme. “Festa” non è forse la parola esatta, ma è la prima che mi viene in mente. Dopo il pogo allegro di quella prima volta, per questo secondo rendez-vous avevo pensato (mi ero illuso più che altro) di poter “affrontare” gli attempati newyorkesi con quel minimo di distacco critico che fa sempre parte del mio bagaglio quando entro in un live club. Dispositivo della memoria ben acceso, macchine fotografiche scattanti, buona dose di impassibilità specie in caso di spacconate. Tutto inutile con i Fleshtones, come lo svolgersi sempre più scarduffato dello show dovrebbe aver dimostrato. Qualcosa più di quanto scritto nel report non mi riesce di dichiararlo, a parte che gruppi come questo sono una benedizione dalla quale si vorrebbe sempre venir baciati, possibilmente in un clima di totale condivisione. Ecco, mentre cercavo in rete la data esatta del concerto per questo pezzo di presentazione, mi ha spiazzato la scoperta che gli adorabili bastardi di Brooklyn l’hanno fatto di nuovo, nello stesso identico posto, il 20 marzo di quest’anno, e nessuno mi ha detto niente. Un’altra coccarda di merito per i Fleshtones è dovuta proprio alla frequenza delle loro sortite in Italia, oltre al numero esorbitante di concerti suonati dal 1976 ad oggi, motivo più evidente della loro fanciullezza imbattibile. Certo se questi eventi venissero anche un minimo reclamizzati, porca miseria…

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Gallantry’s Favorite Son

       

Sembra proprio non farcela a sfondare il muro dell’oblio il tenero Zio Scotty, nonostante un ottimo terzo album in curriculum ed i relativi auguri indiretti del sottoscritto nel pezzo dedicatogli giusto un annetto fa. Il delizioso ‘Gallantry’s Favorite Son’ ha raccolto nel frattempo molto meno di quanto meritasse, poca visibilità, scarsa attenzione ed una ancora eccessiva dose di superficialità da parte della critica facilona, incapace di rinunciare ai comodi paragoni con gli infinitamente più celebri Antony & The Johnsons e Devendra Banhart, validi in misura sempre più relativa. Una sorte un po’ triste quella del delicato folker australiano, condannato ad un immeritato anonimato e, per paradosso, all’immancabile confusione onomastica con il quasi omonimo collega inglese Scott Matthews, altro abbonato ad una carriera di scarsi riscontri. E dire che in questo caso aveva fatto davvero tutto per bene: dopo aver sfogato la propria (minoritaria) vena rock nel suo progetto originario, gli Elva Snow, con un nuovo disco e relativo tour dopo diversi anni dall’ultima volta, era tornato in studio con le idee e l’umore adatti, convinto dei propri mezzi ed intimo al punto giusto, né troppo frivolo né troppo lugubre. L’equilibrio pregevole tra l’anima triste e quella aliena ad ogni amarezza fa di questa sua più recente fatica anche il suo lavoro più compiuto e riuscito, dopo le meraviglie imperfette dell’esordio ed un seguito non esente da ingenuità, forse un po’ troppo sopra le righe. Non è bastato, evidentemente, a fare di lui una star, ma chi già lo apprezzava non può che aver raccolto tutte le conferme di cui andava in cerca, oltre a quella prima maturità che ancora mancava nella casellina con il suo nome. Se non si lascerà condizionare dallo sconforto, Scotty potrà regalare ancora grandissime soddisfazioni ai pochi devoti che hanno riconosciuto il talento cristallino dietro quella voce d’angelo.

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Trilogia della Fondazione  _Letture

      

Asimov? Ma vorrai scherzare! Asimov? Ma veramente? Ti sei ridotto ad Asimov nel 2012? Ma non lo leggevi da ragazzino? Ti sembra il caso? Ok, quasi riesco a figurarmi il rosario di obiezioni che la stessa parte snob del sottoscritto sarebbe pronta ad intavolare per questa mia scelta estemporanea, tra il nostalgico ed il puerile, di un rifugio nel fantastico quasi fuori tempo massimo, un ritorno alle magiche letture di un tredicenne in cameretta e via. In realtà questo recupero di Asimov dopo circa vent’anni non è stato dovuto al semplice e ludico diletto tardo-adolescenziale bensì ad una fortuita coincidenza: l’essermi trovato con la fretta del diavolo a dover raccogliere un libro in biblioteca in uno dei reparti che solitamente evito di frequentare, per giunta dopo aver trascorso l’estate scorsa un’intera serata parlando con un cugino di narrativa fantastica, nello specifico proprio di questo ultracelebrato Ciclo della Fondazione. Avevo voglia di tornare a cimentarmi con un genere ed un autore che da giovanissimo trovai intriganti, cosciente di dover fare un salto dai semplici racconti brevi di allora ad un’opera tendente al monumentale, con il rischio quindi di uscirne del tutto sopraffatto in caso di noia. Che dire? Proprio leggerissima come avevo immaginato (e sperato) la lettura di questo classico monstre della fantascienza non è stata. Un pregio in un certo senso, a riprova che Asimov è valido per i lettori di ogni età. Certo all’inizio un po’ di fatica mi è costata: troppo piana ed asettica come scrittura, volta con caparbietà alla dimostrazione della sua brava tesi ed in fondo allergica a tutto ciò che si potrebbe  considerare un volo pindarico di stile. Con la giusta confidenza la curiosità ha comunque finito con il prevalere, ed è indubbio che la penna del buon Isaac nella seconda parte si faccia più avvincente. Non un capolavoro, comunque, secondo me, diversamente da quanto magnificatomi dal cugino a suo tempo. Perché lo diventi, forse, bisogna non aver mai spento il fuoco dell’amore per l’intero genere come ho fatto io. Colpa mia quindi.

Costringere nelle poche righe di una recensione la straordinaria epopea della Fondazione, nei primi secoli del suo percorso verso la nascita di un nuovo impero galattico, è impresa inutile prima ancora che ardua. Ben più significativo potrebbe rivelarsi invece il tentativo, pur lacunoso, di spiegare ai profani la science fiction firmata Isaac Asimov, almeno nell’incarnazione “giovanile” che è ben rappresentata da questa raccolta di nove racconti (poi strutturata in forma di trilogia ed ampliata – tra seguiti e prequel successivi – nel celebre Ciclo della Fondazione). E’ una forma di fantascienza ben poco convenzionale, almeno rispetto a come la potrebbe intendere il lettore giovane di oggi, ormai pesantemente condizionato da quanto passato negli ultimi decenni sul grande e sul piccolo schermo. Un tipo di narrazione giocato sui registri della solennità, dell’evocativo, di una lentezza che è sostanzialmente funzionale alla comprensione progressiva di un più vasto e complesso affresco, dove nulla deve essere lasciato al caso ed ogni dettaglio viene rivelato soltanto al momento giusto. Sono trascorsi tra i sessanta e i settant’anni da quando queste avventure videro la luce sulle popolari pagine della serie Astounding, e la prima considerazione possibile è che, purtroppo, siano invecchiate, non certo per causa loro. Difficile immaginare nel cuore tumultuoso di un preadolescente del 2012 un successo del Piano Seldon, della Psicostoriografia, del genio politico romantico di Salvor Hardin o delle picaresche astuzie del mercante illuminato Hober Mallow, se il confronto li dovesse trovare contrapposti alla martellante e chiassosa dittatura delle immagini, del 3D sempre più avvolgente, dei videogames iperrealistici ed allucinanti. Sarebbe – anzì, è – un peccato, ma rientra nella logica delle cose, nell’evoluzione (o involuzione) del gusto, nelle difficoltà che il romanzo deve affrontare ogni giorno nella sua battaglia ad armi non pari con i nuovi media. Eppure non tutto dovrebbe essere perduto, visto che uno dei personaggi meglio definiti della Trilogia è proprio una ragazzina, Arcady Darell: studiosa, volenterosa ed ancora irrimediabilmente incline alla fantasia. Se fosse sufficiente la vecchia arma dell’identificazione, con le vicende dell’agonizzante impero galattico e delle crescenti fortune del piccolo pianeta Terminus i giovani lettori potrebbero interiorizzare e condividere il fuoco di un autore innamorato della storia (meglio, della filosofia della storia) come pochi altri. Il fascino di questo grande romanzo risiede proprio, soprattutto, nella sua visione prospettica ad ampissimo raggio, nel disvelarsi inesorabile della sua trama interessando solo marginalmente i singoli attori in scena e solo in una più generale ottica finalistica, un processo collettivo che ai più ha correttamente ricordato la ‘Storia del declino e della caduta dell’Impero Romano’ di Gibbon. Una fantascienza non iperbolica quindi, non pirotecnica, senza mostri mai visti prima o marziani ostili: parlata, concettuale, filosofica secondo una prospettiva hegeliana o marxista, dominata dall’intelligenza, dalla diplomazia, dall’arte della politica e del compromesso come strumenti cruciali di un destino superiore, ben più dell’azione spicciola, della forza bruta e di quella violenza che per Asimov non poteva che rappresentare l’ultimo, inutile “rifugio degli incapaci”.

Se non riesco a considerare questa raccolta un autentico capolavoro, ma solo un ottimo saggio di taglio umanistico, è per la superficialità psicologica di cui necessariamente soffrono i tanti personaggi che si avvicendano nella narrazione come un esercito di mattoncini in fondo sempre molto simili, gli anelli della sua lunga ed inossidabile catena. Questo limite è evidente soprattutto nei cinque racconti che compongono la prima e più schematica parte, dove l’inappuntabile successione / risoluzione delle varie Crisi Seldon è affidata nel racconto ad eroi eletti quasi per il loro valore archetipico e sociologico (strateghi, sacerdoti della scienza, commercianti) limitando al massimo il fattore imprevedibilità e lasciando ammirati unicamente per il talento di Asimov nel ricondurre tutto alla sacralità laica del “Piano”, cioè della Storia. Le cose cambiano significativamente in ‘Fondazione e impero’, con l’introduzione del personaggio più incredibile del romanzo, il fantomatico Mule, e nella terza parte, dedicata alla ricerca della non meno misteriosa “Seconda Fondazione”. Non è un caso forse che proprio la componente psicologica si ritagli negli ultimi tre racconti un ruolo di primo piano, contribuendo in maniera determinante agli sviluppi appassionanti delle vicende, in un gioco di specchi deformanti, di colpi di scena molto ben orchestrati e di sottotrame sempre più fantasmagoriche che finiscono con l’avvicinare la fantascienza di Asimov ad altre forme tipiche della narrazione popolare, dal giallo alla spy story, confondendo piacevolmente i riferimenti di genere. Fa quasi tenerezza oggi il futuro siderale della galassia immaginato dal grande Isaac, così incredibilmente ingenuo con tutte le sue televisioni, le telescriventi ed i microfilm, eppur per paradosso tanto più attuale nel raccontare una società in evidente declino come quella dei nostri giorni. Anche volendo essere generosi immaginando per il decadente occidente del 2012 una silenziosa rovina “verde” come quella dell’indimenticabile pianeta Trantor, possiamo ancora sperare che una Seconda Fondazione venga a salvare anche questo presente così poco illuminato dal rischio di un nuovo, inevitabile medioevo?

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