Month: maggio 2011

Orso contro Squalo           _letture

 

Poteva essere una bella sorpresa il romanzo d'esordio di questo autore quarantenne proposto in Italia da Minimum Fax, ma finisce quasi inesorabilmente per affondare sotto il peso dei suoi stessi cliché. Scrittura frenetica e compulsiva quella di Bachelder, scaltra nella sua inclinazione mimetica verso i nuovi linguaggi della comunicazione, ma a lungo andare anche un po' pesante: buona l'idea di frazionare il romanzo in capitoli minimi dai titoli ironici ed illuminanti, ma la tendenza ad imitare la sovraesposizione dei mass media e delle strategie commerciali, la serialità dei flussi informativi, alla fine mostra la corda. Il messaggio di fondo è condivisibile ma risaputo, gli espedienti metanarrativi vivaci ma non troppo originali (lui è bravo comunque a smascherarli, aprendo un rapporto franco e smaliziato con il lettore) ed anche la vena satirica riesce in fondo alquanto insipida. Certo, si lascia leggere, non è lungo o particolarmente impegnativo e in qualche passaggio diverte: uno per tutti, lo scontro in tribunale tra la perfida avvocatessa e la torta al cioccolato "eroticamente glassata".   

‘Orso contro Squalo parte seconda’è insieme l’evento più atteso ed il passatempo preferito degli americani in un futuro imprecisato e forse prossimo, formula sotto copyright impacchettata e venduta alle grandi corporation ma anche moderno koan vagamente new age con corredo di simbolismo spiccio, cereali da colazione e cuscini ergonomici ufficiali. Passatempo oltre che evento, si diceva: pure limitandosi a pochi secondi di ferina virtuale ultraviolenza, come insegnano i media e la comune alienazione ritualizzata, l’attesa è tutto. Al lettore tocca viverne pulsioni e ottuse frenesie seguendo il viaggio dei Norman verso il grande spettacolo del Darwin Dome, Stato Sovrano di Las Vegas, “Polmoni contro Branchie nel deserto al neon”. I Norman, piccola agghiacciante tribù da sitcom delle più trite, archetipo della famiglia yankee più media della media, si sono aggiudicati quattro biglietti per la grande serata perché il figlio minore Curtis – forse il meno peggio del clan ma pur sempre atroce –  ha vinto il concorso nazionale per il miglior tema scolastico sul significato di ‘Orso contro Squalo’ per la società americana. Ed il romanzo si sviluppa dunque come resoconto di questo pellegrinaggio marziano, in diretta e in esclusiva, oltreché della delirante trepidazione di un’intero paese, caricaturale ma neanche poi troppo stando alle intenzioni dell’autore.
 
Quella evocata con enfasi grottesca e maliziosa nelle schizofreniche pagine di ‘Bear v. Shark’ è una realtà che, “diversamente dai vecchi televisori, non ha pulsanti di spegnimento”. Arriva come un’onda di piena di frastornanti idiozie e la si incassa passivamente, come i quintali di luoghi comuni che Bachelder individua nel nostro quotidiano di consumatori consumati e sovraccarica sino al paradosso in questo allucinante pastiche sardonico, traendo il possibile (forse anche il meglio) dalla propria vena pop surrealista e poco incline al politically correct. Il risultato è una delirante polifonia americana in cui tutti – ma proprio tutti – parlano senza avere nulla di veramente significativo da dire: ospiti radiofonici, camerieri, sponsor e testimonial di bassa lega, intellettuali morti come Thoreau o Roland Barthes, celebrità assortite del calibro di Neil Postman o D.F.Wallace e persino i cuscini ergonomici. Il tutto tracima in questo esasperato accumulo di parole in libertà, finti spot e quadretti nonsense, alcuni dei quali deliziosi, altri decisamente scontati. Nel bel mezzo, scampoli di metanarrazione, tripudio di esuberanti richiami fatici, poetici, conativi e metalinguistici, oltre ad una messe di allusioni ironiche e trucchetti volti ad esplicitare (citando Calvino e Barthelme) l’intento satirico di un testo che vorrebbe essere un pungolo (nel raccontare il ridicolo della nostra contemporaneità) ma riesce forse un po’ troppo facile, meccanico e calcolato, furbo più che intelligente. Alla fine della fiera la pagina più terrificante di un libro che si lascia leggere, ma entusiasma di rado, è quella in cui è riportato il tema di Curtis, con ‘Orso contro Squalo’ interpretato come ragione per vivere giulivi accantonando ogni problema, il panem et circenses che può aiutare un’intera nazione a coltivare illusioni sfiorite, a sentirsi ottimista, “avere la cultura” e, in definitiva, credere ancora alle stanche repliche del proprio grande e logoro sogno.

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Le stanze in affitto di Fred l'antidivo

 

Non potevo proprio lasciarlo passare inosservato, come la quasi totalità delle uscite non recensite altrove, questo ritorno in pista dopo cinque anni del vecchio Fred M. Cornog. Eh sì. Non soltanto perché si tratta di un album rimarchevole, diciamo ben sopra la sconfortante media attuale, ma anche e soprattutto perché il suo autore rientra agilmente nel novero dei piccoli grandi misconosciuti artisti americani che negli anni novanta erano spuntati come funghi nel sottobosco alternativo ed ora sono quasi in via di estinzione, rassegnati all'anonimato, travolti dai loro stessi eccessi, bruciati e riciclati o molto semplicemente morti. Cornog non è morto, no, e veste anzi come pochi altri i panni dell'autentico sopravvissuto, del miracolato se preferite. Nel suo passato c'é stato di tutto: partito come semplice impiegato con l'hobby del fai da te musicale, delle canzoni apparentemente senza pretese registrate sul suo ministudio Tascam 388, il cantante che all'epoca non aveva ancora moniker d'alcun tipo perse il proprio lavoro e scivolò a rotta di collo in un baratro di alcolismo, dipendenza dalle più svariate droghe e vagabondaggio, finendo a mendicare nella stazione ferroviaria della città degli Yo La Tengo, Hoboken. L'incontro con la collega Barbara Powers, destinata a divenire sua compagna di vita, è stata la vera svolta di un'esistenza che pareva già indirizzata verso un epilogo miserabile. Ripulito, guarito, riequilibrato, Cornog ha trovato uno studio decente in cui sfogare la sua vera passione, una piccola etichetta a gestione familiare (Hell Gate) oltre ad uno pseudonimo artistico che da lì in poi ha sempre accompagnato le sue sporadiche ma preziosissime uscite discografiche. La sfilza delle cassette e dei sette pollici licenziati in pochi mesi a cavallo tra anni '80 e '90, in un frangente tanto convulso quanto stimolante, ha fatto breccia presso la mitica Sarah Records, la crema per l'indie-pop mondiale in quel periodo, assicurandogli una visibilità insperata ed un contratto attraverso il quale pubblicare finalmente un EP (il meraviglioso 'Goodbye California', 1993) con tutti i crismi. L'apprezzamento di un estimatore importante come Kurt Wagner, leader dei Lambchop e personalità chiave alla Merge Records, è valso come lasciapassare per la tranquillità artistica, con un contratto da lì in poi puntualmente rinnovato ed una "casa" solidissima grazie alla quale costruisi una carriera indipendente ricca di soddisfazioni per quanto sempre e comunque anomala. Non è un forzato del music business o dello star system il vecchio Fred, tutt'altro: scrive e registra solo quando avverte il prurito giusto, non porta mai in tour le proprie canzoni e per mantenersi si accontenta del proprio onesto impiego da commesso in un grosso store di bricolage, dedicando il tempo libero alla moglie ed alla figlioletta di otto anni. Praticamente un alieno nella sua sconcertante ed ordinaria umanità. Forse il segreto della sua magia risiede proprio in questo basso profilo che ha filtrato come per principio ogni sregolatezza, privilegiando solo il genio espresso sempre limpidamente e con la parsimonia di chi preferisce nel frattempo anche vivere una vita fatta di affetti, buon senso, concretezza.

Come detto è trascorso un lustro abbondante dall'ultima uscita, il non proprio indimenticabile 'What Are You On?', mentre il capolavoro 'The Gasoline Age' ha passato da un pezzo i dieci anni di vecchiaia e l'esordio sulla lunga distanza ('Shining Hours in a Can') si avvicina ai venti. Il progetto East River Pipe non ha comunque stravolto le peculiarità di una cifra espressiva sempre molto personale, recuperando anzi qualche punto in termini di incisività del songwriting. 'We Live in Rented Rooms' è l'ennesimo disco casalingo della sua produzione anche se lo spirito che lo anima è ben diverso dal pauperismo modaiolo ed insincero (ed anche un po' sciatto, diciamolo) di tanto lo-fi oggi in circolazione. Anzi, a suo modo Fred Cornog si conferma un cultore appasionato e devoto del pop più raccolto, una prerogativa estetica che il Nostro ha ribadito con ostinata fermezza negli anni. Lo sguardo è rimasto quello di sempre, affettuosamente rivolto alla quotidiana e logorante lotta di resistenza di un America minore, di eterni perdenti ('Bring On The Loser', cantava qualche anno fa nello splendido 'Poor Fricky'), derelitti e piccoli criminali. Se possibile si è anche affinato. Come il buon vino, East River Pipe migliora in questo con la maturità, imponendosi come specchio sempre più fedele di una ampia realtà da molti ritenuta scomoda o comunque non meritevole di riguardo. Ed il nuovo East River Pipe non perde molto tempo per presentarsi. 'Backroom Deals' è perfetta come biglietto da visita e testimonianza di un'intera poetica: tra indole sorniona ed assoluto disincanto ("The whole world is made on backroom deals"), dolcezze chitarristiche e tenero nihilismo, il primo nome a venire in mente è quello del burbero delicatissimo per antonomasia nel medesimo contesto, quel Mark Oliver Everett che nei panni di Mr. E ha dato forma negli stessi anni ad una trama esistenziale ed artistica non troppo distante. A cercarle bene tra le pieghe di 'Payback Time' o 'When You Were Doing Cocaine' , non è difficile reperire tracce del dignitosissimo candore cantautoriale di Mr. Cornog e della sua estrema autenticità. La prima è una strepitosa nenia polverosa "da reduce" a base di chitarre serenamente fiammanti ma senza scorie lancinanti, angosciosa virulenza o tentazioni enfatiche. La seconda è un voce e piano vellutato, notturno, in cui le riflessioni di Fred riescono dirette e spregiudicate senza smentire comunque la serenità di fondo, quella matura consapevolezza di un artista cui non servono espedienti drammatici o forzature per arrivare al cuore di chi ascolta.

Non nasconde la propria fragilità l'atipico indie-pop all'americana di Cornog, ritagliandosi un'aura di intimismo nostalgico che non ha nulla di affettato e nella sua essenzialità può ricordare il Lennon domestico degli ultimi anni ('Summer Boy'). Anche nella pulizia rigorosa, nelle frequenti mitigate del piano, nella fede(ltà) incrollabile verso le care vecchie tonalità pastello ('I Don't Care About Your Blue Wings'), il cantautore del New Jersey è abilissimo nell'evitare la comoda ipocrisia del melenso e punta al meglio su un modernariato indispensabile, a livello formale, per preservare le canzoni dall'eccessiva obsolescenza già percepibile in sede di scrittura. Soprattutto si apprezza una discreta varietà di soluzioni, sufficiente a caratterizzare in maniera diversa i dieci brani che compongono l'album, senza impedire solo per questo uno sviluppo coerente al disco stesso nel suo insieme. Se la già citata 'Payback Time' rivela affinità curiose con i Mercury Rev (innocui) di 'Secret Migration', 'Three Ships' ricorda la lenta malinconia di Alun Woodward (voce maschile dei Delgados), 'Conman' rispolvera certi atmosferici voce e chitarra del Wayne Coyne estatico e meno briccone degli ultimi dischi dei Flaming Lips (un titolo per tutti, 'My Cosmic Autumn Rebellion') mentre la languida e narcotica 'Tommy Made a Movie' mostra più di un'analogia con l'ultimo Destroyer nell'analogo recupero di stilemi pop anni '80 (ma con più calore). Nel calderone c'é spazio anche per altre reminescenze, più orientate comunque verso la tipicità del marchio East River Pipe (ormai si può a ragione parlare di marchio, considerato lo spessore di una cifra espressiva tra le più riconoscibili dell'indie made in U.S.A.). Difficile non tornare con la mente all'artista che forse più di tutti gli altri ha palesato una chiara affinità nei confronti della creatura musicale di Mr. Cornog, perdendosi nell'incanto, nelle dilatazioni, nel cantato filtrato e nella bellissima coda infiammata di 'Cold Ground': Mark Linkous alias Sparklehorse, un grande che con Fred aveva in comune la spiccata sensibilità e molto altro ancora. Volendo ritrovare però solo e soltanto East River Pipe tra i più diretti rimandi, il consiglio è di affidarsi a quello che può facilmente essere considerato il suo nuovo classico: 'The Flames Are coming Back' – le fiamme stanno tornando – ironico riferimento al proprio turbolento passato a tempesta ormai trascorsa e felicemente archiviata. Il refrain rompe i consueti indugi introspettivi per dar voce al bisogno di apertura di un autore che, ancora una volta, si conferma solare, comunicativo e toccante come pochi altri in circolazione.

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I Heart California

 

Album interlocutorio ma non malvagio questo primo capitolo dell'avventura Admiral Radley, incompiuto e poco coeso come spesso capita quando membri di band diverse provano a dare vita ad un progetto nuovo senza prima calarsi in un'adeguata inedita prospettiva mentale, rischiando almeno un poco, rinunciando a qualcosa, mettendosi in discussione. Mi è tornato in mente qualche tempo fa 'I Heart California', precisamente con i primi assaggi di un lavoro gravato dagli stessi difetti ma reso apprezzabile dal medesimo fascino squilibrato, l'esordio di Euros Childs e Norman Blake con la nuova creatura Jonny. Dischi pieni di spifferi, dischi di sensibilità non sincronizzate e di guizzi troppo personali, dove il risultato non coincide mai con la somma delle singole parti. Ma anche lavori che per l'affezionato estimatore sono una manna, in un certo senso, perché la componente fidelizzante finisce sempre col trovare un suo appagamento e non manca mai quella manciata di chicche con cui consolarsi. Nel caso particolare di questo album c'é poi un altro dettaglio che sembra far pendere il giudizio verso il positivo: il discreto stato di forma di un Jason Lytle tornato alla vena goliardica di certe cose minori dei Grandaddy e soprattutto al piacere della collaborazione, qui con gli amici Earlimart ed il fidato ex compagno di squadra Aaron Burtch. Nulla di veramente trascendentale ma un buon mestiere oltre alla ricoperta di certi vecchi trucchetti sonori per i quali Jason è sempre stato celebre. Quasi superfluo aggiungere che, con gli Earlimart abbastanza a corto di idee brillanti, gli scampoli di classe li regala proprio l'ex frontman dei Grandaddy, a partire dall'arruffato schematismo del convincente singolo eponimo, per proseguire con il noise squinternato ed il pop ruvido di certi suoi adorabili cazzeggi ('I'm All F****d on Beer' e 'Sunburn Kids' su tutte). Non poteva proprio resistere a lungo nel suo confino spirituale tra i boschi del Montana. Soprattutto non poteva resistere lontano dalle cartoline grottesche e gli eterni perdenti della sua California allucinata. Se adesso decidesse di rimettere assieme anche i pezzi della vecchia band sarebbe il massimo, poco ma sicuro.

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Le Fantastiche Avventure di Kavalier e Clay                   _letture

 

Avevo sentito parlare molto bene di questo romanzone di Michael Chabon e non ho potuto che verificare se le voci entusiastiche di tanti lettori su Anobii fossero fondate o meno. Che dire? Bello è bello, ma non si tratta certo del capolavoro di cui alcuni hanno scritto e forse anche il Pulitzer vinto non è poi chissà quanto meritato. E' un romanzo profondamente americano, ecco, questo deve aver influito per forza. Progressista, ottimista, politically correct, anche sottilmente retorico come tanti prodotti letterari (e non) made in U.S.A.. Al di là di questo limite, l'ironia dell'autore si è rivelata assai piacevole come la sua scrittura molto naturale, forbita senza risultare saccente. E' estremamente accurato Chabon nel raccontare una realtà scintillante da lui non vissuta, anche se non si può dire altrettanto per la resa psicologica dei suoi amati personaggi: un po' troppo superficiali, un po' sbrigativi, come si trattasse anche in questo caso di veloci abbozzi su carta, disegnati in maniera grezza e poi ripassati a china. Si legge comunque volentieri, e forse è questo ciò che conta, perché dice cose non banali sul più grande dramma del novecento e sulla guerra in genere, ma lo fa con garbo e senza appiattirsi su una vuota prospettiva pietista. Un romanzo d'avventura, anche, e di costume, di quelli che dovrebbero essere divorati. Stranamente io non ci sono riuscito, procedendo con lentezza (ma senza vera noia) tranne che in alcuni frangenti più esaltanti. In ogni caso, consigliato. 

Ha ragione chi ha definito ‘The Amazing Adventures of Kavalier & Clay’ il “romanzo della fuga”, anche se sarebbe forse più corretto completare la formula parlando di fuga negata, o impossibile, dall’inesorabile sventura del divenire adulti. Chabon dissemina di infiniti rimandi al concetto di evasione le oltre ottocento pagine di questo libro, a partire dall’incontro in cui i due protagonisti – i cugini citati nel titolo – si scoprono motivati da un comune desiderio di diserzione dal presente e realizzano di poter diventare i migliori alleati l’uno dell’altro nella direzione dei propri sogni. Sam “Sammy” Clay l’indole del sognatore ce l’ha da sempre, da quando abbandonato in tenera età da un padre celebre e scellerato, “tutto muscoli e niente cuore”, iniziò a coltivare propositi infantili di riscatto nei panni del grande romanziere americano, del critico geniale o del medico eroico, allenandosi sin da giovanissimo a mentire spudoratamente come riflesso dell’aspirazione a diventare qualcuno di molto diverso. Joseph “Joe” Kavalier, esule da una Cecoslovacchia ormai caduta sotto gli artigli della Germania Nazista, è al contrario sicuro del proprio talento, estroverso e competente, anche se ha non meno ragioni del cugino per aggrapparsi con forza ad un mondo più roseo di quello reale, una sceneggiatura orchestrata dal potere dell’immaginazione per sancire il trionfo incontrastato di giustizia e libertà. Messi alla prova da una coppia di avidi editori, Sammy e Joe trasformano da subito in qualcosa di vincente il loro sodalizio, inventando dal nulla un nuovo supereroe dei comics, l’Escapista, personaggio armonioso destinato a fare concorrenza a Superman in qualità di liberatore degli oppressi. Ovviamente dietro l’artificio della fiction c’è la dura realtà di chi come Joe ha davvero studiato da fuggiasco: gli anni del suo apprendistato escapista a Praga presso il vecchio Kornblum, ebreo lituano maestro illusionista e seguace di Houdini, sono ampiamente trattati dall’autore in pagine ricche di fascino e sinceramente commoventi. Un po’ come quelle in cui è raccontata la genesi dell’eroe disegnato a china, a dire il vero forse un po’ troppo lunghe ed infarcite di dettagli marginali: la febbrile materializzazione del sogno dei due ragazzi e le iperboliche fantasie del fumetto da loro ideato sono piani che si intersecano compenetrandosi, contaminandosi grazie alla prosa leggera ma brillante di Chabon, dando forma ad un universo nuovo fatto di confini incerti, illusori, eppure assai intrigante: “la nostra, se posso dirlo, è una fottutissima bella storia!”. E’ a questo punto che il personaggio di Joe ruba letteralmente la scena a tutti gli altri. Il suo passato, più drammatico e movimentato, si riflette inesorabilmente su un presente divenuto prestissimo un’autentica missione. Disegnare le storie violente dell’invincibile nemico dei nazisti è il solo mezzo per combattere con un certo costrutto la propria guerra personale: legittimare la libertà conquistata grazie ad una fortuna mancata ad altri – primo tra tutti l’adorato fratello minore Thomas – stimolare nei giovani americani del 1939 l’odio per Hitler e, almeno tra le pagine dei fumetti, sconfiggere il mostro e vendicarsi. I soldi ed il successo arrivano (anche se in misura minore rispetto agli effettivi meriti) ma Joe non trova pace. A New York non si sente a casa pur essendo grato per tutte le opportunità ricevute e fatte fruttare. Soffre per quella condizione di esule impotente, lontano da una famiglia destinata all’annientamento, che lo condurrà sull’orlo di un baratro emotivo e materiale. L’amore per la ricca e bella Rosa Saks, pittrice e spirito libero incontrata grazie ad un gioco benevolo del destino, segna una svolta. Senza annullare l’orgoglio che lo ha sempre visto irriducibile di fronte alle richieste di autocensura dei suoi editori (“Io credo nel potere della mia immaginazione!”) per non tradire gli ideali che hanno animato tutto il suo lavoro, Joe e la sua arte si fanno più disciplinati e concreti. Da strumento di una sterile vendetta rivolta a nemici troppo lontani o troppo insignificanti, i fumetti possono trasformarsi in qualcosa di più costruttivo, qualcosa di prezioso per esprimere fino in fondo se stesso e le proprie aspirazioni. Il cuore di Kavalier sembra riuscire finalmente ad uscire dal caos, anche grazie al progetto, ormai quasi in porto, di salvare Thomas e tanti altri bambini ebrei dagli orrori della guerra e da morte pressoché certa. La fatalità si impone comunque e rimescola tutte le carte, definendo una brusca sterzata negli eventi narrati. Chabon è limpidissimo nei confronti del lettore. Sin dalle pagine dei trascorsi praghesi di Kavalier è prodigo nell’affabulare ma lascia comunque intuire che piega prenderanno gli avvenimenti, trattenendo quasi confuso sullo sfondo un senso di morte e di ineluttabilità che è ben presente pur restando nella sfera del non detto, rispettoso silenzio di fronte alla tragedia di tutto il popolo ebraico. Reso cieco dall’odio e partito per combattere, Joe è protagonista di un plateale ritorno in scena dopo una serie di avventure picaresche ed una fuga non meno monumentale da tutto e tutti (un ellissi durata anni, spesi come un’ombra divorata dal rimorso e dalla vergogna), in un finale positivo all’insegna del ricongiungimento, forse sin troppo accomodante.

Cosa aggiungere a proposito di questo colossale romanzo vecchio stampo? E’ un libro che prende, senza dubbio, un libro sicuramente molto bello cui è difficile non affezionarsi. Non è un capolavoro. Forse conquista più che altro per la disinvoltura descrittiva con cui Chabon tratteggia l’America ormai prossima alla seconda guerra mondiale, il 1941 di ‘Citizen Kane’, delle feste con Dalì e di Pearl Harbour. Una miriade i riferimenti culturali (alti e non) che stordiscono ed affascinano, imponendosi in fin dei conti anche sulle vicende narrate e sui protagonisti. Un trionfo per la funzione referenziale e per il contesto, segno di qualità straordinarie di cronachista ed illustratore, a scapito però del narratore. Certo ‘The Amazing Adventures of Kavalier & Clay’ non è comunque un libro noioso, niente affatto, ma rivela un autore spesso troppo affezionato al mondo raccontato, troppo incline a soffermarsi sul pur entusiasmante inessenziale per poter colpire realmente al cuore. Cosa che accade, comunque, anche se quasi esclusivamente nelle pagine della rocambolesca fuga di Kavalier assieme al mitico Golem di Praga, oltre a quelle della sua vera guerra nella crudele alienazione dell’antartide; momenti, questi, incredibilmente appassionanti, con il protagonista messo finalmente a nudo, svuotato dal desiderio di assoluta vendetta al cospetto del quale tutto finisce col perdere senso: l’arte, l’affetto, l’amicizia e perfino la pietà (memorabile l’episodio della morte del cane Oyster). Il libro funziona egregiamente come celebrazione dell’età dell’oro dei fumetti, come atto d’amore incondizionato verso i comics in generale, ribaltando a loro esclusivo merito la logora accusa secondo la quale essi offrirebbero “solo” una facile fuga (ancora) dalla realtà. Non altrettanto memorabile il lavoro sui personaggi, sviluppati ed approfonditi meno del dovuto come fossero proprio eroi di quell’arte a torto considerata minore. In confronto all’eccezionalità (romanzesca) e allo spessore (apparente) di un personaggio “pieno” come Joe Kavalier, tagliato con l’accetta ma ugualmente sfuggente, Sammy Clay può apparire pallido, normale, convenzionalmente impostato, eppure moderno e pirandelliano (dove Joe è più “all’antica”, vero eroe da romanzo d’avventura): reduce in fuga (ancora, sì) da un’irrisolta relazione omosessuale, è chiamato ad incarnare la mediocrità di chi è sempre e comunque presente, maturo e responsabile, “incatenato al mondo in modo irrevocabile”. Emblematico per un attore infelicemente incompiuto come questo è il romanzo autobiografico “La Disillusione Americana”, mastodontica tela di Penelope da lui sempre ripresa e sempre abbandonata, simbolo forse facile ma efficace: “un po’ commedia amara, un po’ stoica tragedia alla Hemingway, l’autobiografia di un uomo che non sapeva porsi di fronte a se stesso, un intreccio complicato di stratagemmi e bugie senza la capacità artistica di trasmettere, anche inconsapevolmente, la propria realtà”. Se Sam convince quindi in generale più di Joe, è ottima in questo quadro la figura crepuscolare del suo implicito mentore Deasey, colui che lo aiuta a diventare consapevole dei propri mezzi in un mondo di profittatori e ad aprire gli occhi sul mesto ma inevitabile fallimento di ogni talento letterario. Talento che a Chabon è valso il Pulitzer e che in ‘The Amazing Adventures of Kavalier & Clay’ è stato espresso con ogni probabilità al massimo delle proprie potenzialità visionarie.

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