La Principessa Sposa _Letture

       

No, vabbé… “Hola! Mi nombre es Iñigo Montoya. Tu hai ucciso mi padre, preparate a morir!”.
Basta questa, non serve altro commento. Anzi sì, questo è uno di quei libri che si amano. Dagli otto agli ottant’anni, come recitavano i giochi MB ai miei tempi…

 

 

William Goldman è stato sceneggiatore di successo, nella realtà come nei panni di se stesso nel suo più celebre romanzo, “The Princess Bride”. In una sorta di introduzione posticcia al testo, vi si presenta come già affermato – correva l’anno 1973 e aveva ritirato il premio Oscar per “Butch Cassidy” solo tre anni prima (una seconda statuetta sarebbe arrivata dopo altri tre anni grazie a “Il Maratoneta”) – ma non del tutto in pace con se stesso. Il suo cruccio è legato al figlio Jason, grasso, viziato e per nulla attratto dalla lettura, un po’ come lui durante l’infanzia prima che un’opera (di fantasia) dello scrittore (di fantasia) S. Morgenstern, “La Principessa Sposa”, lettagli dal padre barbiere in un periodo di convalescenza a letto esercitasse su di lui una sorta di fatale incantesimo. La speranza è che la magia si ripeta con il pargolo, ma questo non potrà certo avvenire prima che il nostro narratore entri finalmente in possesso di una copia di quel “classico per ragazzi” più presunto che altro, che tutt’a un tratto pare diventato introvabile. Nonostante la caccia vada a buon fine, Goldman patisce la delusione dello scarso interesse del figliolo, che prova a imbarcarsi nella lettura ma alza bandiera bianca molto presto. Il motivo di questo fallimento non risiede tuttavia nella semplice pigrizia, come l’autore ha modo di scoprire abbandonandosi alle pagine del libro in una rassegnata sessione notturna: l’opera che aveva suscitato in lui quel fascino tanto irresistibile era in realtà il frutto di una profonda revisione dell’originale operata dal genitore tanti anni prima, tagliando pagine e pagine di noiosissimi incisi descrittivi dall’ormai inservibile intento satirico. Goldman decide pertanto di cimentarsi in una personale riscrittura del romanzo, rispettosa in tutto e per tutto della penna di Morgenstern ma seguendo lo stesso spirito gioviale e favolistico che aveva orientato suo padre ai tempi. Il risultato è “La Principessa Sposa” come il celebre sceneggiatore ce lo presenta nelle restanti duecentonovanta pagine, arricchito dai puntuali (e preziosi) commenti della sua voce fuori campo.

 

La storia, che nell’accattivante premessa scopriremo trattare di “Scherma. Lotta. Tortura. Veleno. Vero amore. Odio. Vendetta. Giganti. Cacciatori. Uomini malvagi. Uomini buoni. Belle dame. Serpenti. Ragni. Bestie di ogni natura e tipo. Dolore. Morte. Uomini coraggiosi. Uomini codardi. Uomini più forti. Inseguimenti. Fughe. Menzogne. Passione. Miracoli” è quella dell’amore più forte di tutto del garzone Westley per la ricca figlia dei padroni, Buttercup, sbocciato contro ogni previsione e destinato a resistere a ogni sopruso e persino alla morte. Lo stile è insieme una parodia e un omaggio sia del registro fiabesco, decodificato e adottato da Goldman con la perizia del semiologo, che del genere avventuroso di stampo ottocentesco, un po’ romanzo picaresco un po’ novella di cappa e spada. Con simili premesse avrebbe potuto uscirne un minestrone indigesto o stucchevole, ma il risultato è piuttosto una miscela di quelle irresistibili, una miniera di (re)invenzioni narrative che conquista per sincerità e trasporto e – sorpresa! – mostra di avere vita facile nel riportare anche il lettore adulto alla magia dei suoi dieci anni. Che sia merito della vivacità dell’autore, i cui interventi non fanno che amplificare la traccia ironica della fabula grazie a un intreccio tanto semplice quanto portentoso? O del florilegio d’inventiva che sembra dare il meglio nell’ambientazione fantastica (tra Dirupo della Follia, Palude di Fuoco e Zoo della Morte c’è l’imbarazzo della scelta)? O non si tratta piuttosto del talento messo in campo nelle costruzioni attanziali, con un eroe che pare rispondere al perfetto identikit di un Greimas o di un Propp, una coppia di aiutanti – ed ex-oppositori – (lo spadaccino Inigo Montoya, piccolo capolavoro di romanticismo decadente, e il tenero gigante minus habens Fezzik, con la sua fissa per le rime) che scaldano il cuore ancor di più, una bella che più bella non si può (nonché più smorfiosa, almeno nelle prime battute) e almeno un paio di antagonisti con i controfiocchi, quell’Humperdinck che si dovrebbe vedere illustrato sulle enciclopedie alla voce “Figlio di puttana” e il suo fidato Conte Rugen, maestro di sadismo come di rado se ne sono incontrati sulla pagina stampata?

 

Difficile dire in cosa “La Principessa Sposa” giri meglio, quando ciò che conta è che giri così bene. E difficile (ma diciamo anche inutile) arrovellarsi per capire se il suo statuto di culto derivi dalla trascrizione filmica che ne ha tratto Rob Reiner nel 1987 (titolo italiano “La Storia Fantastica”) o se non sia vero il contrario. Sia come sia, quel “Vero amore” piazzato in bella vista nell’elenco degli ingredienti può anche essere inteso come “Amore per la lettura”, un sentimento che agilmente questo romanzo risveglia. Non è cosa da poco. Se ci aggiungiamo un finale scaltro e non certo accomodante, il nostro plauso non può che farsi incondizionato.

8.4/10

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