Jason Lytle

I Heart California

 

Album interlocutorio ma non malvagio questo primo capitolo dell'avventura Admiral Radley, incompiuto e poco coeso come spesso capita quando membri di band diverse provano a dare vita ad un progetto nuovo senza prima calarsi in un'adeguata inedita prospettiva mentale, rischiando almeno un poco, rinunciando a qualcosa, mettendosi in discussione. Mi è tornato in mente qualche tempo fa 'I Heart California', precisamente con i primi assaggi di un lavoro gravato dagli stessi difetti ma reso apprezzabile dal medesimo fascino squilibrato, l'esordio di Euros Childs e Norman Blake con la nuova creatura Jonny. Dischi pieni di spifferi, dischi di sensibilità non sincronizzate e di guizzi troppo personali, dove il risultato non coincide mai con la somma delle singole parti. Ma anche lavori che per l'affezionato estimatore sono una manna, in un certo senso, perché la componente fidelizzante finisce sempre col trovare un suo appagamento e non manca mai quella manciata di chicche con cui consolarsi. Nel caso particolare di questo album c'é poi un altro dettaglio che sembra far pendere il giudizio verso il positivo: il discreto stato di forma di un Jason Lytle tornato alla vena goliardica di certe cose minori dei Grandaddy e soprattutto al piacere della collaborazione, qui con gli amici Earlimart ed il fidato ex compagno di squadra Aaron Burtch. Nulla di veramente trascendentale ma un buon mestiere oltre alla ricoperta di certi vecchi trucchetti sonori per i quali Jason è sempre stato celebre. Quasi superfluo aggiungere che, con gli Earlimart abbastanza a corto di idee brillanti, gli scampoli di classe li regala proprio l'ex frontman dei Grandaddy, a partire dall'arruffato schematismo del convincente singolo eponimo, per proseguire con il noise squinternato ed il pop ruvido di certi suoi adorabili cazzeggi ('I'm All F****d on Beer' e 'Sunburn Kids' su tutte). Non poteva proprio resistere a lungo nel suo confino spirituale tra i boschi del Montana. Soprattutto non poteva resistere lontano dalle cartoline grottesche e gli eterni perdenti della sua California allucinata. Se adesso decidesse di rimettere assieme anche i pezzi della vecchia band sarebbe il massimo, poco ma sicuro.

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Yours Truly, The Commuter

 

Un paio di anni fa appena, Jason Lytle sceglieva di comunicare il suo prossimo ritorno sulla giostra discografica a quell’insignificante e disgregato universo di aficionados che non erano stati capaci di dimenticarsi di lui. Passò anche in Italia, grazie alla benemerità Homesleep Records, presentando brani vecchi e nuovi riarrangiati in acustico: una discreta ma incoraggiante testimonianza della sua volontà di resistere per tornare ad esprimersi, dopo anni di esilio "necessario" tra i boschi del Montana, lontano da fantasmi, tentazioni e business volgare. Certo l’arte non si spegne come una fiamma dentro di sé, non basta limitarsi ad ignorarla confidando che una vita à la Thoreau sia tutto ciò di cui si ha bisogno nonostante un passato da musicista e cantautore affermato. Uscito dalla depressione, liberatosi dal giogo delle droghe e dal peso di una pur limitatissima fama, Lytle ha ripreso poco per volta confidenza con se stesso ritrovando il piacere di scrivere canzoni e suonarle, prima in perfetta solitudine, poi per pochi fortunati, quindi per i suoi vecchi fan. Nulla di particolarmente serio o impegnativo, almeno nelle intenzioni, poi la gioia creativa ha saputo prendere il sopravvento ed è arrivato questo piccolo ma prezioso album, l’esordio solista che i meno informati in merito alle vicende personali dell’ex leader dei Grandaddy avevano pronosticato già diversi anni fa. E’ arrivato senza fretta e senza clamori, al momento giusto. Un passo per volta, Lytle è rientato nel giro quasi senza rendersene conto. Certo con una maggiore consapevolezza rispetto al periodo di massima fortuna per la sua vecchia band, il classico gruppo della cui importanza ci si renderà conto con più lucidità man mano che lo scioglimento sarà sepolto nel passato. Non voleva svendersi ad una major, non lo ha fatto oggi e non lo farà domani, quando arriveranno il secondo lavoro a suo nome (più increspato e tumultuoso, a quanto pare) ed il primo capitolo di un’avventura nuova di zecca, gli Admiral Radley (progetto condiviso col vecchio socio Aaron Burtch – che della formazione di Modesto era il batterista – con Aaron Espinoza e Ariana Murray dei validissimi Earlimart). Manifestazioni semplici di un presente che ha tutto l’orgoglio della schietta indipendenza, quella senza frenesie da hype o (tardivi) appuntamenti col successo: solo l’entusiasmo di fare musica per se stessi e per "fare del bene" a chi già sa di poterne trarre da queste nuove canzoni sincere (lo afferma lui stesso nel superbo ed evocativo finale di ‘Here For Good’, autentica dichiarazione di intenti per una carriera ritrovata). Il bello sta nel riscoprire, pagina dopo pagina, fragranza dopo fragranza, che gli ingredienti sono rimasti i medesimi della vecchia ditta, giusto in una dimensione più intima e meno fragorosa: elettronica povera ma colorata, carezze acustiche, sporcature elettriche mai davvero sgarbate, scrittura pop radiosa e quella vocina lì, quella che se non ti entra nel cuore in venti secondi netti hai davvero di che preoccuparti. Anche l’ironia è intatta, rivolta essenzialmente verso se stesso a riprova di una presa di coscienza che non ha proprio nulla dei cliché autodistruttivi da rockstar malate: "L’ultima che ho sentito è che ero dato per morto" canta lui all’inizio della title track, in apertura, "beh, la verità è che non me ne frega un cazzo". Sulla sua buona fede ci si potrebbe scommettere tranquillamente. Ciò che conta in fondo é la genuinità del tratto autobiografico, l’ennesima costante nell’opera di questo sventurato e adorabile genio dei nostri giorni. Da uno che firma il primo album in proprio con l’etichetta "Distinti saluti, il pendolare" non c’é da attendersi molto altro che un meraviglioso tono confidenziale. E quella commovente abilità nel rendere emozionante anche una canzone dedicata all’amicizia di un compagno che non c’é più: dietro l’infinita dolcezza di ‘Ghost of My Old Dog’ è impossibile non riconoscere la rinnovata epica domestica dei Grandaddy classici, oggi. In splendida forma, peraltro.

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