Month: settembre 2010

Invisible Girl

 

Non solo banale musica di genere. Questo il succo del pezzo dedicato su indie-rock.it al terzo album in coppia per King Khan e il fidato Mark Sultan, uscito a fine 2009 e destinato a diventare un immediato classico nell'ambito stilistico di riferimento (pur andando ben al di là dei limitati confini che l'etichetta impone sempre e comunque). Ciò che mi premeva dimostrare nel ridotto spazio a mia disposizione era che dischi come 'Invisible Girl' sono opere musicalmente e culturalmente molto più interessanti e rilevanti di quanto non suggerisca il distratto approccio promosso dalle recensioni o dalle stampe promozionali. Non che i due autori siano meri intellettualoidi esclusivamente concentrati sul concept di facciata – per capirlo basterebbe guardarli sulle foto dei booklet o sulle istantanee scattate ai concerti – ma è indubbio che i riferimenti e i rimandi sono squisitamente ampi e complessi anche soltanto in un pugno di canzoncine senza troppi fronzoli come quelle presenti nella raccolta in questione. Richiami ed echi da una sottocultura canzonettara oggi assolutamente passata di moda, riproposti con il rigenerante filtro del minestrone, del frullato ipercalorico. Tenere assieme la leggerissima musica dei sixties (anche italiani) con il garage più sbracato, i Beach Boys irranciditi con l'occasionale numero da virtuosi, la martellante attitudine pop dei Ramones con il pauperismo sgraziato del recente credo lo-fi, non è proprio cosa da tutti. Non è comune, soprattutto, che la commistione resti credibile ed apparentemente spensierata come in queste godibilissime nuove canzoni, dove l'irriverenza dei consumati punk-rockers è splendidamente amalgamata con il calibrato tocco da cultori revivalisti (che i due sbalestrati musicisti canadesi riescono ad essere con incredibile naturalezza). Da qui l'appellativo di kitsch, inteso ovviamente nella più genuina e positiva delle accezioni così come ne scriveva Umberto Eco all'inizio degli anni sessanta. Khan e Sultan ne incarnano divinamente la filosofia, spingendo all'eccesso tanto la logica del contrasto culturale quanto quella dell'instancabile cortocircuito semantico tra "alto" e "basso", colto e volgare. Nel pezzo per Monthlymusic ho valutato l'album da una prospettiva più scherzosa e meno approfondita, puntando gli ideali riflettori proprio sull'irriducibile anarchia estetica di Arish e Mark, sui loro trascorsi perennemente "ai limiti" oltre che ai margini, sul loro essere personaggi (prima che persone) la cui devianza non è mai stata altro, in fondo, che amore sincero per un passato formidabile dimenticato troppo in fretta. 

 

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Genio in sordina _parte terza

 

Dopo i fuochi d’artificio del duplice esordio, James Milne ha macinato chilometri su chilometri a rimorchio di svariate star della scena indipendente nordamericana, venendo anche cooptato per numerosi concerti in Europa e negli States. Ha cambiato residenza, optando per Londra, ha firmato con la mitica etichetta di Beach House, Explosions in the Sky, Midlake e Czars, la Bella Union, e, cosa più importante, si è fatto ampiamente desiderare. Ci sono voluti circa tre anni perché il moniker Lawrence Arabia tornasse sugli scaffali dei negozi specializzati con il fatidico sophomore effort, quasi un’eternità per un artista giovane ed emergente, ma bisogna riconoscere che difficilmente avrebbe potuto esprimere se stesso in maniera più fedele di quanto ‘Chant Darling’ non abbia fatto per lui. Arrivato sul mercato europeo con l’incredibile ritardo di oltre un anno, questo nuovo è un disco che ha tutto del suo autore, pure nell’inevitabile incompiutezza di una quarantina di minuti scarsi: ne incarna tutta l’irregolare, sofisticata e nostalgica grandezza ma, ancor più che in passato, ce lo presenta spesso e volentieri intento a concedersi pause inattese e non giustificate per un songwriter che ha in fondo ancora tutto da dimostrare. Miserie e nobiltà espressive convivono a stretto contatto nell’angusto spazio di un piccolo album, talento e broccaggine si danno il cambio in un’opera che sa deliziare e imbarazzare senza soluzione di continuità e, soprattutto, senza mezzi termini. Al cantante di Christchurch viene a mancare troppo sovente la rinfrancante levità del giusto mezzo, un livello medio di tutto rispetto, e gli innegabili miglioramenti espressi in pezzi di superba fattura finiscono con l’essere accompagnati da passaggi di sconcertante pochezza, indisponendo automaticamente chiunque avesse riposto in lui determinate aspettative. ‘Chant Darling’, avrò modo di rilevarlo a breve, parte in maniera del tutto incoraggiante ma ha il grave demerito di svilirsi molto presto, girando a vuoto troppo a lungo e quasi irrimediabilmente. Dopo tre ottimi pezzi catchy, Lawrence Arabia non riesce a mettere il silenziatore alla propria immaturità e pecca d’ingenuità nell’azzardato calypso lounge di ‘Auckland CBD Part Two’, ibrido improbabile (ma ancora abbastanza godibile, almeno per il sottoscritto) offerto nella confezione povera di un risaputo lo-fi e con la recidiva ostinazione per il frammento che già aveva limitato il più che valido esordio del 2006. Nella sua ormai proverbiale (ed in fondo fallimentare) passione per il nascondino, James rivela una tendenza masochistica che nella musica leggera non può proprio pagare. Della squillante ma ricercata immediatezza e delle sgargianti tinte unite del miglior Milne non v’è traccia, mentre torna a prevalere l’effetto flou di ‘Lawrence Arabia’, l’amore per il soft focus e per certa fumosa indefinitezza, quella logica dispersiva che, spingendo l’ascoltatore a soffermarsi su dettagli secondari, non può che penalizzare per forza di cose l’efficacia e l’acutezza della scrittura. Altrove è la scarsa convinzione del neozelandese ad indebolire le sue canzoni. ‘The Beautiful Young Crew’ non sarebbe affatto male se James la sviluppasse con la dovuta accuratezza anziché abbandonarla in uno stato a dir poco embrionale, con striminzito ricamo di chitarra, coloriture sbiadite da qualche fiato tristanzuolo ed una carica corale invero alquanto smorta. Nella parte centrale del disco – una “pancia” sfortunatamente quasi interminabile – regna sovrana un’eccessiva approssimazione che pesa in quanto frutto di uno svogliato approccio al songwriting. Il basso profilo – il Nostro dovrebbe ormai averlo imparato – è ingrediente deleterio quando si punti a creare del buon easy listening. ‘Fine Old Friends’ non fa che confermarlo: carina sì, nel solco dell’esperienza condivisa con Ryan McPhun dei Ruby Suns per merito di quella discreta predisposizione alle trame semplici e di agevole impatto, eppure poco brillante anch’essa, praticamente un’outtake scarsina da ‘The Dance Reduction Agents’ e niente più. ‘Chant Darling’ riesce comunque a fare ben di peggio. Quello di ‘Eye A’, per dire, è un pop bandistico senza alcun mordente, con troppa faciloneria ed una piattezza di fondo disarmante: con il suo brio alla naftalina e la sua allarmante assenza di idee decenti sarebbe discutibile anche come sciapa B-side, mentre troneggia invece proprio nel cuore dell’album. Di poco migliore la successiva ‘The Crew of the Commodore’ (ennesimo riferimento metaforico a ciurme e viaggi per mare, tema sviluppato con buona efficacia nelle immagini promozionali che hanno accompagnato l’uscita dell’LP), forse un po’ troppo buttata li, affogata nella noia e nella sua stessa fiacca indolenza per riscire a colpire davvero l’attenzione di chi ascolta.
 
Tutto questo per rendere conto di quanto possa essere sciagurato il buon Milne quando gioca a risparmio o da per scontata la meraviglia del proprio tocco. Tutto questo per ribadire che non è proprio di un prodigio che si sta parlando. Anche se…beh, il resto di ‘Chant Darling’ mantiene e rilancia le promesse dei precedenti incoraggianti episodi. La partenza, come accennato, è da knock-out tecnico. ‘Looks Like a Fool’ è un numero magistrale da navigato ammiraglio del pop, sempre per la serie dei titoli di coda (o di testa, in questo caso) ideali. Raffinata ma diretta, con una voce finalmente priva di incertezze e i coretti angelici che esaltano la sua vocazione sixties, svela nello sviluppo della sua trama un calore ed una squisitezza armonica che testimoniano a fondo la volontà di James di rischiare qualcosa, il suo romanticismo da perdente d’altri tempi. E’ una canzone pop che insegue da vicino la perfezione solleticando con la sua apparente idea di scontatezza, con la falsa disinvoltura di chi vuol lasciar intendere che quanto creato sia il frutto di un’estrema, irrisoria facilità, mentre è vero l’esatto contrario. ‘Apple Pie Bed’ è un altro impeccabile congegno pop che emana prodigiosi aromi anni ’60 e tiene alta la soglia dell’espansività grazie ad un ritmo contagioso (prezioso il basso) e all’ennesimo ritornello bostick della ditta. Dietro la spensieratezza di facciata e la leggerezza del taglio e dei riferimenti, si affaccia però l’irriducibile malinconia (come suggerisce anche l’ambigua promiscuità del vizioso videoclip, raggiungibile dalla foto qui sopra), altro dardo vincente nella faretra del neozelandese. Tra i due brani forti d’apertura, ‘The Undesirables’ appare più elementare e stilizzata nella resa melodica, pulviscolare in quanto a sostanza e durata, eppure è un ulteriore pezzo di bravura per via di quel refrain maledetto (in pratica non c’è altro) che insiste a omaggiare Lennon come stella polare e si conficca implacabilmente nella testa di chi gli presta attenzione. A questa partenza prodigiosa fa seguito la lunga ellissi di cui si è detto, e bisogna arrivare addirittura alla nona traccia per ritrovare un passaggio di eguale pregio, se non superiore: ‘I’ve Smoked Too Much’, un gioiello, l’orgoglioso colpo di coda del genio dopo un mezzo oceano di banalità. Parte con i soliti coretti brillanti, prosegue con la melanconica e sfacciata (in senso buono) posa da crooner lagnoso per poi sfociare in un nuovo irresistibile ritornello, svoltando sempre con estrema perizia tra le più disparate ed amabili direzioni melodiche. Vuoi per la superba fattura, vuoi per la sorpresa di averlo ritrovato quando non lo si sperava più, è un vero piacere stargli dietro per tutti i cinque minuti e mezzo: durata doppia per gli standard di Lawrence Arabia, anche perché si tratta praticamente di due canzoni (ottime entrambe) in una. La chiusa, riservata all’affabile ‘Dream Teacher’, conferma il livello qualitativo elevato del miglior James pur con estrema economia di risorse, a conferma che con i suoi soli impasti vocali Milne è capace di risultati eccelsi. Molto più raccolto, aulico, delicato ma anche estremamente toccante (vedi la formidabile estasi wilsoniana che chiude il crescendo) ed immune al virus della maniera. Un momento di autentica goduria per il finale, irritante se ci si sofferma a raffrontarlo con le troppe pause precedenti ma comunque di buon auspicio per il futuro prossimo. Già, il domani alle porte che lo porterà in tour in Italia questo autunno e chissà cos’altro potrebbe riservare. La mia speranza è tutta rivolta ad un nuovo Reduction Agents, possibilmente con la franchezza succosa del primo capitolo e senza le scorie di timidezza e gli eccessi dispersivi che fin qui ne hanno sempre inzavorrato il talento.
 

Per una ideale raccolta: ‘You Beautiful Militant’ (da ‘Mars Loves Venus’, The Brunettes), ‘Talk About Good Times’, ‘Bloody Shins’, ‘Hold Us Together With Sutures’, ‘The Thinnest Air’, ‘I Hope The Pope Makes You a Saint’ (da ‘Lawrence Arabia’, Lawrence Arabia), ‘Cold Glass Tube’, ‘80’s Celebration’, ‘Mississippi Moonshine Girls’, ‘Sweet Ingredients’, ‘Our Jukebox Run is Over’ (da ‘The Dance Reduction Agents’, The Reduction Agents), ‘Looks Like a Fool’, ‘The Undesirables’, ‘Apple Pie Bed’, ‘I’ve Smoked Too Much’, ‘Dream Teacher’ (da ‘Chant Darling’, Lawrence Arabia).

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Ulan Bator @ Spazio211

15-4-2010

 

Uno di quei concerti di cui conservo poco tra i miei ricordi, a parte una galleria di istantanee frammentarie ed un senso di appagamento comunque molto gradito a caldo, assicurato più dall’onestà dei musicisti sul palco che non da un mio effettivo colpo di fulmine nei confronti di questa band e delle sue canzoni. Tante volte sono passati da queste parti gli Ulan Bator, così tante che, nonostante mi ricordi con precisione almeno un paio di loro sortite in città da me mancate miseramente, quello di Aprile allo Spazio non è stato il mio unico appuntamento con loro andato a segno. Ed ogni volta, con ogni sorta di formazione in scena, le sensazioni sono le medesime: l’impressione di una franchezza assoluta, quel porsi in contatto con il pubblico e suonare senza ricorrere a maschere che non è proprio atteggiamento diffuso tra gli artisti indie più blasonati come tra gli emergenti, specie quelli di casa nostra. Umiltà, amore per una professione che è sempre decisamente "sui generis", anche quando fama e riscontri commerciali limitati farebbero pensare ad un più che legittimo uso del termine. Mestieranti sì, ma con la passione viva di chi ha i piedi ben piantati a terra e sa godere di quel poco che può esprimere e condividere: così sono gli Ulan Bator, band francese innamorata dell’Italia e marginale per inclinazione. E’ sempre bello incrociarli quando sono di passaggio perché si sa perfettamente cosa aspettarsi da loro e si può star certi che non si rimarrà delusi. In oltre quindici anni di orgogliosa carriera in trincea, Amaury Cambuzat e soci hanno saputo conquistare una sempre più solida credibilità in ambito indipendente, riuscendo a promuovere in pochi ma significativi lavori una personale quanto credibile via europea al post-rock. Un po’ math, un po’ noise ed in ultimo aperta alle contaminazioni con il pop sofisticato o la canzone d’autore. Il loro riuscitissimo mix – senza la minima variazione sugli standard del passato e con una bella aura scapigliata che sembra favorirli man mano che invecchiano – è stato alla base di questo loro ultimo live in agenda, a garanzia di quella generale soddisfazione di cui si è detto all’inizio. Cambuzat è a suo modo un personaggio e incide non poco sulla resa spettacolare del gruppo, pur essendo in fin dei conti un autore ed un frontman sincero come pochi. Con quella giacca impeccabile a fare contrasto con un’intonazione generale altrimenti decadente, oltre all’immancabile sigaretta sempre accesa in bocca, il cantante ricordava non poco il leader dei dEUS e nel report l’ho appunto definito il "Barman dei poveri" (senza il minimo intento dispregiativo, mi sono limitato a tracciare le dovute proporzioni). Come per il collega belga non gli si può certo rimproverare che il carisma gli faccia difetto: al centro della scena c’é sempre stato lui, tra una posa più contemplativa e le scariche del mattatore esagitato, pronto a violentare la sua elettrica o a percuotere la malcapitata tastiera. Pure nella versione a tre presentatasi in Italia nel tour di quest’anno, gli Ulan Bator hanno fatto un discreto baccano, merito soprattutto della ottima sezione ritmica composta dal nostro connazionale Alessio Ciborio Gioffredi e da un bassista parigino, Stephane Pigneul, che ha svolto con grande efficacia l’ingrato compito di non far rimpiangere il titolare (ma c’é ancora?) e cofondatore Olivier Manchion. Oltre a qualche genuina concessione spettacolare (vedi i costanti balletti da una parte all’altra della sua fetta di palco), è stato proprio questo pittoresco scudiero francese ad assicurare agli Ulan Bator una compattezza sonora impressionante, con tagli sostanziali alle dilatazioni e ai rallentamenti che non di rado hanno appesantito i loro brani in studio come dal vivo. Pescando equamente dal passato remoto e da pubblicazioni più recenti, la band si è mantenuta in perfetto equilibrio tra l’intransigenza degli esordi, con il suono spigoloso e minaccioso, e la maggior accessibilità di passaggi come ‘Nouvel Air’ e ‘Rodeo Massacre’. Ottima, a voler scegliere una canzone dal mazzo, l’onirica e perturbante ‘Pensées Massacre’, anche se la maggior parte degli applausi è stata spesa in occasione delle feste elettriche dell’immancabile ‘Lumiere Blanche’ (loro manifesto) e di quella ‘Santa Lucia’ che, con l’ottimo ‘Ego: Echo’, è uscita per la Young God di Michael Gira nell’unico momento di vero respiro internazionale che il gruppo parigino abbia mai avuto. Tour a parte, si intende.

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Six

 

Tra i dischi ripescati dopo essere stati lasciati a stagionare per un anno o poco meno, l’ultimo dei Black Heart Procession è forse l’unico ad essere migliorato all’ascolto rispetto a quando lo valutai per indie-rock.it. Al termine di un’attenta e reiterata reimmersione nel ormai ampio repertorio della band di San Diego, attuata in preparazione al loro live torinese del maggio scorso, posso affermare con una certa sicurezza che la distanza che separa ‘Six’ dai suoi predecessori è assai meno netta di quanto scritto in quell’occasione, in termini di ispirazione, sonorità, canzoni. E’ vero che rimangono brani tipo ‘Wasteland’ che ancora fatico ad apprezzare, vuoi per l’andatura terribilmente flemmatica, vuoi per il mood sepolcrale con richiami eighties forse un po’ troppo forzati, estenuati sin quasi alla caricatura di una maniera. Il resto però funziona molto meglio di come avessi immaginato, pur non spiccando per originalità, e a tratti quest’album riesce a suonare addirittura godibile laddove l’avevo trovato noiosetto o troppo lugubre. Pezzi come ‘Suicide’, ‘Rats’ e soprattutto ‘Witching Stone’, lavorano egregiamente e tradiscono una semplicità nel songwriting e negli arrangiamenti realmente efficace, intrigante. Il contributo dei pezzi malinconici nel delineare la fisionomia di ‘Six’ e meno determinante, ad esempio, che non nei primi due capitoli della discografia del gruppo guidato da Pall Jenkins, ma resta innegabile che, a parte la non entusiasmante ‘Heaven & Hell’, titoli come ‘Drugs’, ‘When You Finish Me’ e ‘Iru Sulu’ fanno decisamente la loro figura. E poi ci sono i tocchi classici della band, quelli che riportano quasi naturalmente alla memoria i Calexico nella loro accezione più tormentata e meno spensierata: ‘All My Steps’ e ‘Forget My Heart’ – con ogni probabilità la più bella canzone del disco – entrano di diritto in una ideale raccolta con il meglio dei Black Heart Procession. Per un album che sembrava troppo stantio, mortifero, destinato ad un rapido oblio, non è certo poco questa leggera ma insperata risalita nel gradimento. Voto aggiornato: 7. Ed ora vediamo di sentire come se la cavano i rinati Three Miles Pilot con ‘The Inevitable Past is the Future Forgotten’. Esce a fine mese.

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Broadcast @ Sala Espace

13-03-2010

 

Con la band di Trish Keenan finalmente dal vivo in Italia e forte di un più che discreto bagaglio discografico, per giunta in un luogo capiente ed ideale come la Sala Espace, le premesse per uno spettacolo soddisfacente c’erano tutte. Non era male il (pur frammentario) lavoro sperimentale realizzato l’anno passato con l’amico Julian House sotto le spoglie di Focus Group, anche se, con un fantastico repertorio di canzoni da parte, era più che lecito sperare in un recupero corposo dalla loro personale miniera di gemme pop del calibro di ‘Come on, Let’s Go’ o ‘Before We Begin’ (tanto per citarne due tra le tante). Il fatto che alla più logica delle soluzioni corrispondesse una reale attuazione di massima, con suddivisione del live in due momenti distinti – uno in teoria più ostico ed elettronico, uno più canonico e orientato al passato – pareva orientare la serata verso il coronamento dei sogni della vigilia. A stonare è stata però l’esecuzione, intesa sia come resa sonora che come partecipazione emotiva da parte della Keenan e di Cargill. In entrambi gli ambiti è tutto sommato innegabile che nulla ha funzionato come avrebbe dovuto o quanto meno potuto. Il suono proposto dai Broadcast è stato marziale, caotico, scuro e totalizzante, l’esatto contrario della spensieratezza (anche in salsa elettronica) o dell’inquieto fascino presenti in abbondanza nei dischi del duo di Birmingham. La band inglese ha poi colpito negativamente proprio per il poco calore dimostrato, sia sul piano di una comunicatività praticamente ridotta a zero che per la scelta di brani tra i più algidi e meno coinvolgenti di tutta la propria discografia. A rendere completo e irrevocabile il giudizio negativo, mio e di tutti gli altri spettatori nella buia sala di via Mantova, non solo l’aver dedicato venti minuti abbondanti agli indigesti sperimentalismi multimediali che hanno aperto il live, in una fosca gara di synth nerissimi che non hanno fatto altro che demolire le già scarne melodie di ‘Investigate Witch Cults Of The Radio Age’, ma anche la scelta pessima di non cambiare registro nella seconda parte e di limitare quest’ultima ad una mezzoretta del tutto insufficiente, viste le attese. La voce di Trish, penalizzata al massimo, è stata il grande assente della serata, assieme alle canzoni e all’atmosfera, al colore. Ci siamo illusi di poterci ricredere verso la fine, quando scampoli di luce hanno iniziato a filtrare nell’aria viziata dell’Espace. E’ stata un’illusione, appunto, la Keenan ci ha gelati salutando dopo nemmeno un’ora dall’inizio. Non può stupire, allora, come a tre quarti della stagione l’indegna prova torinese dei Broadcast resista in cima alla classifica dei più brutti concerti visti quest’anno. Forse non solo quest’anno.

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Piers Faccini @ Cursi (LE)

17/08/2010 _ Il nostro (altro) concerto

 

I miei ultimi viaggi in Salento non sono state vacanze, sono state ricerche. Ritorni a casa, esplorazioni di un piano forse insondabile che è logico chiamare origini. Anni e anni di ferie ad oltranza, spensierate quanto prive di vera consapevolezza, non mi hanno mai permesso di andare al di là di una generica superficie umana e culturale, di un folklorismo buono al più per il turista occasionale e senza legami nei confronti di una terra sempre vampirizzata ed in fondo mal vissuta. Mancavo da tre anni, ma devo ammettere che quest’assenza è stata degnamente ripagata. Mi ha accolto un clima benevolo in tutti i sensi, senza il fastidio di una fugace velatura al sole, senza il classico tormento dell’afa africana, ad anni luce di distanza – ma questo era scontato – dall’avvelenante frenesia universale della grande città. E poi il mare, che quest’anno ha rasentato la perfezione: sempre placido, sempre cristallino, senza meduse, senza inconvenienti di sorta. Una tavola azzurra adagiata sugli scogli alti della litoranea neretina. Con buona pace di chi ama le spiagge (e non parlo degli immondezzai liguri o romagnoli), io ho accuratamente evitato di addentrarmici, se si eccettua una puntata in quel di Torre Colimena, provincia di Taranto, pianificata però con intenti da “fine contemplativo”, spendendo buona parte del tempo nella visita ad un’enorme salina e nella passeggiata in un villaggio di pescatori che sembra fermo a cinquant’anni fa (e mi ha ricordato remoti angoli della Grecia meno devastata dal turismo). A parte il piacere inarrivabile del godersi il mare, l’intenzione fondamentale – direi quasi l’imperativo – è stata quella di fare miei svariati frammenti di autenticità salentina, in qualsiasi ambito mi si presentassero, a patto di evitare come la peste quella convenzionalità farlocca che l’industria turistica ha costruito pezzo dopo pezzo in oltre quindici anni di scellerata campagna promozionale, propinando agli ignari villeggianti un prodotto più che un territorio, un luogo comune invece che un luogo reale, un macchiettismo da cartolina che non è meno preconfezionato delle orecchiette vendute in pacco regalo direttamente con i cocci di ceramica decorata. Bandite le false facilitazioni per non finire subito fuori strada, bandita la falsa veracità bastarda che di originale non conserva più nulla, nemmeno l’involucro. Rispetto agli anni passati ho provato a vivere maggiormente il posto addentrandomi nei paesi, quelli fuori dagli itinerari scontati e dagli opuscoli dei settimanali, quelli dell’interno. Non che non l’avessi mai fatto ma questa volta si è trattato di una scelta fortemente voluta più che di una collezione di coincidenze. Per poter tradurre in qualcosa di concreto questo mio desiderio ho puntato ad un affinamento emotivo, direi quasi spirituale, provando ad immergermi nello spirito del posto, nella sua anima più primitiva e resistente alle contaminazioni unilaterali, quelle che impoveriscono anziché arricchire, per catturarne almeno qualche bagliore di riflesso. Musica e feste di tradizione popolare sono stati i miei campi di battaglia, un po’ come in passato ma con molto più costrutto. Posso allora lasciare la testimonianza di un evento fragoroso cui ho avuto la fortuna di presenziare, la lunga notte dedicata a San Rocco, tra il 15 ed il 16 Agosto, in quel di Torrepaduli, frazione di Ruffano. Di ciò di cui ero in cerca qui si è colta l’essenza in tutta la sua asprezza, resa dal suono regolare, ossessivo ed ipnotico, di centinaia di tamburelli suonati fino alle prime luci dell’alba dai vecchi come dai bambini, scandendo un ritmo di frastornante follia per accompagnare danze e rituali di corteggiamento che da secoli si rinnovano immutati. Grandi cerchi occasionali di suonatori, le ronde (quelle buone), creatisi dal nulla per dare sfogo a nuovi cerimoniali danzanti, simulando il gioco della vita con la giusta miscela di seduzione e morte, in linea con i precetti della cultura greca e nella forma attualmente più pura di tarantismo. Dare un suono alle pulsioni elementari per esorcizzarne la potenza distruttiva, chiuderle in una rappresentazione che è forse troppo difficile da raccontare. Un po’ come la danza delle spade (la pizzica scherma, un tempo non mimata ma eseguita con veri coltelli) che ha preso vita intorno alle tre di notte con analoga spontaneità nel piazzale antistante il santuario, ancora più curiosa, animata ed indescrivibile: una via di mezzo tra un ballo ritmato ed un gioco, con la competizione però lasciata da parte in nome di un fenomenale spirito di fratellanza tra i partecipanti. Da un secolo sentivo parlare di queste cose e di Torrepaduli, finalmente ne sono stato testimone. Non c’è dubbio che l’impatto sia forte ed è innegabile come la più genuina radice di queste usanze si sia mantenuta, almeno nelle linee generali. Spiace invece constatare come l’evento non sia sfuggito alle logiche ed al richiamo della massa, pur limitati in sostanza ad una dimensione localistica (pochi gli accenti non salentini uditi), con decine di migliaia di presenze (sciami di “mazzari” del posto e orde di alternativi da strapazzo le categorie più odiose, le stesse che infestano l’ormai prescindibile concertine di Melpignano) ed un mostruoso carrozzone commerciale a base di porchettari, venditori di ciarpame religioso (con punte kitsch sublimi ed una varietà di articoli strabordante, va detto) e giostrai di tutte le fogge. Ancora una volta la pubblicità che fa solo danni, per una manifestazione oggi meno affascinante di come doveva apparire solo pochi anni fa ma, va beh, si prende l’intero lotto e amen. Considerando il buio assoluto nelle distese di ulivi attorno a Ruffano, con la possibilità di ammirare il cielo stellato come in poche altre parti d’Italia, è facile ammettere che i pro siano ancora largamente superiori ai contro.
Riguardo alla sfera più prettamente musicale – e qui vengo al punto nodale di questo mio pezzo – vorrei spendere qualche parola su uno degli appuntamenti che avevo annotato in agenda giunto sul posto e ho fatto di tutto per non perdere. Di sagre e concertini più o meno interessanti ne ho vissuti diversi e questo mi ha portato a girare di notte per il Salento come mai in passato. Un bel viaggiare, bisogna dire, anche perché questi oscuri paeselli si svelano soprattutto di sera in tutta la loro agra bellezza e c’è sempre qualche scorcio prezioso da far proprio, anche nel più piccolo e remoto angolo di mondo. In qualche caso particolarmente fortunato può capitare poi di andare a fondo nella propria ricerca senza che lo si fosse minuziosamente programmato, venendo rapiti in modo inatteso da uno dei più bei concerti visti negli ultimi anni.
 
Non credevo possibile che questo mi potesse accadere in ambiti in fondo abbastanza lontani da quelli che frequento abitualmente, ma è pur vero che questa era tra le premesse di un agosto altrimenti senza musica dal vivo. Ho sentito la necessità di una pausa dai miei soliti suoni, dai soliti dischi rassicuranti ed universali pur se indipendenti (indipendenti da cosa non è ben chiaro, soprattutto quando ci si confronta con realtà molto più circoscritte come queste e qui sta il bello) ma al tempo stesso ero convinto che servisse un elemento di contatto con le mie “basi”, qualcosa di concreto e familiare che funzionasse un po’ come una bussola in territori “altri” da esplorare con un minimo di raziocinio. Il live organizzato nella piazza centrale di Cursi la sera del 17 Agosto, nell’ambito della rassegna ‘Festival Notte della Taranta 2010’, è riuscito a soddisfare come meglio non si sarebbe potuto questa mia duplice esigenza di spettatore curioso ma non sprovveduto. Il merito è stato di tutti i musicisti coinvolti in un evento durato la bellezza di quattro ore e mezza (volate via letteralmente, non lo dico così per dire), tre stupefacenti realtà di questo territorio sempre così sorprendente, ma soprattutto di Piers Faccini, l’ospite internazionale che ha illuminato l’intera seconda parte dello spettacolo dimostrando come una tradizione folk estremamente localistica, microregionalistica addirittura, possa essere alimentata e corroborata da musica d’estrazione popolare assai più accreditata e conosciuta, dando vita con essa ad un processo creativo dinamico e paritario, ad un continuo flusso di stimoli e commistioni intelligenti da cui trarre la prova tangibile delle più impensabili affinità espressive ed emotive. Il senso di un’esibizione interamente orientata alla rispettosa rilettura di una tradizione musicale saliente come la pizzica salentina ha trovato nell’unione di forze tra il cantautore indie inglese (ma anche un po’ italiano, anche un po’ francese ed innamorato della musica dei neri americani) e l’eccellente ensemble denominata Canzoniere Grecanico Salentino il punto di maggior interesse in una lunga serata che non ha avuto in realtà alcun giro a vuoto. Per primi si sono esibiti gli Argalìo da Corigliano d’Otranto (uno dei nove comuni della sensazionale Grecìa Salentina), custodi di fatto dell’intero patrimonio cantato in griko (il solo dialetto residuale della lingua greca in tutta l’Italia meridionale, quella che una volta si chiamava Magna Grecia), che con la loro effervescente ma rigorosa colonna sonora ellenofona sono riusciti ad entusiasmare e a far muovere il culo anche ai più decrepiti tra i numerosissimi presenti, ad esempio sulle note ormai celeberrime della conclusiva serenata ‘Kali Nifta’ (praticamente un simbolo di questa terra e dell’amore per essa). Estremamente pregevole anche il concerto di Enza Pagliara, considerata da molti la più bella voce femminile in questo ambito, attualmente. In effetti la sua prova è stata eclatante per limpidezza e trasporto ma anche per eleganza, vera anomalia in un universo che generalmente fa della veracità un po’ sciatta la sua bandiera. La Pagliara è artista di spessore e lo ha dimostrato, pilotando una voce acidula ma incredibilmente corposa ed autorevole nell’esplorazione senza limiti di ogni declinazione del tarantismo fatto canzone, tra propri brani originali e qualche classico dimenticato della tradizione popolare salentina, napoletana e siciliana: un’autentica rivelazione ed un’interpretazione magnetica, potente, arricchita dai costanti interventi della stessa Pagliara al tamburello (della cui arte è una eccelsa sacerdotessa) e nobilitata da una scorta strumentale solitamente rappresentativa di generi musicali assai meglio considerati (mandola raffinatissima, contrabbasso, clarinetto e violoncello elettrico). Confesso che guidando alla volta di Cursi avevo ben più di un timore a proposito di questi artisti, considerati volgarmente “locali” per un mio forse eccessivo snobismo (e provincialismo, per paradosso) oltre che per troppa ignoranza. Di pizzica ne ho vista e sentita in abbondanza nelle mie tante estati leccesi, ed in un certo senso ne ero stanco, decisamente saturo. Va detto però che si era sempre trattato di musicisti alla buona, interpreti a tempo perso di una tradizione ridotta a semplice cliché, a stereotipo di superficie ideale come ordinario accompagnamento per sagre paesane ed occasioni mangerecce. L’inflazione di queste grossolane tarantelle ha in fondo condizionato le mie opinioni su un universo che può rivelarsi di ben altro spessore. E’ proprio vero che, come in ogni ambito, l’eccesso di mediocrità può indurre al disgusto mentre della bellezza non si è mai sazi. Questo spiega meglio di tante parole perché alle due di notte non sentissi la minima stanchezza nei confronti di quelle sonorità incalzanti e contagiose. Il piatto forte, come accennato, se lo sono ritagliato Faccini ed i suoi occasionali compagni d’avventura nel lungo set che ha completato la serata. Il piacere in questo caso è stato duplice: da un lato la possibilità di godere fino in fondo di un patrimonio folk celebrato con perizia assoluta e varietà di soluzioni dal gruppo di Mauro Durante, dall’altro la sorpresa nel rilevarne nuove possibilità nell’incontro vivificante con influenze ben diverse (ma al tempo stesso pertinenti) come quelle portate in dote dall’eclettico cantante inglese, non nuovo a sortite in questi territori (e ad esibizioni da queste parti: la sua ammirazione per una figura cardine come Uccio Aloisi lo ha portato in Salento già diversi anni fa). Il mix delle squillanti pizzicarelle cantate da un’intensa Maria Mazzotta e le inquiete invocazioni soul di Faccini ha dato luogo ad un’armoniosa e quanto mai convincente preghiera popolare, vibrante, a tratti asprigna ma sempre capace di emozionare. Per farsi un’idea di questa insolita ma riuscitissima convergenza di stili può essere utile il video cui si accede dalla seconda foto in alto (la prima apre la galleria dei miei scatti di quella sera), sicuramente rappresentativo del suono e dello spirito stesso del concerto. Un evento aperto da Faccini intonando il leggendario spiritual gospel blues ‘John The Revelator’ come a voler subito tracciare un ideale ponte tra il Salento ed il Delta del Mississippi ponendo le premesse di un discorso curioso quanto coerente, in cui non hanno stonato anche alcuni pezzi del repertorio del cantautore di Luton (‘If I’ da ‘Tearing Sky’ e ‘Your Name No More’ dal più recente ‘Two Grains of Sand’). Ha funzionato benissimo l’intreccio degli strumenti acustici della tradizione mediterranea con le eleganti chitarre elettriche suonate da Piers, tra fisarmoniche, zampogne ed ogni sorta di percussione e la sua affilatissima e sanguigna armonica (raddoppiata in qualche caso da quella più forsennata – tarantolata, verrebbe subito da dire – di uno dei musicisti leccesi). Alcuni tra gli spettatori più anziani hanno inizialmente storto il naso di fronte all’intruso e al suo personale bagaglio, salvo ricredersi molto presto non appena Faccini si è lanciato con coraggio e bravura nel primo di diversi duetti in dialetto stretto con la Mazzotta (si veda in proposito il video di ‘Beddhra Ci Dormi’, dalla foto qui sopra). Da quel punto in poi è stata festa grande anche al di qua della transenna, con molti ragazzi intenti ad assecondare il ritmo con il proprio tamburello o a replicare in maniera improvvisata i balli affidati sul palco ad una danzatrice di pizzica, fino alla fine dello spettacolo ed oltre. Per me, arrivato a quel momento non ancora satollo, la soddisfazione di un tardivo spuntino a base di leccornie locali (pittule e mustazzoli, povero chi non li conosce), prima di tuffarmi con la mia auto nel buio di un’altra incomparabile notte stellata.

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