Lisa Germano & Phil Selway @ Spazio211

27/03/2010 _ Il nostro (altro) concerto

 

Lisa Germano di ritorno in Italia. Non da sola tuttavia, bensì accostata a Phil Selway in un improbabile pacchetto promozione per una serie di serate da tutto esaurito, di quelle che col senno di poi avrebbero dovuto essere ribattezzate “Specchietti per le allodole & Perle ai porci”. L’occasione, in teoria, era l’anteprima per l’esordio solista del batterista quarantaduenne, cimentatosi con il canto e la chitarra in un album che non ha ancora un titolo o una scaletta ma che a quanto pare è già stato realizzato, con ospiti di assoluto rispetto. Prima tra tutti proprio la Germano, evidentemente onorata di collaborare con il musicista e di accompagnarlo in giro per il mondo per questa tournee-test, pretesto eccellente per proporre ai suoi fan con non troppo ritardo le canzoni del proprio ottavo LP (tralasciando l’ottimo ‘Slush’ che uscì con l’aggiunta dell’estemporaneo marchio OP8 ed il contributo di Howe Gelb e della premiata ditta Burns&Convertino), ‘Magic Neighbour’. Di quell’ensemble creativa ha fatto parte anche il fidato bassista della fascinosa folksinger dell’Indiana, quel Sebastian Steinberg che fu titolare in uno dei gruppi più intriganti e sfortunati degli ultimi vent’anni, i Soul Coughing di Mike Doughty, e che in questa serata trionfale allo Spazio211 (“trionfale” è da intendersi in termini di incasso) si è fatto apprezzare nonostante i capelli bianchi ed i chili in vistoso aumento sull’addome. Un lancio per Selway – si diceva – ed in effetti il pubblico non ha perso l’occasione per dare il proprio sostegno al più attempato (e meno entusiasmante) dei cinque Radiohead. Almeno sulla carta e almeno prima di ascoltare le canzoni di questo songwriter dell’ultima ora, ché la musica che ci sarebbe stata propinata era destinata a restare un’incognita un po’ per tutti fino all’inizio. Certo non ci voleva proprio una fervida immaginazione per indovinare che di brani della band di Oxford non ne avremmo sentito mezzo, nemmeno un assaggio acustico di trenta secondi a mo’ di contentino. Ma andatelo a spiegare a chi i concerti di musica cosiddetta alternativa non li bazzica mai neanche per sbaglio e non ha magari neppure la maggiore età riportata sul documento d’identità, pur essendo in fissa sicura per questi stramaledetti (e inarrivabili) Radiohead. Miracoli della promozione: sul manifesto dell’evento basta segnare il nome di una band che non si esibirà per garantire ai locali interessati un afflusso spropositato di gente che mai si presenterebbe negli stessi posti una sera qualsiasi dell’anno, sempre che non ci suoni un Greenwood o un O’Brien beninteso. E così ecco la palazzina bassa del 211 incravattata già alle 21.30 da una coda all’ingresso che non si vedeva dai tempi delle più “calde” serate dello spaziale Festival, con intere legioni di pischelli intenti a sopravvivere nel giardinetto minato di stronzi di cane antistante il locale e a conquistarsi un biglietto prima dell’apparizione dell’odioso cartello “Sold Out”. Noi che siamo orribilmente puntuali (e avveduti, dai) siamo arrivati coi primi, risparmiandoci la fila e le temute chiacchiere con il più ributtante indie-freak dell’intero circuito live torinese (ed occasionalmente milanese), il famigerato Testa a palla. Comodamente (per poco) seduti sul gradino che, lo sappiamo, rivelerebbe ad un’attenta analisi l’impronta digitale delle nostre chiappe, abbiamo sorseggiato con amabile nonchalance il nostro drink assistendo con impazienza crescente a questa sorta di show dei record, il locale di musica dal vivo stipato di gente nella maniera più impressionante. Sondaggio ideale non realizzato: quante persone per ascoltare la malía scura di Lisa Germano? Poche, pochissime. In compenso i fan del buon Selway erano innumerevoli ed anche abbastanza spaventosi. Tra i nostri preferiti i due sedicenni che gridavano ogni trenta secondi “dai che adesso sul palco sale Dio” (buona idea per la sceneggiatura di una commediola con Jack Black ed il mite Phil nei panni dell’Altissimo) e soprattutto il loro coetaneo giunto sul posto con il vinile di ‘OK Computer’ da far autografare al musicista (non è uno scherzo purtroppo). La partenza ha spazzato via le loro certezze confermando le nostre, con buona pace di tutti coloro che credevano di assistere ad un certo tipo di evento e con somma goduria per noi pochi incalliti estimatori della Germano, una cantautrice di classe sopraffina. E’ stata lei ad aprire le danze in uno show pianificato con gusto decisamente sobrio, alternando brani dell’uno e dell’altra per rendere assai più variegato e piacevole l’ascolto. Con ‘Pearls’ siamo tornati indietro alla magia di ‘Lullaby For Liquid Pig’ e alla sua calda e toccante vena intimista. Personalmente lo consideriamo ancora una delle più riuscite tra le sue confessioni in musica e quello stile, così intenso e personale, ha in fondo segnato la matrice di tutto il live di Lisa, controllatissimo eppure forte di un magnetismo denso, scuro, irresistibile.

 

Gli spettatori che non erano qui per lei, quasi tutti come detto, si sono mostrati sufficientemente rispettosi da seguire in silenzio la prova della statunitense, ancora convinti forse che avrebbero ricevuto presto quanto desiderato dalla loro benedetta star, in piedi sulla destra a strimpellare poche note di chitarra. Quando è toccato a Phil presentare il suo primo pezzo abbiamo ricevuto le poche indicazioni che ancora ci mancavano per dare forma ad un’opinione piena della serata. Il timidissimo Selway ha cantato la sua canzone con voce fragile ma non così incerta, presentandosi in tutta la delicatezza che evidentemente lo rappresenta a fondo al di là della maschera silenziosa che indossa dietro grancassa e rullanti nella sua band. In tutta la serata ha offerto una decina scarsa delle proprie canzoni, suonandole con una pacatezza encomiabile e la dovuta convinzione, fregandosene del fatto che per molti questa sua naturalezza si sarebbe tradotta in una posa stucchevole e fastidiosissima. Non per noi, che con la massima onestà possibile ci siamo sforzati di apprezzare i pregi di una formula indubbiamente genuina, per quanto assai poco originale e, soprattutto, senza sostanziali variazioni da un episodio all’altro. La prova sincera ma sostanzialmente monocorde dell’inglese è stata salvata e resa tollerabile dal garbo davvero squisito di Phil ma ancor più dal contesto in cui ci è stata regalata, proprio nell’abbinamento alternato con quella di una professionista di razza come la Germano. Canzoni come ‘Breaking Promises’, ‘Falling’ o ‘Running Blind’, annunciate da Selway, non sono parse malvagie per quanto un po’ esangui, insapori, laddove anche i titoli meno riusciti tra quelli scelti da Lisa parevano colorarsi quasi automaticamente di vita e di una luminosa, sottilissima, enfasi drammatica. Con il correre dei minuti abbiamo potuto celebrare la validità di alcuni (indiscutibili) dati di fatto. In primo luogo il divario tra i contributi di questi due headliner: lui ordinario ben più che nelle intenzioni, costretto a recitare la parte dell’innocuo ed un po’ patetico pesce fuor d’acqua in territori ben diversi da quelli cui è abituato, lei titanica nello sfoggio di un’energia invisibile eppure innegabile, sensuale nelle sue cadenze lente nonostante le rughe che non ricordavamo sul suo viso. Anche la palpabile rassegnazione dei fan dei Radiohead è parsa evidente: una tranquillità forzata e quasi auto-imposta che ha detto molto più dei fischi che non abbiamo sentito, a conferma di quelle innumerevoli e rumorosissime speranze della vigilia andate giustamente deluse. Osservando e prestando orecchio al Phil primattore verso la fine del concerto abbiamo avvertito una certa stanchezza, presto rimpiazzata da una fugace quanto efficace sensazione d’ilarità, spontanea e del tutto bonaria. Ci è tornato alla mente quel comico televisivo che a Zelig o in trasmissioni simili impersonava un parimenti delicato folksinger carioca, con analoga zucca lucida e maglietta verdeoro d’ordinanza. Selway ci perdonerà il colpo basso ma, all’ottava canzone della stessa risma, ci è apparso davvero come la più formidabile parodia di quel tizio della tivù. Non così mediocre di certo da meritargli quella dedica speciale ‘You Suck!’ sul bigliettino recapitatogli direttamente tra un pezzo e l’altro, in un momento in cui sembrava più logico raccogliesse qualche timido applauso piuttosto che l’insulto gratuito di un sicuro idiota. Sportivamente l’improvvisato cantante ha riso, ma dello stesso “riso che non si cuoce” descritto da De Amicis. Al microfono, con la chitarra, le tastiere o il violino, Lisa è invece andata avanti per la sua strada ottimamente scortata dai musicisti e da un Phil abbastanza triste anche negli accompagnamenti, con l’acustica, lo xilofono, un tamburo o una bottiglietta di minerale riempita con la sabbia. Nessun brano dal memorabile ‘Geek The Girl’, purtroppo, e pochissimi estratti anche da album datati, tipo ‘Candy’ o ‘Electrified’. Ricchissima invece la rappresentanza eletta dalla sua più recente fatica discografica, a riprova di come ‘Magic Neighbour’ fosse una raccolta di canzoni di tutto rispetto nonostante le non poche critiche miopi raccolte. I momenti migliori li hanno offerti una sinuosa ‘Suli-Mon’, la trasfigurazione dell’infanzia nell’incantevole ‘The Prince of Plati’ (dedicata al padre) o passaggi più coinvolgenti quali ‘Simple’ e ‘A Million Times’. Alla fine parecchi applausi da parte di una platea costretta ad ammettere che la sconosciuta icona indipendente sapeva il fatto suo, assai più del celebrato batterista rock. Spiace per l’affabile Phil Selway, ma questo è un successo che sentiamo anche nostro e che ci portiamo a casa molto volentieri.

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