The Idler Wheel Is Wiser Than the Driver of the Screw and Whipping Cords Will Serve You More Than Ropes Will Ever Do

       

Oggi più che mai Fiona Apple risplende come vero e proprio Crazy Diamond del cantautorato femminile, curiosamente a cavallo tra mainstream e indie essendo entrambe le cose e nessuna delle due a un tempo. Difficile incasellarla altrimenti. Lontana dalle vendite milionarie dei primi dischi eppure ancora abbastanza appetibile per il gossip, abbastanza quantomeno da far parlare di lei anche i quotidiani generalisti del nostro paese che – come certi grotteschi svarioni di sepolcri imbiancati tipo Castaldo & Assante insegnano – non è che stiano proprio sul pezzo quando si parla di musica che non sia Vasco/Mengoni/Coldplay. Un diamante Fiona lo è sempre stata, migliorando se possibile con l’andar del tempo. Una gemma diventata via via sempre più grezza magari, e ultimamente anche più folle. Il parallelo con Syd Barrett passerà per azzardato e io per primo non voglio sembrare ingeneroso nei confronti della cantante newyorkese, accostandola a un artista le cui tristi vicissitudini non possono certo essere considerate il migliore degli auguri. Eppure un sottile legame tra i due sembra esserci. Fiona è tornata dopo un lungo silenzio con questo disco che la critica ha giustamente incensato, data l’intensità nella scrittura e nell’interpretazione da parte di un’autrice problematica quasi per necessità. E’ tornata a incantare ma è tornata con una brutalità che in pochi potevano immaginare. E’ una donna diversa, maturata ma anche lacerata, cruda e sincera. E’ una donna che lotta contro un disagio, contro un’inquietudine, che trova sprazzi di serenità e di lucida passione, ma più che altro rivela una sofferenza. Non sta bene ma non si nasconde. Così il disco, spoglio, tormentato, senza belletti, lontanissimo dalle torch songs un po’ manierate della sullen girl degli esordi. A distanza siderale dal modello Lana Del Rey, che in maniera risibile tanti critici le hanno accostato. E’ un album difficile questo, volutamente scontroso, ma l’anno scorso l’ho consumato per gli ascolti. Del genere che si ama o si odia senza riserve. La prima opzione per me, che ho cercato di rendergli onore con una recensione in cui ho messo l’anima, tutto l’amore da estimatore solitario di lunghissimo corso. Sarà una coincidenza, ma l’ho ritrovata artisticamente in forma – a differenza della piega umana, preoccupante – con un disco dal titolo chilometrico e apparentemente senza senso. Era già capitato ai tempi del sophomore “When the Pawn…’, capolavoro inarrivabile. Difficile dire se i suoi problemi caratteriali e psichici siano un limite o una fortuna. I titoloni su Pitchfork per l’arresto per droga (erba, e poca) in Texas o per i tour annullati per stare vicini alla propria cagnetta hanno impressionato più dei voti clamorosi su quella stessa webzine e altrove. Tengono ancora in apprensione chi le vuole bene e ama la sua musica. In verità le cose sono andate in questo modo da subito, con il chiacchiericcio sgradevole sulla violenza sessuale subita da ragazzina, con cui di fatto venne presentata dal primissimo istante, o il tormentato rapporto con la Sony e il famoso terzo album “che visse due volte”.  Non c’è mai stata pace attorno a Fiona Apple e forse non è detto che sia un male. Certo ritrovarla con gli occhi scavati in modo pauroso, con quel viso consumato da far spavento e proprio lei, bella come poche, un po’ di inquietudine la lascia. Fa parte del personaggio, si dirà. D’accordo. La prossima volta però anche un disco meno sofferto andrà benissimo, se questo significherà non sposare fino in fondo quell’ombra di follia così insondabile e dolorosa.

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