Month: novembre 2016

American Psycho _Letture

       

Chissà se Patrick Bateman è poi riuscito a prenotare quel famoso tavolo al Dorsia… Magari sì, ma se pure il ristorante newyorkese non fosse solo il frutto della mente di Bret Easton Ellis, sarebbe dura per il protagonista del suo celeberrimo “American Psycho” imbattersi nel proprio mito indiscusso, quel Donald Trump da poco eletto Presidente.

Non mi riesce di parlare di questo libro senza servirmi del pur umile spadino dell’ironia, forse l’unico strumento utile a uscire indenni dalle caustiche insidie che quest’opera riserva ai lettori sprovveduti. Per omologazione sarebbe comodo adeguarsi al coro di lodi sperticate che accompagnano il romanzo dalla sua uscita, un quarto di secolo fa giusto giusto. A me la cosa non è riuscita anche se ci ho provato, mi spiace. Il suo sadismo mi ha fatto male, anche al netto dell provocazioni (che posso ben comprendere) o delle ridondanze volute (francamente indigeste, a lungo andare), e sì che io non credo certo di potermi etichettare come “anima candida”. Il pugno nello stomaco non mi preoccupa, ne ho già presi diversi e quasi tutti me li ero andati a cercare. Ma il pugno nello stomaco gratuito no, quello mi da ai nervi. E la celebrata opera terza di Ellis appartiene a quest’ultima categoria, e non nasconde l’orgoglio per il fatto di farne parte. Ideologicamente insomma siamo agli antipodi, ma almeno c’è la scrittura a compensare, innegabilmente valida. Un po’ sprecata in realtà, se la costringi a inseguire per mimesi la mente di un maniaco, rendendola essa stessa maniacale: un gioco che può reggere fino a un certo punto, ma dopo centinaia di pagine, beh…

Entusiasmi o meno, “American Psycho” è però uno di quei testi che non si dimenticano – di questo va dato atto a Bret – proprio come il suo protagonista. Che per me avrà per sempre il volto di un (lui sì) sensazionale Christian Bale, l’attore scelto per la discreta (e non altrettanto cinica) trasposizione cinematografica firmata da Mary Harron (chi?!). Non so, indimenticabile ma anche un po’ indigesto. Mi ha inibito nei riguardi di un autore che per altri versi ho sempre trovato intrigante. “Glamorama”, “Meno Di Zero”, “Le Regole Dell’Attrazione” e “Imperial Bedrooms” sono comunque tutti lì, accanto, nella mia libreria. Chissà che un giorno questa indisposizione non mi passi e non mi torni la voglia…

Dovrebbe essere un brillante uomo d’affari di Wall Street Patrick Bateman, broker di quelli cazzuti à la Gordon Gekko che sul finire degli anni ottanta spopolavano nell’immaginario comune come emblemi del vero successo. Dovrebbe, perché a dirla tutta non capiterà mai di vederlo sudare le proverbiali sette camicie per mettere assieme quella stessa fortuna che si mostra invece assai prodigo a dissipare, puntualmente, nei templi del lusso newyorkese come nei locali di maggior grido. Ha una fidanzata avvenente ma interscambiabile a piacimento con infinite altre, ombre degli yuppies più rampanti ma non certo luminari al femminile in lizza per un premio nobel. Agli occhi di lei si presenta come “il ragazzo della porta accanto”, ma non impieghiamo molto a renderci conto che dietro il velo di apparenze, dietro il suo ruolo oracolare in fatto di abbinamenti e bon ton, il Bateman privato è un Edward Hyde perverso ed efferato. Ce lo racconta lui stesso, sciogliendo la briglia a una collezione di monologhi interiori raccapriccianti, per adesione ai cliché della mente dissennata e crudele oltre ogni limite. Vorrebbe scoprire come abbia fatto il borioso Paul Owen a assicurarsi la mecca del “Portafoglio Fisher”, e non esiterà ad ammazzarlo alla prima occasione utile.

Nutrirà impulsi simili verso numerosi altri colleghi, figurine accomunate dalla loro natura insopportabile e iperstandardizzata, oltreché dal fatto di chiamarsi vicendevolmente con nomi inesatti, con una sufficienza che rasenta il patologico. A pagare i sempre più frequenti deragliamenti di una coscienza minata da troppi guasti saranno però, più che altro, vacue accompagnatrici da quattro soldi e gli immancabili homeless, la tappezzeria umana che nel Lower East Side va sempre per la maggiore. I tentativi quasi disperati con cui Bateman proverà a farsi acciuffare, colpendo nel mucchio con sempre meno cautele e rendendo pure caricature i precetti del proverbiale “delitto perfetto”, non sortiranno altri effetti che un inseguimento buono al più per un noir alla Michael Mann, mentre anche la sua patetica confessione su segreteria telefonica verrà accolta come la semplice carnevalata di un drogato di lavoro un tantino esaurito. E allora, forse, andrà a finire che il famigerato serial killer potrà ambire al ruolo di eroe in una società marcia, ottusa e depravata, impossibile da emendare se non con il sangue.

Deliri di onnipotenza, ridicole ossessioni, misoginia galoppante e tetra satira sociale (a voler proprio nobilitare la critica furbetta che a tratti si lascia ammirare) sono gli ingredienti grazie ai quali Ellis da corpo al vuoto pneumatico di un mondo e di un’epoca, aggrappandosi al suo primattore come all’emblema di una way of life che ha superato in quinta anche le più sfrenate tra le fantasie malate del Sogno Americano, e consacrando se stessa in maniera frenetica a ogni possibile falso mito, senza più margini di credito a pur elementari forme di amore o solidarietà. L’autore è stato abilissimo – diciamo pure geniale, vista la messe di allodole imbambolate dagli specchietti qua e là piazzati ad arte – a giocarsi le carte del nonsense e della verve comica, espedienti narrativi perfetti per controbilanciare la spietata, seriosa insensatezza dietro le efferate azioni del cavaliere nero Patrick, e ancor più dei suoi pensieri. E’ un trucchetto semplicissimo, del genere che fa fine e impegna meno di zero, e gente come Palahniuk l’ha metabolizzato così bene da riuscire a imbastirci su una più che ragguardevole carriera.

Ecco allora la dipendenza del protagonista da una boiata televisiva come il Patty Winters Show (peraltro sempre più sfarfallante e grottesco, curiosamente in linea con i suoi – diciamo così – ragionamenti), l’odio insano e caustico verso le orribili comparse incravattate del suo universo dopato (più che dorato), il ridicolo imperante dietro manie e vezzi eccentrici, quell’insistere a oltranza sulle Diet Pepsi o i J&B on the rocks, o nel noleggio della videocassetta di “Omicidio A Luci Rosse”, per non parlare dell’imbarazzante entusiasmo per i peggiori Genesis di sempre o i mediocri Huey Lewis & The News (in lunghe dissertazioni che si vorrebbero ironiche, ma trascolorano presto in noia plumbea). Anche le presunte perle di saggezza come la celeberrima “Il mondo il più delle volte è non solo cattivo, ma addirittura crudele” hanno il sapore di una beffarda presa per i fondelli e andrebbero lasciate cadere anziché raccolte e rilanciate. Ma la miscela è indubbiamente ben studiata, il retrogusto fruttato e dolcemente alcolico, un mix che non poteva mancare la presa sull’immaginario collettivo, appena usciti (morti, direbbe il cantante) dal tunnel degli anni ottanta. Bene, pur impeccabile per stile e puntuto nella messinscena, questo affresco riesce a essere più stucchevole della realtà che suggerisce di voler denigrare. Per dirne una, quando va bene le donne appaiono come povere cretine opportuniste, magari strafatte di psicofarmaci o diete ridicole e degne, nel migliore dei casi, di esser liquidate con la lusinghiera (?) etichetta di “corpoduro”. Avvilente, ma c’è gente intelligente che plaude.

Il peggio tuttavia, ben più delle tremende e morbose descrizioni dei delitti, sono le centosettanta pagine che l’autore impiega per “confezionare” il suo primo omicidio, anche solo tentato. Quella brutalità secca, scioccante, sa essere persino liberatoria (per quanto all’ennesima replica si finisca per non poterne davvero più) in coda all’eterno preambolo che ha visto Ellis affilare le armi di un implicito sadismo, costringendo il povero lettore a sorbirsi a ripetizione, implacabilmente, elenchi su elenchi di abiti e accessori griffati, impossibili pietanze dalle esotiche implicazioni oltre a un rosario di rituali maniacali sulla cura del corpo e l’igiene personale, da mettere i brividi anche ai più fissati (e impavidi) in materia. E ancora, epifanie curiose che sembrano riaffacciarsi all’infinito come deja vu in un incubo dei più ostici, dai manifesti di “Les Miserables” in giro per Manhattan a quel fantomatico bistrot salvadoregno in cui tutti sembrano andare eccetto il protagonista, dal tavolo impossibile da riservare al Dorsia (mancato come una cena di gruppo in “Il fascino discreto della borghesia”) alle sinistre evocazioni dell’odioso amico Tim Price, presumibilmente cancellato (fuori campo) dalla circolazione prima di regalare un bel paio di corna a Patrick.

Al di là di tutto, del nichilismo in dosi da cavallo, dell’ultraviolenza rigorosamente gratuita, di provocazioni (per anime candide) che lasciano il più delle volte il tempo che trovano, dello sfarzo ipocrita o l’ostinata assenza di una morale o una direzione, “American Psycho” resta un’opera cinica come poche, sgradevole se affrontata con il beneficio dell’ironica indulgenza ma addirittura insostenibile qualora si scelga di dedicarvisi senza l’ausilio di questo filtro. Spacciato da oltre vent’anni per un romanzo irrinunciabile, sembra piuttosto, sotto quella crosta modaiola, una grossa perdita di tempo.

4.6/10

10 Comments

Revolutionary Road _Letture

       

Di Richard Yates ho già scritto tanto, talvolta ripetendomi, ma non posso esimermi dal tornare a farlo se è del suo più celebrato romanzo che devo parlare. “Revolutionary Road”, ok, difficile che anche i lettori della domenica non lo abbiano mai sentito nominare. Certo, diranno molti: c’è il film di Sam Mendes con Di Caprio e la Winslet. Il libro, come capita quasi sempre, è meglio e vale la pena d’esser letto anche se avete già apprezzato la sua trascrizione cinematografica. Però la distanza non è così incolmabile, ci tengo a dirlo. Forse perché l’opera di Yates non è la sua migliore, a mio modestissimo parere, forse perché la pellicola di Mendes si dimostra all’altezza, con attori in forma eccellente (lei soprattutto) anche tra i comprimari (la solita Kathy Bates, Zoe Kazan e, soprattutto, il sempre sottovalutato Michael Shannon, impeccabile nel rendere la lucida follia di John Givings). Ad ogni modo, un romanzo – uscito per la prima volta in Italia (per Garzanti) con un altro titolo, “I Non Conformisti” – che vale come paradigma dell’arte narrativa di Yates, che ha dentro tutti i topoi del suo realismo sporco, la sua disperazione silenziosa ma senza appelli. Non può che essere, per chi non conosca affatto Yates e il suo universo, la quasi inevitabile porta d’ingresso.

Lui è Frank Wheeler, impiegato trentenne (alquanto anonimo e scioperato) in una grande azienda di New York. Lei è sua moglie April, madre e casalinga, non più in fiore ma ancora discretamente carina. Nel tranquillo sobborgo residenziale di Revolutionary Hill, Connecticut, la loro vita ha tutte le carte in regola per essere definita invidiabile: una bella casa rassicurante, due figli piccoli in piena salute, la stima di tutto il vicinato e un legame di coppia che si direbbe d’acciaio. Ben poco in quest’idillio, tuttavia, corrisponde a verità. Formidabile per eloquio e piacente d’aspetto, Frank passa per essere una mente assai brillante e tende a cadere lui per primo in questo sostanziale equivoco, rivendicando a vanvera vaghe aspirazioni e un impegno intellettuale che sono pura facciata. April, al suo fianco, non coltiva certo più interessi di lui: ex allieva – “scarsamente dotata di talento” e “scarsamente animata d’entusiasmo” – di una scuola di recitazione abbandonata ai tempi della prima gravidanza e del matrimonio, cerca una patetica occasione di riscatto grazie al ruolo di protagonista che si è ritagliata nella filodrammatica locale, la Compagnia dell’Alloro, la cui prima e unica rappresentazione è però destinata a clamoroso insuccesso. Anche la convivenza dei coniugi all’interno della grande periphery newyorkese non è poi chissà quanto armoniosa.

Dietro la maschera di una coscienziosa quanto cordiale rispettabilità, si cela il generalizzato disprezzo per una comunità di “omiciattoli pieni di paura”, frequentati controvoglia più per abitudine che per altre ragioni, ma guardati con orrore come specchio di ciò in cui ci si sta rapidamente trasformando. I fantomatici “sobborghi” dove “allevare figli in un bagno di sentimentalismo”, dove i vicini Shep e Milly Campbell rappresentano la spalla ideale (nella loro mediocrità) cui sostenersi quando si sparla di chiunque altro, dove l’agente immobiliare Helen Givings non è seconda a nessuno nel patrocinare con abnegazione la causa di un American Dream già prossimo all’avvizzire, e dove il perbenismo a tutto campo suona più come una condanna che non come l’incanto cui aspirare, i bucolici “sobborghi” della prima provincia, allegri e color pastello all’ombra delle torri metropolitane, sono la gabbia per i fragili sogni e l’inatteso teatro di un dramma silenzioso ma incombente. Il vero problema dei Wheeler è che non c’è amore nella loro vita. Né per il prossimo, né per figli in fondo non voluti, né per una quotidianità soffocante, né – soprattutto – l’uno per l’altra. Il reciproco adulterio, consumato in entrambi i casi per noia, non sarà sufficiente a spezzare l’impasse con moti d’orgoglio o reazioni virtuose. Né sarà abbastanza il progetto di un definitivo trasferimento a Parigi di tutta la famiglia, coltivato dalla donna e accolto dal marito con finto entusiasmo per evitare il rischio di nuovi scontri frontali, salvo poi essere accantonato forzosamente non appena si presenti l’opportunità di una modesta ascesa sul fronte lavorativo (con l’alibi comodissimo di una nuova, indesiderata gravidanza, pronto all’uopo).

Battuta nella finale del National Book Awards 1962 dal (modesto) “The Moviegoer” di Walker Percy, l’opera prima di Richard Yates possiede già tutte le peculiarità della scrittura “entomologica” e di quel “realismo sporco” che sarebbero diventate le cifre espressive del grande romanziere di Yonkers. Tutte le tematiche a lui care – dall’implosione nervosa della famiglia ai falsi miti del sogno americano, dalla solitudine all’incomunicabilità tra individui nella società contemporanea, sono qui presenti, declinate con una lucidità nello sguardo che sorprende davvero, per un esordiente. Lo stile è già quello potente e asciutto dei lavori successivi, prodigioso il controllo, perfetta l’imperturbabilità nell’osservazione di una tragedia inevitabile, persino umoristico il taglio (solo a tratti però) ma mai incline al cinismo. Da molti “Revolutionary Road” è considerato il capolavoro di Yates, il libro per il quale il Nostro meriterà di essere ricordato. Non sono del tutto d’accordo, gli preferisco ancora i sottovalutati “Cold Spring Harbor” e “Disturbing The Peace”, ma non vi è dubbio che si tratti di un’opera eccezionale, con protagonisti semplicemente memorabili e, col senno di poi, paradigmatici. Anche senza ricorrere a sentimentalistiche forzature “a effetto”, osservati con il necessario, neutro distacco, i Wheeler diventano l’emblema di un fallimento universale.

Imprigionati in “un’enorme, oscena illusione, la grande menzogna piccolo borghese, l’idea che, una volta messa su famiglia, si debba rinunciare alla vita reale e sistemarsi”, conducono la loro esistenza in maniera “zelante, sciatta, pretenziosa” e “tutta sbagliata”. Hanno coscienza dei limiti di uno schema che detestano, ma a mancare loro è la forza di ribellarvisi, proprio come tutti i rappresentanti dell’odiato vicinato (tranne il figlio dei Givings, John, il solo a intuire la reale natura delle dinamiche all’interno della coppia e, non a caso, l’unico dei personaggi considerato pazzo a tutti gli effetti). Restano fermi ai buoni propositi (di lei), magari utopici o avventati, come ai bei discorsi (di lui), ma lo scatto positivo della dignità, dell’intelligenza, dell’amor proprio, è strozzato in partenza da quello stesso insinuante conformismo contro il quale si illudono di poter vincere. Al centro della scena, la relazione tra Frank e April: una pericolante architettura di finzioni, una partita a scacchi destinata a chiudersi con una sconfitta condivisa, un raggelante deserto di emozioni e affetto che toglie il fiato al lettore. Se qua e là la tensione pare allentarsi, non si può muovere alcuna critica al finale, eccezionale, che Yates ha confessato di aver scritto prima di tutto il resto e che rivela curiose quanto involontarie (forse) connessioni con quelli dei due più noti romanzi di John Barth, “L’Opera Galleggiante” e “La Fine della Strada”.

Per il resto non rimane che copincollare quanto già scritto a proposito dell’autore nelle critiche di altre sue opere. Yates non è spietato come molti hanno detto. E’ un umanista che non silenzia la disperazione. Fa recitare a turno i suoi attori (indimenticabile, tra gli altri, la figura di Shep) ma si tiene sempre a debita distanza dal loro dramma, aiutando il lettore a scongiurare il fardello di una completa immedesimazione. Gli interessano gli esseri umani al netto degli artifici letterari. Con pochi tratti brucianti ed essenziali riesce a caratterizzare in maniera miracolosa l’intima sostanza dei diversi personaggi, ed il realismo e l’onestà della sua narrativa si rivelano sin da qui limpidissimi, mirabili, non comuni. Tutti soffrono senza clamore come avvelenati poco alla volta dalla consapevolezza di una frattura non più recuperabile dentro di loro, lo scarto fra ciò che avrebbero voluto (e ancora vorrebbero) essere e ciò che sono in realtà. “Revolutionary Road” è l’opera di uno scrittore straordinario, quindi, nel rendere le psicologie e i legami interpersonali – con il loro carico di silenzi, di ellissi, con tutti i relativi impliciti rapporti di forza, con il peso delle convenzioni consolidate – nello svelare il retropalco di ansie, egoismi spiccioli e insoddisfazione che fa da contraltare al perbenismo apparente e radioso delle comuni famiglie della classe media. E non importa che si parli degli anni cinquanta. La sua impietosa indagine su una crisi generalizzata non potrebbe essere più attuale.

[Una curiosità: per quanto (come sempre in Yates) si beva spesso e volentieri, i Wheeler sembrano quasi delle educande rispetto ai viziosi protagonisti di altri testi dell’autore. Tutto sommato fuori luogo la bottiglia di Whiskey scelta come simbolo per la copertina dell’edizione dei Minimum Classics. Forse la guida di “Francese per principianti” sarebbe stata più indicata.]

9.2/10

1 Comment