Moby Dick o La Balena _Letture

       

Per una volta presento un classico e allora è meglio non dilungarmi in inutili introduzioni all’opera. C’è la recensione, nella quale ho cercato di limitare al minimo il florilegio di banalità, luoghi comuni, cose già dette e stradette, minestrine critiche riscaldate e via andando. Non sono certo di esserci riuscito ma, se non altro, uno straccio di parere l’ho tirato fuori, e quello è. Il romanzo mi è piaciuto e merita. Lo dico a quelli che lo considerano ancora un’avventuretta da prima media, ma anche a altri – sicuramente meno – che a leggerlo davvero ci hanno provato, salvo gettare la spugna alle prime avversità, le lunghe trattazioni zoologiche nozionistiche sui cetacei. Gli scogli capitano sempre, l’importante è non arenarsi, aggirarli con cura e pazienza per proseguire nella navigazione.

Bene, la storia la conoscete tutti.
Ismaele, giovane uomo di grande buonsenso con appena qualche precedente nella marina mercantile, sceglie di dedicarsi alla navigazione per “cacciare la malinconia”. Opta per la “nobile ma poco considerata” arte della baleneria, si sposta nella leggendaria Nantucket e qui stringe amicizia, a sorpresa, con il pagano Quiqueg, considerato dai più un selvaggio terrificante ma di fatto persona d’animo gentile e di straordinaria lealtà. Entrambi si arruolano nei ranghi del Pequod, uno dei tre bastimenti in partenza, il primo come semplice marinaio e il secondo come ramponiere. Sin dal primissimo istante alcuni strani segni sembrano però presagire che la spedizione pluriennale della vecchia imbarcazione sarà destinata a un viaggio ben più solenne e impegnativo che non la semplice ricerca del pur favoloso spermaceti di Capodoglio. L’intera missione risulterà infatti presto assoggettata al cieco volere del comandante della nave, il celeberrimo Capitano Achab, che non avrà timori a rigettare come banale pretesto la normale predazione per scopi commerciali dei grandi cetacei marini, plagiando l’intero equipaggio con tutta la forza visionaria del suo eloquio e condannandolo di fatto a seguirlo tra i dannati – e a non fare ritorno – nella caccia a una sola incredibile preda, il famigerato Moby Dick.

Fin qui ci siamo tutti: qualche bel volume illustrato incontrato in tenera età, la fama immortale di una storia che conserva il fascino dell’universalità, magari – per i più cinefili – qualche spezzone del non proprio indimenticabile film con Gregory Peck. Beh, “Moby Dick” è molto più di questa avvilente semplificazione culturale. In primo luogo perché non è un romanzo di avventura da intendersi in senso tradizionale. Non soltanto, per lo meno. Al di là del luogo comune un po’ logoro, si offre davvero al lettore come una formidabile riflessione sull’animo umano, non certo forzata in chiave espressionista, ma pur sempre penetrante, magnetica, indimenticabile. Lo sguardo di Melville è ben fissato, ovviamente, sulla tetra figura di Achab e sui suoi irriducibili tormenti interiori, ma sbaglierebbe chi riducesse a questa osservazione o alla sua (solo presunta) prospettiva moralistica un’opera meravigliosamente complessa e sfaccettata quale “Moby Dick” è a tutti gli effetti. Lo stesso Achab ci viene presentato solo a un certo punto e per via indiretta (dalle parole dell’anziano e chiassoso Capitano Peleg) come un individuo fuori dal comune, cupo, feroce e disperato, che parla poco ma sa farsi ascoltare incutendo timore o, meglio, “timor sacro”. Occorrerà poi un altro bel po’, con il Pequod già salpato da tempo, per incontrarlo finalmente, silenzioso e indecifrabile, e parecchio ancora prima che questi rompa il ghiaccio nella maniera più incredibile, con una sorta di folle predica e cerimonia pagana per motivare la ciurma in quella che è divenuta la sua vera missione di vita, vendicarsi una volta per tutte dell’infernale balena bianca che lo mutilò di una gamba.

Come hanno sottolineato in tanti, la cifra di “Moby Dick” non è certo quella delle comuni pubblicazioni per i più giovani. Nel testo riecheggia la retorica miltoniana, la tensione non è dissimile da quella di una delle grandi tragedie di Shakespeare e non è un mistero che l’impianto a blocchi stilistici sia stato ripreso, come numerosi apologhi e dettagli onomastici, direttamente dalla Bibbia. Pagina dopo pagina vediamo alternarsi i resoconti del testimone Ismaele, miti arcaici, dilettanteschi e antidiluviani trattati sui cetacei (un po’ pesanti ma a modo loro indispensabili per meglio comprendere i risvolti scientifici dietro le sequenze più movimentate), notazioni di natura squisitamente tecnica sulla navigazione e la pesca, inserti volutamente teatrali (con tanto di monologhi dei protagonisti e cori dei marinai) e parabole bibliche (come quella sulla condanna e il pentimento di Giona, recitata all’inizio nella cappella di New Bedford, di fatto il più chiaro degli ammonimenti). In questo modo la narrazione non potrebbe essere più vivace, discontinua, polifonica e stimolante. Allo stesso modo e fluttuante e incerta risulta la dinamica della voce narrante: da principio pare salda nella prospettiva in prima persona del testimone Ismaele. Ma questi scompare presto nella massa indistinta di marinai del Pequod, drogata dalle pazze lusinghe del comandante, così le vicende trascolorano nell’epica prima che l’io narrante torni a fare capolino sul filo di lana.

Al resto provvede lo stile asciutto di Melville, estremamente limpido nell’esposizione, forbito ma senza pedanteria, e nel contempo capace di stupefacenti slanci lirici, peraltro modernissimi e nient’affatto indeboliti dall’enfasi o dal tono drammatico. La scelta di affidarsi a un pugno appena di personaggi di contorno, tutti maschili e fortemente caratterizzati in senso archetipico (dalle infinite cautele e il senso del dovere di Starbuck alla mediocrità anonima di Flask, dal gioioso vitalismo di Stubb al candore di Quiqueg, dal disagio innocente di Pip al mistero incarnato da Fedallah) è funzionale all’idea di dar vita a un affresco sfaccettato dell’animo umano, più che a una canonica resa delle psicologie. Sul terreno rimangono le capziose speculazioni filosofiche sul vero significato del mostro marino. Ognuno chiuderà la lettura con le proprie impressioni, tutte sicuramente più che legittime. Per quanto riguarda il sottoscritto, nello spaventoso capodoglio bianco ritrovo il senso allegorico del male, proiettato in un altrove remoto e pauroso ma inscritto, a dirla tutta, dentro ciascuno di noi. Non Dio, contro il quale l’empio Achab sosterrà il proprio attacco destinato a fallire, bensì l’idea stessa di un limite che la nostra natura ci impone come insuperabile. Che andrebbe accettato con serenità anche se l’istinto rifiuta di accoglierlo. Un’ossessione che, fatalmente, ci porterà tutti con sé, nel baratro.

(9.1/10)

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