Vic Chesnutt

Mr. M

       

Sabato scorso ho iniziato a lavorare ad una monografia di Vic Chesnutt. Su Ondarock sono presenti schede di qualsiasi artista, anche dei più marginali, e io stesso ho dato il mio contributo dedicandone una a figure interessanti ma non certo imprescindibili come i miei amati Quasi e la promessa kiwi Lawrence Arabia. Incredibilmente però ne manca una su Vic Chesnutt. I suoi ultimi dischi sono stati recensiti più o meno tutti ma nessuno ha voluto imbarcarsi in questo impegnativo lavoro, così come non sono state scritte di suoi album le cosiddette Pietre Miliari (e almeno uno dei primi avrebbe meritato questo onore). Sarà una faticaccia. Non solo perché ho la testardaggine di voler portare avanti con la massima cura ogni “missione” in cui mi ritrovo impelagato, ma anche perché l’artista in questione è stato fondamentale. Emotivamente, poi, ci sono dentro fino al collo. Non esagero se scrivo che per anni non sono più riuscito ad ascoltare le sue canzoni. Troppa pena, troppe emozioni. Due anni almeno a dimenticarmi di lui, a dimenticarmi quei dischi e quella voce. Poi poco alla volta mi ci sono riaccostato, con tutto il rispetto di cui sono capace, con parsimonia direi quasi. L’onore di dedicargli uno speciale mi costringe ora a riaffrontarlo in toto e, soprattutto, in profondità, a catturarne l’essenza dentro le sfumature, gli umori cangianti, le parole e l’ironia. Sembrerà banale ma è un processo anche doloroso, in un certo senso. Ho così rispolverato l’intera discografia in rigoroso ordine cronologico, fissando sul taccuino ogni febbrile impressione da cui mi sentissi aggredito. Dopo aver definito una precisa distanza, questa immersione si è rivelata un’esperienza emotivamente forte e creativamente stimolante. Da critico dilettante è stata anche l’occasione per una rielaborazione lucida su uno dei miei cantautori preferiti, come a voler sgombrare il campo dai pregiudizi (in particolar modo quelli positivi, e non potrebbe essere altrimenti dato il mio amore incondizionato per quei dischi, quasi tutti) e ripartire senza vincoli o complicazioni di sorta. Sono ancora in una fase embrionale del progetto e di scritto non c’è ancora nulla. Però ho già potuto riscontrare alcune piacevoli sorprese. Lavori che avevo sempre considerato non fondamentali mi sono apparsi sotto tutta un’altra luce. Avevo sempre pensato che Vic avesse scritto un solo capolavoro, ‘About To Choke’, mentre oggi ho la certezza che questa considerazione valga anche per ‘West of Rome’, ‘Is The Actor Happy?’ e ‘North Star Deserter’. Pur tra momenti di stanca o di grandi lampi, il corpus dell’autore mi è parso coerente, armonioso, articolato in una sorta di preciso sceneggiatura che varrà la pena, forse, raccontare. Un album di vero pregio che avevo però sempre snobbato un po’ mi ha particolarmente stupito. Mi riferisco a ‘The Salesman & Bernadette’, il concept per il quale Vic scelse di farsi accompagnare dalla band “sorella” dei Lambchop dell’amico Kurt Wagner. All’epoca fu per me una parziale delusione: eccessivamente posato, riflessivo e morbido, nel suo cordiale tepore quasi natalizio. Devo aver pensato ad una specie di maniera, ignorando che quello era lo stile del gruppo texano e che splendidamente si prestava per i brani di Chesnutt. Oggi forse la mia sensibilità è cambiata, e non poco, perché ‘The Salesman & Bernadette’ mi ha impressionato per l’armonia che esprime, per il suo essere confortevole, accogliente, e anche per la presenza al suo interno del Vic forse più sereno di sempre. Un grandissimo disco, cui assomiglia e non poco questo che Kurt Wagner e i suoi Lambchop hanno dedicato a Chesnutt lo scorso anno. Il legame tra i due è evidente e profondo, come avevo sottolineato nella  relativa recensione (di cui sono molto soddisfatto, riletta oggi dopo più di un anno). Chi ha amato Chesnutt come il sottoscritto non può restare indifferente, nessun problema nell’affrontare i ritmi blandi e la seraficità di queste canzoni da focolare. Per gli altri, probabilmente, una collezione noiosissima di brani, o un lavoro troppo ostico per dedicarcisi. Grazie al cielo, i gusti non sono gli stessi per tutti.

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I will see you around

Vic Chesnutt ci ha lasciati. Senza troppo clamore, con un’overdose di rilassanti muscolari, farmaci che lui assumeva regolarmente da più di venticinque anni per lenire i dolori del suo scorrere disastrato. Nei testi delle sue canzoni aveva scritto spesso del suicidio. Amava evocare la morte come per esorcizzarla, sin dai tempi di ‘Little’, il primo di una lunghissima serie di album mandati in stampa come autentici stralci di vita, prima che d’arte. La musica e la letteratura, scoperte solo dopo l’incidente che stravolse la sua esistenza, si erano subito imposte come la linfa, il motore del suo stoico resistere: al dolore, alla sfortuna, anche alle tentazioni di una comoda via di uscita. Negli ultimi tempi Vic aveva intensificato gli sforzi come se presagisse di non riuscir più a trattenere questa “compagna di tutta una vita” dal regalargli finalmente il riposo sognato. Gli ultimi due lavori, usciti entrambi solo qualche mese fa, sembrano tradire una sorta di stanchezza nella lotta, ma lo fanno paradossalmente con un’autenticità nello sguardo, un acume ed un’intensità che sono in fondo la miglior testimonianza di quel che è stato Vic in questi lunghi anni di malattia: un uomo vero, forte come una quercia, un combattente. Questo scavando fino all’osso, nell’essenzialità della sua poetica, della sua stessa filosofia di vita: in termini di sincerità, di confessione dal taglio fieramente crudo, spontaneo, veritiero. Una scelta evidente sul piano dei testi, la cui schiettezza (‘Coward’, ‘Flirted With You All My Life’) risulta una naturale evoluzione degli slanci metaforici che appesantivano di ingenuità le prime incerte liriche, quelle in cui il disagio e l’ossessione di sé – quasi il crogiolarsi dell’artista nei panni del derelitto sventurato – avevano anche senza volerlo il sapore della posa e della maniera. Con gli anni Chesnutt ha saputo inquadrarsi e raccontarsi servendosi di filtri sempre meglio calibrati e più straordinari, trattenendosi in una dimensione distante ma emotivamente viscerale, evitando con elegante ironia le facili tentazioni del patetico ma colpendo al cuore l’ascoltatore più libero dai pregiudizi. In questo era riuscito molto presto a cantare se stesso ed il mondo attorno a lui come un universo coeso, sempre strettamente legato, una simbiosi entusiasmante oltre che la sublimazione di un punto di vista originalissimo anche in termini letterari, con una fusione spesso incredibile di registri teneri e caustici. L’umanità di Vic era l’umanità delle sue canzoni, due piani mai tanto indisgiuntibili come in questo caso, con una perfetta coincidenza tra la persona ed il personaggio, il creativo e l’oggetto delle sue crepuscolari affabulazioni, sempre ben visibile sullo sfondo. Anche la musica ha assecondato questa sua esigenza di verità, questa volontà di mettersi definitivamente a nudo. L’incontro con le sottili deflagrazioni rumoristiche di Guy Picciotto e del collettivo canadese dei Silver Mt. Zion andava necessariamente replicato per conferire ai pezzi di ‘At The Cut’ quella vitalità inquieta e nervosa che è la migliore colonna sonora per le sorprendenti parole racchiuse nell’album. Per ‘Skitter On Take-Off’ Vic ha preferito l’espediente di una sobrietà solipsistica, come non si riscontrava dai tempi del suo acerbo e meraviglioso esordio. Dopo averlo anticipato in più di un indizio, Chesnutt deve essersi sentito pronto per lasciare. E lo ha fatto. Il problema ora è mio, e di tutti quelli che hanno avuto la fortuna di amarlo o conoscerlo. Lo ha scritto con efficacia Kristin Hersh, cantante dei Throwing Muses che con lui avevano diviso il palco in un tour europeo di una quindicina di anni fa. Era un’amica, di fatto ha dato lei l’annuncio della scomparsa di Vic e, per quanto anche lei sentisse come nell’aria questo gesto estremo, ha raccontato in una bella intervista a caldo su Entertainment Weekly che no, non era affatto pronta per pensare a lui come un tassello del proprio passato. Il difficile è proprio questo. Per me quindici anni con le canzoni di Vic, il mio personale passepartout per l’universo musicale indipendente, ed ora mi sento improvvisamente molto più solo. Un amico importante che se ne va, sfiorato appena nella vita reale in uno scambio di mail per un’intervista, poco più di un’ora di concerto, meno di cinque minuti di chiacchiere, l’autografo su un pugno di dischi ed un abbraccio. Sembra poco in effetti, ma lui è stato sempre con me per circa metà della mia vita. Mi ha appassionato, divertito, commosso, insegnato. Ora, come la Hersh, non riesco a mettere su i suoi dischi. Faccio fatica anche solo a pensare alla musica che ha scritto. Come la Hersh ho sempre identificato le canzoni di ‘The Salesman & Bernadette’ con un certo clima natalizio, con un certo calore, candore domestico. Ma come posso riascoltarlo ora che Vic ha scelto proprio il giorno di Natale per farsi da parte? Sembra ridicolo da spiegare alle persone normali che non vivono di musica come me, che non ne fanno una malattia, che non si circondano di antieroi quasi immaginari compilando una personale micro-mitologia pocket da universo parallelo, traendo spunti infiniti per rendere almeno un tantino più preziosa la propria routine. Sembra assurdo spiegare che sento terribilmente un vuoto dentro, per quella parte di me che se n’é andata per sempre insieme ad un piccolo e miserevole cantautore paraplegico, ma è così, davvero. Se questo aspetto è fondamentale e non mi permetterà per un po’ – già lo so – di riaccostarmi a quei pezzi ora così inavvicinabili (ma è mia intenzione scriverne in maniera dettagliata su questo blog, appena mi sarà possibile), se è triste l’idea di un Chesnutt che ci lascia in una fase di febbrile impulso creativo, resta comunque la soddisfazione di averlo visto suonare dal vivo, di averlo conosciuto per quanto marginalmente, di averne respirato la forza ed il carattere e di aver incrociato con lui sguardi e sorrisi, almeno una volta. Questo fino alla prossima, che ci sarà presto o tardi, ne sono certo.

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Il gigante

 

Vic Chesnutt è forse il mio massimo eroe in ambito musicale. Il termine eroe non ha neanche troppo senso, in realtà ho smesso di avere eroi da quando ero in tenera età e mi cullavano la vita certe figure forti, soprattutto all’interno della famiglia. OK, gli eroi non esistono, ricominciamo il discorso. Vic Chesnutt è un grandissimo personaggio, forse quello che preferisco in ambito musicale. Banalizzare il senso dei propri argomenti parlando un po’ a sproposito di eroismo mi porta fuori strada. L’eroismo non è certo del ragazzino che si ubriaca e si schianta con la macchina. C’è la pena nei suoi confronti, che passa sopra tutto il resto. Ma l’eroismo è quanto di più fuori luogo. Ci sarebbe la rabbia per chi getta alle ortiche la propria vita e potrebbe fare lo stesso di quella altrui, il ché è anche peggio. Certo a diciotto anni si può sbagliare. E’ umano farlo ed è umano riconoscerlo. La parabola di Vic, dalla caduta alla riscossa, non è altro in fondo che un grande racconto di umanità. E ha dentro talmente tanto di questa materia che ci si può confondere parlando di eroismo. Vic Chesnutt non è un eroe ma una specie di gigante. Un piccolo grande uomo ed un piccolo grande cantastorie, senza eguali.

Per me ha rappresentato un tassello fondamentale. A sedici anni ascoltavo quasi esclusivamente dischi mainstream pubblicati dalle major e lanciati nella programmazione della MTV (americana) in heavy rotation. Dischi che oggi non ascolto praticamente mai ma dei quali non mi vergogno: Pearl Jam, Soundgarden, Nirvana, Radiohead, R.E.M., Smashing Pumpkins, Soul Asylum, tanto per citare i migliori. Di alternativo nulla eccetto un piccolo gracchiante folksinger di Athens. Come sempre all’epoca, mi bastò leggere da qualche parte di questo menestrello vicino di casa della mia band preferita, prodotto nelle prime incerte uscite discografiche addirittura da Michael Stipe (non Peter Buck, come sarebbe stato logico). Mi imbattei in tutti i primi dischi di Chesnutt da ‘Rock & Folk’, che all’epoca non stava ancora in via Bogino bensì in via Viotti. Facevo quinta ginnasio, spendevo tutti i soldi in dischi, anche se i soldi erano veramente pochi, diciamo buoni per un paio di CD al mese. Per questo motivo quella volta decisi di acquistare il primo album di quel cantante misterioso e quello nuovo nuovo, ‘Is The Actor Happy?’, anche perché avevo letto che Stipe cantava in un brano. Costavano una bella cifra come da tradizione di quel negozio di sanguisughe e non me ne capacitai: non riuscivo a capire perché dischi di etichette e artisti sconosciuti costassero anche più dei nomi miliardari sulle label colossali. Mi consolò il bel cartonato di ‘Is The Actor Happy?’. Nel ’95 confezioni non in plastica erano davvero una novità assoluta, soprattutto in Italia. Avevo letto che Vic aveva voluto espressamente che il nuovo disco non avesse i soliti case di plastica come personale risposta alla fragilità: "Cadono e si rompono e io ne so qualcosa di cosa significa essere rotti".

Entusiasta degli ascolti di quella musica così diversa da quella che mandavo a memoria in quegli anni da adolescente convenzionale (ma non troppo), tornai da ‘Rock & Folk’ neanche un paio di settimane dopo pronto a fare miei anche ‘West of Rome’ e ‘Drunk’. Non li trovai più, qualcuno mi aveva preceduto. Li ordinai e tornai il mese seguente, invano. Riprovai ancora e ancora ma non arrivavano. Intanto uscì ‘About To Choke’, che per fortuna riuscii a trovare. Anche ‘The Salesman & Bernadette’, acquistato addirittura da ‘Ricordi’. Ma quei dischi, stramaledizione, non mi sono mai arrivati. I commessi di ‘Rock & Folk’ mi spiegarono un giorno che la miserabile etichetta di Chesnutt aveva chiuso i battenti e i dischi non si trovavano nemmeno di importazione, che avrei dovuto attendere una ristampa. E così fu, ma nel 2004 o 2005, praticamente dieci anni dopo il primo tentativo. Avrei detto che di Chesnutt non si sarebbe più sentito parlare e invece ogni tanto lui si è fatto vivo di nuovo. Il penultimo passaggio, ‘North Star Deserter’,  è qualcosa di memorabile. Sarò di parte ma credo sia uno dei migliori dischi usciti negli ultimi dieci anni. Uno dei pochi che resteranno e diventeranno ‘classici’. Nell’intervista che gli ho fatto, solo via mail ma comunque emozionante, Vic è stato di poche parole, stringatissimo ma gentile, simpatico anche. Ha annunciato un paio di nuovi dischi già pronti, uno dei quali con Guy Picciotto e i Silver Mt. Zion, di nuovo. Fantastico! Nell’attesa (enorme) di vederlo finalmente dal vivo, questa è davvero una grandissima notizia. Grande come lui.

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