Month: agosto 2012

Eleanor Rigby  _Letture

      

OK, giuro che per un po’ non scriverò più nulla a proposito di Douglas Coupland, salvo intercettare fortunosamente quel paio di titoli del suo catalogo che ancora mi mancano (‘Fidanzata in coma’, ‘Jpod’) e venirne in qualche modo travolto. Anche plausibile come prospettiva, non lo nego. Mi tratterrò dal parlarne ancora perché credo di aver detto proprio tutto su di lui e sulla sua arte. O meglio, lo pensavo fino a poco tempo fa, poi ho incrociato questo suo romanzo per molti versi anomalo – ‘Eleanor Rigby’ – e non citarlo almeno sommariamente mi è parso un peccato. E’ un libro diverso da tutti gli altri di questo adorabile talento canadese. Per una volta rinuncia ad immortalare il sentimento del tempo in un frammento di vita condivisa, per puntare il fuoco su un solo personaggio, pure così verosimile nella sua insulsa banalità esteriore. A rendere interessante il tutto pensa Coupland, donando a questa sgraziata antieroina una scintilla di formidabile carisma e umanità. Nulla di sbalorditivo verrebbe da dire, visto che questi sono i tipici tratti grazie ai quali le caratterizzazioni del Nostro riescono sempre così puntuali e toccanti. A fare sensazione questa volta è la sensibilità nitidissima, l’intelligenza con la quale questa viene delineata nei tanti monologhi del romanzo. Sembra davvero scritto da una donna ‘Eleanor Rigby’, e non è un particolare da poco. Poi certo, al solito ci si trova in corsa sulla giostra con la classica coda pelosa da acchiappare: il pedaggio è qualche lacrima, ci si incazza quando il giostraio sembra barare con trucchetti sleali ma alla fine si esce comunque con l’agognato trofeo, sazi e riconoscenti. Leggere di sentimenti senza ingombri sentimentalistici è sempre un discreto piacere.

Come la protagonista della celeberrima canzone dei Beatles, Elizabeth Dunn è una donna sola e serenamente rassegnata ad un’esistenza priva di guizzi emotivi e di affetti importanti. Un lavoro impiegatizio ben retribuito, una bella casa arredata senza il minimo gusto e pochi contatti con la cerchia dei familiari più stretti che ancora la tormentano a quasi quarant’anni: una madre vedova sbiellata da troppi sbalzi d’umore, una sorella vamp un po’ carogna, ed un fratello egoista e insoddisfatto, con insopportabili moglie e marmocchi al seguito. Incolore, sottilmente acida, affogata in una routine deprimente ma consapevole e non priva di autoironia, Liz è abilissima quando si tratta di rendersi invisibile al resto del mondo, inespressiva, ma anche quando aggrapparsi ai sogni ad occhi aperti diventa una necessità per convivere in maniera dignitosa con la propria irriducibile misantropia. Tra rari momenti di sentimentalismo ed autocommiserazione (come la spassosa maratona cinematografica delle lacrime) ed una bella rassegna di caustiche riflessioni sul vivere contemporaneo, la sua vita procede senza particolari rimpianti sui binari di un tranquillo isolamento fino al giorno in cui il destino irrompe con forza e le offre una carta importante. Decisa a lasciarsi finalmente andare alla corrente, con una curiosità non più frustrata a guidarne l’estro come nuova chiave di lettura sul reale, Liz raccoglie il passaggio della cometa Hale-Bopp come il presagio ed il pretesto giusti per ripartire, sbarazzarsi delle cattive idee, delle abitudini insensate e dell’eccessivo razionalismo. Fin qui si resta sul piano dei buoni propositi e dei divertenti flussi di coscienza imbastiti da un’eroina anomala e ben poco attraente, ma la vera scossa nelle vicende come nel taglio stesso del romanzo è offerta dall’incontro con la seconda cometa – meglio, una meteora – che scombina ogni piano e dona concretezza a quelle stesse fragili aspirazioni. Sarà determinante il fugace ma memorabile cataclisma sentimentale portato in dote dal ventenne Jeremy, figlio di un passato sepolto e piccolo guitto sfrontato e visionario, a riequilibrare ogni assetto nella narrazione e salvare la protagonista dalla cancrena di un destino crudele.

Maneggiando con fare disinvolto temi universali e consumati quali la solitudine, la malattia e la morte, Coupland si è esposto in ‘Eleanor Rigby’ a tutti i rischi del caso ma non ha sbagliato. Forse per la prima volta ha scelto di abbandonare i registri canonici del romanzo generazionale sul disincanto per dedicarsi con straordinaria delicatezza ad un solo personaggio e alla sua parabola umana, alla svolta che solo l’amore innato per un figlio può aprire in un cuore indurito dall’abbandono. Un terreno scivolosissimo quello dei sentimenti, affrontato però dallo scrittore canadese con un piglio ed un’umanità rigorosi, coinvolgenti e mai comodamente consolatori, evitando in modo opportuno ogni deriva pietista, le ovvie suggestioni del patetico ed affidandosi in via esclusiva alla sensibilità tutta femminile e all’intelligenza pulsante, non artefatta, di una protagonista enorme, squisitamente e finemente caratterizzata dalla prima all’ultima pagina. Ancora una volta non mancano i passaggi al limite dell’incredibile, gli sviluppi strampalati e le famiglie disfunzionali, ma sono soltanto piccoli fuochi d’artificio in una notte altrimenti più che verosimile, dove gioie e dolori arrivano alla spicciolata con la precisione dei frammenti di vita vera ed anche un lieto fine un po’ ingombrante è accolto e registrato dal lettore meno prevenuto senza particolari scompensi. Davvero eccellente la prima parte, quella con meno azione e più ricami psicologici a decorare una straordinaria sequenza alternata di flashback incisivi e miserie quotidiane, con la ciliegina macabra dei ricordi di un’estate lontana degna di ‘Stand By Me’. Seconda metà più sfilacciata e pirotecnica, tenuta in piedi con mestiere da Coupland e comunque più che godibile. Tra una lacrima estorta senza ricatti apparenti e diverse risate in alleggerimento, una lettura indubbiamente piacevole.

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Wolfroy Goes to Town

       

Sempre più difficile stare dietro a Will Oldham. Nei pochi mesi trascorsi dalla pubblicazione di quest’ultimo ‘Wolfroy Goes To Town’, il barbuto del Kentucky ha cercato di non smentire la sua fama di cantautore incontinente e disponibile alle più svariate collaborazioni: ai tre EP usciti quest’anno sotto il moniker “Principe” (Bonnie ‘Prince’ Billy, ovviamente), il Nostro ha infatti accompagnato un intero album ed un mini realizzati con la band scozzese Trembling Bells oltre ad un primo singolo “di riscaldamento” con la folker nativa americana Mariee Sioux. A luglio non si è fatto mancare anche un tour europeo con diverse date in Italia, al solito prova di gigantismo assoluto per gli spettatori più avvezzi al ritmo lento e solenne delle sue canzoni. E proprio questa si conferma in fin dei conti la caratteristica più significativa dell’ultimo disco dell’Oldham solista, se possibile ancora più scarno e trattenuto dei suoi più diretti predecessori. Sempre ondivago al confine tra country e folk, il cantante del Kentucky ha fatto un po’ per volta dell’essenzialità il suo credo artistico, disciplinando la propria scrittura verso un rigore impressionista non privo di spunti calorosi. Certo non è artista per tutte le orecchie, e la rinuncia alle pur estemporanee forme di contaminazione espressiva presenti in ‘Lie Down in the Light’ e ‘Beware’ rappresenta un passo ulteriore in direzione del perfetto solipsismo cantautorale, quasi a chiusura di un cerchio tracciato sin dai primi lavori in bassa fedeltà dei progetti Palace. Nella recensione per MM ho voluto come sempre soffermarmi in primo luogo sul personaggio, ma senza dimenticare di regalare una piccola stoccata a quella critica musicale che sembra avergli voltato le spalle dopo anni di lodi sperticate. Qualitativamente Bonnie ‘Prince’ Billy non è arretrato, non di molto almeno. Ha portato avanti con buona ostinazione la propria ricerca, ben cosciente di avere ben poco ancora da inventare in seno alla tradizione dell’Americana, soprattutto dopo così tanti dischi. Rimangono testimonianze apprezzabili quando la farina viene tutta dal suo sacco e si limita ad ospitare qualche bella voce femminile. Il suo limite, piuttosto, sta nel non aver mai saputo dire di no a troppi colleghi anche mediocri, finendo inevitabilmente per inflazionare il catalogo con uscite spesso non proprio indimenticabili.

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Generazione A  _Letture

      

Comincia a diventare una vera impresa pescare in rete foto di volta in volta inedite di Douglas Coupland, ad accompagnare la recensione di turno dell’ennesimo suo romanzo letto. Allo stesso modo sembra stia diventando un’abitudine che le mie parole si mantengano ben lontane dai toni entusiasti con cui avevo celebrato le sue primissime letture. E’ solo una coincidenza che i suoi due titoli forse meno convincenti siano arrivati in sequenza, a strettissimo giro di posta. La prossima critica di un suo libro lo dimostrerà. Per questo ‘Generazione A’ rimane l’impressione di un lavoro pasticciato, con troppe idee mescolate in un intruglio letterario ammiccante ma un po’ banale (persino giovanilista, in maniera poco opportuna) in cui Coupland ha girato a vuoto proprio con quelli che sono i cavalli di battaglia del suo repertorio. La scrittura rimane vivace ed avvincente, le trovate buone non mancano come quel suo romanticismo pop da fine del mondo, però non bastano a fare di questo un grande romanzo. Davvero molto belle invece l’edizione e la copertina italiana per ISBN.

Servendosi della deformazione distopica sottilmente applicata ad una narrazione di taglio realista, confermando quasi mimeticamente il grosso delle attuali prospettive ma tingendo d’apocalisse le restanti tessere, Douglas Coupland racconta un 2020 mai davvero incredibile in cui le api sono soltanto un ricordo, l’impollinazione viene effettuata manualmente dagli addetti di una nuova industria, le coltivazioni di mais sono tutte transgeniche e miliardi di persone hanno sostituito il piacere solipsistico garantito dalla lettura con il perdurante intontimento di un nuovo farmaco che promette di far dimenticare qualsiasi ansia legata al futuro e alle relazioni con gli altri, di trasformare ogni individuo “da cane in gatto”. Quando alcuni giovani ai quattro angoli del globo vengono punti dagli insetti redivivi, si apre forse un piccolo margine alla speranza.
Ancora una volta Coupland riesce a dire cose non banali attraverso riflessioni ironiche e personali, ed ancora una volta si dimostra capace di cogliere lo spirito dei tempi nelle galoppanti contraddizioni della gioventù forse più indecifrabile (o meno incasellabile) di sempre, quella cui manca persino la vecchia arma del disincanto per guardare al domani con un minimo di coraggio. Raccontare l’universo dei cosiddetti nativi digitali era l’intento di massima. Analizzare con scrupolo ed humour la generazione nata dopo gli anni ottanta, quella che rappresenta in fondo la fine ed il superamento di ogni generazione convenzionalmente intesa per quel suo incarnare la negazione di qualsivoglia principio di comunità non virtuale o non mediata: drogata dal proprio insopprimibile e frenetico bisogno di tradurre tutto in comunicazione, pur non avendo più nulla di significativo da condividere o un ruolo pregnante da interpretare in un universo orientato in declino costante verso la barbarie (ipertecnologica, però), sola, privata della capacità di sognare in grande come in piccolo, anestetizzata, fredda, emotivamente non pervenuta.
Per centrare il bersaglio l’autore canadese intende fotografare il positivo di questa fosca realtà seguendo in maniera frenetica le soggettive impazzite dei suoi giovani eroi, luminose eccezioni alla regola, nel calvario caotico della loro cattura e della prigionia nelle mani di oscuri scienziati. Ad una prima parte assai leggera e vivace, che diverte ma non rinuncia ad inquietare, fa seguito il vero cuore ambizioso ma disordinato del romanzo, con i protagonisti raccolti su una remota isola dell’Alaska per inventare e raccontarsi storie a vicenda secondo un’esplicita prospettiva decameroniana, rendendo evidente come solo la forza del collettivo e della fantasia possano rappresentare la svolta in un mondo rassegnato all’individualismo più sterile. Le pagine che in linea teorica avrebbero dovuto essere la punta di diamante di questo romanzo finiscono col rappresentarne il tallone d’Achille: l’inserimento improvviso della lunga parabola affabulatoria risulta sconclusionato, forzato e pretestuoso, assai meno armonico delle fantastiche “favole della buonanotte” che punteggiavano di poesia i capitoli del vecchio ‘Generazione X’. C’è il consueto talento crudo e surreale del canadese a renderle quantomeno interessanti, alcuni passaggi grotteschi (l’appassionato elogio della lettura di ‘Pianeta Filetto’, oppure la fiaba dei supereroi costretti nella spirale della devianza criminale per pagarsi i Martini preparati da un barman d’eccezione come Yoda) sono ancora irresistibili, eppure concentrati tutti assieme in un blocco granitico quanto indigesto non riescono ad emanare il fascino sperato, spegnendosi in una critica anche abbastanza scontata sulle trappole delle nuove imperative forme di comunicazione. Il problema di‘Generazione A’, che pure ha più di uno spunto pregevole, sta nel fatto di non aver saputo resistere alla tentazione di mettere troppa carne sulla griglia. Tradito dalla valanga di riferimenti alla caleidoscopica cultura pop della web-age (tipo gli innumerevoli rimandi ai Simpson, per la prima volta – forse – persino stucchevoli) così come dallo sfavillante luccichio delle tante suggestioni armeggiate con leggerezza, il grande romanziere si impantana in un finale estremamente confusionario, insieme sbrigativo ed arzigogolato, e non può mascherare un po’ di appannamento. Per una volta, poi, è anche il lavoro sui personaggi a deludere, con troppi protagonisti in ballo e troppo blandamente caratterizzati anche per dare credito all’intento di rendere una realtà giovanile spersonalizzata e attratta dagli stereotipi. Dei cinque “piccoli Wonka”, voci critiche sui temi della globalizzazione, delle multinazionali, dell’imperialismo culturale a stelle e strisce, degli eccessi della virtualità, dei deliri e delle derive social, similissimi tra loro già in partenza e sovrapponibili quasi in tutto, l’unico ad emergere per profondità socio-psicologica è il cingalese Harj. Incarna l’intelligenza scettica, il buon senso e la dignità del sud del mondo al cospetto del grande Leviatano americano e del mito vuoto della libertà (“il fuggevole sogno dei Craig”), finendo tuttavia per essere connotato suo malgrado nel solco di un (involontario) politically correct che in un romanzo di Coupland non può non stonare. A giochi fatti, una buona occasione sciupata.

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