Month: luglio 2013

Una Banda di Idioti  _Letture

      

Mi stanno facendo penare parecchio le Poste Italiane, magari in combutta con l’ufficio posta aziendale, per farmi avere tra le mani un testo che ho acquistato su ebay in virtù di un prezzo più che vantaggioso e di condizioni generali prossime alla perfezione dei manufatti intonsi. “Neon Bible” si intitola, come l’album degli Arcade Fire (che, ovvio, proprio ad esso si sono ispirati). “La Bibbia al Neon”, opera prima di uno scrittore giovane e folle morto suicida a soli trentuno anni. Certo chi cercasse in giro informazioni sul suo conto troverebbe ben pochi riferimenti su questo libro d’esordio scritto all’età di sedici anni, visto che John Kennedy Toole è noto quasi esclusivamente per aver partorito un’altra opera (sua seconda e ultima), “A Confederacy of Dunces”, “Una Banda d’Idioti”. Visti i commenti su Anobii e la significativa diffusione del romanzo anche in Italia, citato un po’ ovunque alla stregua di un autentico Cult Book (inevitabile quando un testo che tutti gli editori si rifiutavano di pubblicare perché “non parla di niente” si aggiudica il Pulitzer postumo, a undici anni dalla morte che il suo autore si diede per la delusione), mi aspettavo una sorta di irrinunciabile capolavoro. Non è andata esattamente così, anche se penso di riuscire a intuire le ragioni di questa spropositata venerazione. E’ un’opera apparentemente sconclusionata e grottesca come il suo titanico protagonista – autobiografico in tutto e per tutto – ma porta in sé i germi di tante rivoluzioni che ai tempi in cui venne scritto erano ancora lungi dal manifestarsi: lo spirito del sessantotto, per esempio, o l’irriverenza dei giovani a caccia di un mondo diverso, più aperto e meno gretto. E soprattutto l’irrancidirsi del sogno americano, un processo incarnato con straordinaria modernità proprio da Ignatius Reilly e dal suo plateale disincanto. I grandi meriti del romanzo risiedono quindi in questa sua carica, dissacrante e anticipatoria di tante tendenze e di tanto attuale nichilismo. Al di là di questo, “Una Banda di Idioti” resta un libro divertente e curioso ma non certo esaltante. Chiuso il discorso (segue recensione), dall’opera prima “Una Bibbia al Neon” – che questo alone mitico non se lo porta dietro nonostante l’adozione da parte di una delle band più osannate del pianeta (escludete tranquillamente il sottoscritto) – non saprei proprio cosa aspettarmi. Sarebbe già una gran cosa (sarebbe già qualcosa) se a dodici giorni dalla spedizione mi arrivasse finalmente tra le mie mani.

In una New Orleans assai poco cinematografica e ridotta a sgangherato teatro dell’assurdo, il trentenne Ignatius Reilly è una sorta di solitario partigiano in una guerra di resistenza contro il cattivo gusto e la mancanza “di teologia e geometria” negli esseri umani, giunta evidentemente alle sue battute conclusive. Ragiona e si muove come sull’orlo di un baratro, elevandosi a baluardo ultimo di una morale di suo alquanto contraddittoria, messa costantemente a dura prova da un progresso bugiardo, dalle perversità di un ottimismo generalizzato e dalla crescente libertà sessuale e nei costumi che, ai suoi occhi gialli e blu pieni d’alterigia, appare come irrefrenabile e perniciosa licenziosità senza freni inibitori.
Il rubicondo Ignatius ci viene presentato sin dalle prime pagine come un pazzo furioso. E’ chiaramente un soggetto moralista, reazionario, bigotto, onanista, indisponente, viziato e infantile. Un paranoide sociopatico, abbigliato in modo pratico e confortevole quanto grottesco, convinto che la sua folle ed “eroica” Weltanschauung instilli odio e paura negli altri (“Sono un anacronismo vivente. Questo la gente lo capisce e mi diventa ostile”) spingendoli a fare comunella contro di lui. In libertà nella sua testa si agitano come spettri senza requie pensieri deliranti, frutto di un’intelligenza fervida e assai poco convenzionale. Nonostante l’aspetto gretto e volgare, Ignatius è infatti anche una persona colta che ha scelto di laurearsi con tutta calma, coltiva aspirazioni da grande scrittore e si sta faticosamente dedicando alla stesura di un interminabile pamphlet, sconclusionato trattato di storia comparata elogio del Medioevo più fosco e violento atto d’accusa “contro il nostro secolo” e l’illuminismo, esorcizzato come simbolo di un mondo barbaro e considerato l’origine di tutti i mali moderni.
Le sue ambizioni sono alte, smisurate: vorrebbe emulare l’eremitaggio del poeta Milton come espediente per una perfetta meditazione e per l’autoperfezionamento nell’arte dello scrivere e riporta in calce ai suoi farneticanti scritti massime solenni di Platone come dediche ai suoi inesistenti lettori. L’ossessione per la Rota Fortunae sembra condizionare ogni sua scelta mentre il De Consolatione Philosophiae è la stella polare della quale si serve per orientarsi nelle anse di una squilibrata relazione con l’anziana madre alcolizzata ma anche in una New Orleans degradata a “capitale del vizio del mondo civilizzato”, rifugio di “puttane, esibizionisti, alcolizzati, sodomiti, tossicomani, feticisti, pornografi, truffatori, megere, inquinatori e lesbiche” dalle cui avvilenti paludi non ha modo di evadere per via di una cronica fobia per i pullman granturismo. Toole ce lo presenta dapprima nel chiuso delle quattro mura domestiche, come un sudicio dittatore che trova sempre da ridire o puntualizzare su tutto, pur difettando di esperienza in ogni campo, si ingozza di porcherie come un bambino e limita i suoi contributi in casa a qualche spolverata e alla crema al formaggio, sua unica specialità in cucina. L’ideale isolamento resta tuttavia una sua chimera visto che il (non più tanto) giovane Reilly coltiva – apparentemente controvoglia – una relazione epistolare con la sua ex fidanzata Myrna Minkoff, turbolenta idealista fuggita a New York, ed è costretto a cercarsi un lavoro per aiutare la genitrice a ripagare un pesante debito contratto in seguito a un incidente automobilistico. Una bella rassegna di tragicomiche avventure occorsegli dapprima nei panni dell’archivista-parassita presso le fallimentari Manifatture Levy, quindi in quelli ben più degradanti di venditore di hot-dog nelle strade del pittoresco quartiere francese, segneranno il suo esplosivo scontro con la realtà. Da innocuo teorizzatore della scaltrezza improduttiva e dell’assenteismo a agitatore per i diritti degli operai afroamericani e promotore di una diabolica campagna pacifista alla guida delle masse omosessuali, il Nostro piccolo genio incompreso finirà col diventare un’inconsapevole pedina nel più ampio quadro del malaffare cittadino e sarà costretto a optare per una fuga rocambolesca quanto miracolosa dalle proprie più ataviche paure e da un sicuro internamento.

Un’elettrizzante inclinazione per il nonsense e un debordante humour surrealista esercitato a tutto campo restano la linfa fondamentale di questo romanzo pirotecnico e volutamente malsano, nei ragionamenti maniacali di Ignatius ma anche e soprattutto nelle situazioni al limite della farsa in cui il grasso e baffuto antieroe si trova perennemente calamitato, nonché in tutta una serie di deliziose figurine di contorno, determinanti nel garantire poco alla volta un senso alla presunta insensatezza nelle riflessioni del grande protagonista di questo libro. Capita così di imbattersi in una madre, Irene, in cerca di evasioni giovaniliste evidentemente fuori tempo massimo; in un agente, Mancuso, perennemente vessato dai suoi superiori e costretto a lavorare in condizioni via via più degradanti e sotto ridicoli camuffamenti; in un imprenditore, Gus Levy, del tutto disinteressato agli affari fino ad un insperato ravvedimento; in un’ottuagenaria rimbambita, la signorina Trixie, costretta a veder prorogato a oltranza il proprio pensionamento come se questo fosse un favore che le viene riservato; in un capoufficio disgraziato, Gonzalez, che scambia i fannulloni per prodigi e vive con terrore l’inesistente autorità del suo superiore; nella proprietaria dell’immondo “Notti di Follia”, Lana Lee, che pare più una maitresse avida e schiavista che non una semplice commerciante. Di questo “Una Banda di Idioti” è particolarmente interessante la struttura discontinua che segue in parallelo diverse tracce privilegiando le bizzarre esperienze di Ignatius e quelle del filosofeggiante e bistrattato inserviente Burma Jones, destinate a convergere e incrociarsi in una frenetica serata al “Notti di Follia” in cui tutto sembrerà precipitare, salvo dar luogo poi a un’impensabile svolta per ciascuno dei personaggi in scena. Il lettore è coinvolto attivamente e l’interpretazione riserva sorprese man mano che si procede: si sarebbe dapprima portati a credere che lo sgradevole Ignatius sia l’unico folle in un mondo non bello ma popolato da savi. Pian piano si riconoscono tuttavia manie e segni di squilibrio in ogni caratterista chiamato da Toole a recitare nei tanti ruoli di secondo piano, e per ognuno di loro la prima impressione andrà inesorabilmente incontro a un beffardo rovesciamento. E’ curioso poi come il finale, con la salvezza offerta a Reilly proprio da quella Myrna Minkoff che ci era stata presentata fino a un attimo prima come la causa di ogni suo male, segni l’ultimo e più assurdo ribaltamento: con il prorompente ritorno di una ragione prima annebbiata, sembra proprio che l’ingombrante antieroe fosse davvero soltanto la vittima di una serie di sfortunati eventi nell’opprimente recinto urbano animato da tanti pazzi scatenati.
Nelle pagine di “A Confederacy of Dunces” c’è la vecchia America gretta, conformista, ipocrita e xenofoba dei conflitti razziali e di classe. Più sullo sfondo, nelle lettere di Myrna al protagonista, si intravedono i germi del femminismo e della contestazione giovanile degli anni ’60 (il testo è del 1963 anche se venne pubblicato postumo solo nel 1980). E poi c’è il capolavoro autobiografico rappresentato da Ignatius, che si presenta come guida filosofica alla stregua di Severino Boezio per la Roma corrotta e decadente del suo secolo e nella sua pigrizia e nel suo disincanto nichilista (memorabile il motto boeziano stravolto “Il lottare è in fin dei conti privo di senso, ed è meglio rassegnarsi”) è ben oltre, già alla fine di qualsivoglia utopia, egoista e asociale eppure schiavo della necessità di aprirsi proprio come la sua dannatissima valvola pilorica. Nel clima da basso impero del romanzo, preannuncia con largo anticipo il deterioramento dell’American Dream e risplende quindi come un personaggio attuale in maniera perfino sconcertante. Curioso come i due attori scelti con lungimiranza per gli adattamenti cinematografici del libro – John Belushi prima e John Candy poi (il protagonista di “Un Biglietto in Due” sembra fisicamente tracopiato dal testo) – siano morti entrambi prima del tempo facendo naufragare i rispettivi progetti. E proprio la morte giovane (e da suicida) dell’autore, John Kennedy Toole, non può non aver pesato nel promuovere il romanzo, forse oltre i suoi effettivi meriti, al rango di Cult Book e alla vittoria del Pulitzer per la narrativa. Non si tratta di un capolavoro, come si legge scritto ovunque da schiere di entusiasti ammiratori, ma resta comunque una lettura assai piacevole e intelligente.

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The Sparrow

       

Ecco un artista del quale ho parlato davvero in lungo e in largo su queste pagine, scrivendo tutto e il contrario di tutto e raccogliendo abbastanza materiale da ricavarne un’ampia scheda monografica su Ondarock. Rispetto all’affettuosa dissertazione in tre parti intitolata “Genio in sordina”, nella monografia avrei aggiunto le curiose avventure collaterali che James Milne ha collezionato negli ultimi anni in licenza dal proprio progetto principe: prima nel collettivo art-rock dei BARB, capitanato dal figlio del leader dei Crowded House, quindi in un bizzarro esperimento di sofisticazione pop condiviso con il connazionale Mike Fabulous. L’ultimo capitolo della vicenda artistica di Lawrence Arabia è però stato questo disco, “The Sparrow”, uscito esattamente un anno fa. Una prova che, anche grazie al contributo non banale dei due diversivi menzionati poc’anzi, rende testimonianza della significativa maturazione espressiva del cantante e musicista neozelandese, nel songwriting (di suo molto promettente già agli esordi) e ancor più nelle vesti di arrangiatore di se stesso. E’ un piccolo disco, l’ultimo Lawrence Arabia: breve, discreto, per certi versi impressionista. Tuttavia ha retto molto bene questo primo anno d’invecchiamento in virtù di un eleganza poco appariscente ma alquanto azzeccata. Scritto con il consueto acume easy-listening, è un album curato e colorato ma con misura, notevole per l’equilibrio tra le ombre perseguite a livello profondo e le pregevoli orlature lasciate in bella mostra su un piano più epidermico. Milne insegue ancora il fantasma di Lennon ma fa centro soprattutto con i sorprendenti rimandi a Scott Walker e all’idolo non dichiarato, Harry Nilsson. Le qualità ci sono sempre stati e seguono un trend in decisa crescita; il talento onnivoro ha avuto modo di esternare tutta la propria verve in molteplici direzioni; in più c’è la Bella Union, garanzia di qualità e visibilità anche nella comoda nicchia indipendente. Le premesse che portino Lawrence Arabia a compiere davvero il grande salto (fino a ora c’è andato solo vicino, neanche così tanto in realtà) ci sarebbero tutte. Dipenderà in buona parte da lui, specie adesso che la mira è stata perfezionata con lavori sempre più interessanti. Non sprecare quel genio nell’inventare buonissime canzoni pop, sentirsi pronto ad afferrare lo scettro del Dunedin Sound e, finalmente, osare. Se viceversa non dovesse funzionare, rimarrà uno di quei segreti da custodire gelosamente. Almeno per noi non dovrebbe essere un grosso problema.

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I Figli della Mezzanotte  _Letture

      

Ormai questo cosiddetto blog è diventato un collettore di critiche scritte un po’ qua e un po là, senza più pezzi originali da tirare fuori di tanto in tanto. E’ un peccato, mi rendo conto, ma significa che tutto il mio tempo extra sta andando in recensioni o live report pubblicati comunque, e questo è un bene. Nell’alternanza disco/libro di questa indefessa operazione recupero tocca ora ad un romanzo, e sono contento che si tratti di un signor titolo. Rushdie è un autore spesso criticato, sicuramente controverso, che a detta di molti ha perso da tempo la sua magia. Io non saprei dire se questo sia vero o meno, avendo avuto a che fare esclusivamente con questo che è spesso citato come il suo capolavoro. Una lettura impegnativa ma anche molto stimolante. Per me è stata insolitamente lunga e faticosa, ma non posso dire di non esserne stato ripagato. Spiegarlo in poche parole è impresa ardua e probabilmente vana, anche se io ci ho provato con la disamina che segue. Non certo il libro della vita ma un testo comunque suggestivo e importante. Mentre lo leggevo è uscita nelle sale la sua riduzione cinematografica. Ho provato ad accelerare la lettura per imbastire un confronto tra le due opere ma devo aver fatto tardi, perché la pellicola non era più proiettata in alcun cinema. Troppo lento io, probabilmente, o troppo scarso il film (così ho sentito dire): tra un po’ di tempo, forse, sarò in grado di dare una risposta anche a questo ennesimo, insignificante interrogativo.

In una terra dove “il numero di divinità fa concorrenza a quello degli abitanti”, Saleem Sinai non ha più tempo e deve ancora portare a compimento l’ingrata missione di una sentita, vitale testimonianza. Vuole affidare alla carta memorie e confessioni sulla propria esistenza, intrecciate agli avvenimenti storici cruciali dell’ultimo mezzo secolo del suo paese, l’India, ma tradisce tutto il nervosismo di chi ha una fretta del diavolo, forse per la paura di incorrere nelle lacune tipiche dei suoi connazionali, eterni smemorati. Anche per questo finisce allora per imboccare la strada più impervia, lunga e panoramica, per offrire ai lettori la visione più ampia e dettagliata possibile delle proprie origini e, in parallelo, di quelle della sua patria, riducendo al minimo (solo nelle intenzioni però) il rischio di fuorvianti inesattezze. Non una sola storia quindi bensì una miriade di tracce diverse, “un tale eccesso di linee, eventi, miracoli, luoghi e chiacchiere intrecciati” e con enormi moltitudini di individui costretti “a fare a gomitate e spintoni” dentro di lui. La prende alquanto larga, romanzando la storia d’amore dei propri nonni nella spettacolare cornice del Kashmir per rendere conto dei possibili antefatti ereditari nel proprio corredo umano e caratteriale, tra il rigore assoluto della devota mussulmana “Reverenda Madre” e il rassegnato razionalismo del medico Aadam Aziz. Sullo sfondo gli eccidi perpetrati dalla potenza coloniale inglese ormai in declino, ma anche i conflitti interreligiosi e sociali, destinati a esplodere come una polveriera di contraddizioni irrisolte all’indomani della tanto agognata indipendenza, il 15 agosto 1947, data d’ingresso in scena del protagonista narratore Saleem e degli altri straordinari figli di quella mezzanotte così speciale. Tra servitori bugiardi e poeti nascosti in cantina, scioperi della parola e assurde profezie da santoni, incredibili scambi in culla ed eccentrici inglesi pronti a rinunciare a tutto fuorché alle proprie tradizioni, il piccolo Sinai sembra destinato a irrompere quando ogni mirabolante evento ha già avuto luogo. Dal suo resoconto impariamo a conoscerlo solo poco per volta, tra istantanee del suo presente di “anziano” trentaduenne e curiose corrispondenze con gli avi. Il suo vissuto è narrato in prima persona attraverso i contorni flou di un’avvincente esperienza onirica, sospendendo quasi per necessità ogni criterio di veridicità nella relazione con il lettore ma affabulando con la pazienza di chi voglia stupire senza smargiassate il suo pubblico. Senza mai perdere di vista eventi capitali come gli scontri per l’autonomia linguistica o la morte violenta del Mahatma Gandhi, vediamo dipanarsi la sua riservata esistenza di predestinato incompreso, sbeffeggiato da coetanei crudeli e vessato dall’indomabile vitalità della sorella minore “Scimmia d’ottone”, alleata ma anche imprevedibile competitor in un’infanzia tribolata nonostante gli indubbi agi garantiti dal censo alto-borghese. Nelle sue riflessioni mature ritroviamo la certezza che ogni vita può essere fatta di alti e bassi, “scale e serpenti”, sventure imprenditoriali e fortunatissime puntate alle corse, e che persino due gocce di veleno di cobra possono salvare un bambino che pareva spacciato. La più clemente delle sorti sembra rivelarsi la più terribile delle sventure, ed è proprio con la scoperta delle proprie qualità straordinarie che per il mite Saleem e la sua conferenza di piccoli mostri dai poteri sovrannaturali si spalanca la prospettiva di una rovina incalzante – tra fughe infinite, misteriosi nemici, l’apnea in un mondo adulto oltremodo grottesco e, parallelamente, la nascita di Pakistan e Bangladesh con relative guerre sanguinarie – verso un finale visionario e angosciante in cui tutto sembra precipitare.

Dall’epica saga famigliare all’autobiografia composta in chiave falso-realistica al romanzo immaginifico: quest’opera di Salman Rushdie è tanti libri assieme. Un lavoro affascinante e complesso con il quale non si può che familiarizzare un passo alla volta, entrando in sintonia con meccanismi e topoi letterari intriganti, per nulla lineari. L’intreccio è a dir poco tortuoso, una commistione di concretezza e fantastico che non concede facili appigli nella lettura, ma anche una fantasmagoria infarcita di anticipazioni e flashback, simmetrie ipotetiche, piste ingannevoli e specchi deformanti, verità tangibili e fate morgane, oltre alle corrispondenze impossibili eppure fondamentali tra il vissuto individuale e la storia di una nazione. L’autore è fenomenale nel gestire questo coacervo di spunti pazzeschi senza deragliare, suggerendo ad ogni svolta la possibilità di un disegno che sarà ricomposto tessera su tessera soltanto con l’ultima pagina e al solo prezzo – irrisorio considerando gli esiti – dell’indispensabile perseveranza da parte del lettore. E’ notevole anche la sua capacità nel tratteggiare una miriade di splendidi personaggi, accomunati dalla tendenza ad un repentino ribaltamento caratteriale (memorabili i genitori Ahmed e Amina ma ancor più la sorella del protagonista, riciclata da fanciulla terribile a voce devota nella “Terra dei Puri”, o l’appannato incantatore di serpenti Picture Singh) che pare la perfetta sottolineatura del brusco cambio di scenario tra India e Pakistan per l’intero clan Sinai, come da un destino invariabilmente infausto condotto nel segno del più completo annientamento. Non comune anche l’abilità nel trattare la materia con autentico talento sinestetico (riflesso della capacità nel giovane Sinai di annusare le altrui emozioni), offrendo una concretezza quasi fisica a colori, odori e sapori costantemente evocati, ma riuscendo nel contempo a scongiurare i facili inciampi in un esotismo da quattro soldi, oggi tremendamente di moda. Non mancano i passaggi di grande suggestione, e non intendo certo cartoline selezionate di un India per turisti: sono luoghi simbolici come la magica foresta delle illusioni del Sundarbans, dove volteggiano i fantasmi delle speranze dei soldati dispersi, oppure la casa delle vedove, metafora e incubo di ogni forma di prevaricazione oppressiva. Espedienti di pregevole fattura questi, solo due tra i tanti adottati da Rushdie soprattutto nella seconda metà del romanzo: l’amnesia ad esempio, accorgimento melodrammatico che nella confessione del protagonista diventa irrinunciabile per raccontare la sua rinascita; la figura di Padma come lettore dentro al racconto, per stemperare il carico delle allusioni e alleggerire (nonostante l’eccessiva ridondanza) il proprio intento didascalico; e poi la comunità stessa degli eccezionali “Figli della Mezzanotte” e le loro doti magiche, un aspetto appena abbozzato e presto confinato sullo sfondo evitando comunque di rinunciarvi, filtro fiabesco imprescindibile per mantenere la leggerezza del tocco e permettere a chi legge di metabolizzare oltre cinquecento pagine di eventi drammatici e scontri cruenti, senza patimenti eccessivi. Ultime qualità mirabili di questo libro sono i suoi due protagonisti. In primo luogo la voce narrante Saleem, tenuta sotto perenne scacco dalla bugia della sua balia (e dal di lei delitto originario) secondo cui quel che si aspira ad essere si può essere, senza indugi o preclusioni; condannato a ricercare senza sosta surrogati di una figura paterna troppo evanescente; sfibrato dalla necessità di raccontare se stesso e la sua patria con lui, nell’illusione crudele di poter approdare a un finale in linea con le proprie premesse, quando è invece di brandelli di memoria inattendibile che ci si deve accontentare. E accanto a lui il tema chiave del ricordo, appunto, inteso come qualcosa che si è destinati a perdere. Rushdie lo sviluppa attraverso un paio di mirabili invenzioni, eloquenti allegorie del popolo indiano e della sua bizzarra abitudine a usare la stessa parola per dire “ieri” e “domani”. Il ghetto peripatetico dei maghi, spinti dalla miseria, dalle vessazioni poliziesche e dalla frenesia raminga a dimenticare i propri trascorsi ed ogni personale abilità, rimpiazzati dalla “monomania da lumache” di un grigio quotidiano; il club “Midnite Confidential”, regno di inservienti cieche e avventori che non vogliono essere visti: “Questo è un mondo senza visi e senza nomi. Qui la gente non ha ricordi, famiglia o passato. Qui conta l’adesso, niente altro che l’adesso”. L’oblio come il peggiore dei mali insomma, raccontato con amarezza in un romanzo che è tutto giocato sui fragili fili della memoria, storica o fantasiosa che sia. Senza di essa individui e comunità sono condannati in partenza a rivivere eternamente i propri errori e le proprie sofferenze, a non poter vivere né morire in pace, come la triste ma meravigliosa avventura di Saleem Sinai insegna.
Grande libro “I Figli della mezzanotte”, non un capolavoro ma poco ci manca.

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