James Purdy

Come in una tomba _Letture

       

Ancora Purdy. Dovete perdonarmelo, ma qualche tempo fa ho insistito parecchio con lui e i frutti si vedono ora in chiave retrospettiva. Potrei limitarmi al copiaincolla di quanto scritto recentemente, perché tanto non ci sono e temo non ci saranno mai novità di alcun rilievo sul suo conto. Aggiungo a quanto già detto una notazione: in carriera l’autore di Hicksville ha firmato diciassette romanzi, otto dei quali attendono ancora la prima edizione italiana (qualcuno da più di quarant’anni). Si pubblica di tutto oggi come oggi, non necessariamente libri di Fabio Volo. Possibile che non ci sia un pisquano che traduca testi a suo tempo anche premiati, come “On Glory’s Course” o “Eustace Chisholm and The Works”, e un pur sgalfio editore che paghi quei due euro di diritti e li pubblichi una volta per tutte? Non chiedo mica la Einaudi, la stessa che lo lanciò in Italia ma si dimenticò presto di lui. Troppi refusi nei loro testi. No, è a gente più minimal e illuminata che rivolgo questa supplica invisibile: Minimum Fax, se ci sei, torna a battere un colpo! Di “In a Shallow Grave” nella fattispecie che dire: un’altra opera a suo modo titanica e tetra oltre ogni immaginazione. Angosciante, nerissima riflessione sulla memoria e l’abbandono: temi chiave in Purdy, temi che, evidentemente, gli si sono rivolti contro come una condanna che sarebbe bene venisse convertita presto in grazia.

Sfigurato da un’esplosione nel mar della Cina meridionale, Garnet Montrose è un reduce di guerra rientrato nella sua casa sull’oceano, in Virginia, e condannato dal suo nuovo raccapricciante aspetto a un inferno in terra fatto di solitudine e rimpianto. Per passare il tempo e arginare i fantasmi del passato, l’uomo comincia a buttar giù i propri pensieri in un diario che brucerà però molto presto, tormentato – più che dalle orripilanti ferite, oramai guarite – dall’inesorabile rigore della memoria, dall’impossibilità di dimenticare, dall’efficienza di un intelletto che sembra particolarmente lucido e terso. Cicatrici, sfregi e chiazze su un corpo color “succo di more”, prigione di una mente che non può che sognare il ritorno al “caro, vecchio me stesso”, è un relitto spiaggiato su una costa desolata, indistinta, da cui spera di affrancarsi trovando nell’unico grande amore della sua adolescenza, la vedova Rance, un’insperata ragione di vita. “Più vago della nebbia, più impalpabile della notte”, vive letteralmente come in una tomba, in un limbo scurissimo, nella vuota attesa di qualcosa che certifichi e insieme legittimi la sua estraneità dal mondo dei vivi. A dargli un senso è unicamente l’ossessione della donna, che ha tutta l’intenzione di tornare a corteggiare per interposta persona. Aspro, burbero, incline a una sobria disperazione, Garnet è un “vecchio” di soli ventisei anni che si illude di essere confinato in un eterno presente privo di prospettive future, ma è in realtà schiacciato dal peso opprimente della nostalgia, dalle reminescenze di quand’era un ambitissimo giovane in piena salute e frequentava una scintillante sala da ballo ormai in abbandono, dove torna regolarmente la notte quasi fosse vittima di un antico incantesimo. Due individui rappresentano per lui il solo elemento di contatto con la realtà: il giovane nero Quintus Pearch, pagato per massaggiargli i piedi e distendergli i nervi attraverso la lettura di vecchi tomi della biblioteca di suo nonno, il cui senso sfugge tuttavia a ogni pretesa di comprensione ed è riscattato dalla rilassante musicalità delle nude parole nell’aria; e poi il giovane bianco Potter Daventry, fuggiasco dello Utah con un terribile segreto insabbiato in recenti trascorsi che paiono lontanissimi, che ha invece il compito di recapitare per lui i messaggi all’amata. Se Quintus si presenta dal primo istante come un tipo taciturno ma accorto, che “vede in trasparenza ogni cosa” e si offre come irrinunciabile garanzia pragmatica, è però con l’irrequieto e imprevedibile Daventry che si instaura il vincolo più profondo, reso quanto mai incandescente dal triangolo sentimentale che ha nella giovane vedova il suo terzo vertice e che porterà, con un implicito sconvolgimento magnetico, al rovesciamento dei poli in gioco, al ribaltamento delle regole di attrazione e repulsione in una sorta di ciclica e beffarda danza delle stagioni.

Detto dell’agenda data alle fiamme, è alle pagine di un altro diario – quello crudo e sincero della pura immaginazione – che Garnet affida i soliloqui che danno vita a “Come in una tomba”. Che è, ancora una volta nel caso di Purdy, uno stupefacente romanzo (breve) sulla memoria, inafferrabile come i pensieri all’origine del memoriale che Alma Mason non scriverà ne “Il Nipote”, inutilmente bugiarda e sempre relativa come i resoconti su “Cabot Wright”, fragilissima e prossima all’oblio come il passato dettato dal vecchio Matt Lacey al suo entusiasta assistente ne “La versione di Geremia”. Quest’ultimo accostamento non è casuale, tanti sono i possibili raccordi tra i due libri. Sembra infatti impossibile non riconoscere nel triste Montrose il calco di quell’anziano narratore, qui migliorato sin nel più infimo dei dettagli dall’autenticità dei suoi pur impulsivi ragionamenti, laddove quel protagonista pareva più che altro congelato in un comodo stereotipo letterario. Entrambi i testi si ricordano inoltre come amari poemi sull’abbandono, in ogni forma esso abbia modo di presentarsi: fisica, emotiva, umana, sociale. Non assistiamo infatti al degrado di un solo individuo rimasto “a parte”, bensì di una collettività che il progresso ha spogliato di tutto, come il desolante teatro urbano della squallida Boutflour. Nelle battute conclusive, mentre la relazione con l’aiutante bianco si fa vincolante in maniera quasi insostenibile e svela inattesi risvolti omosessuali, è proprio quest’ultimo a rappresentare l’opzione risolutiva di tutti gli squilibri, riscattando la proprietà dei Montrose dalle ipoteche che vi gravano come una scure e poi letteralmente immolandosi nel frangente di massima intensità drammatica, per rendere tangibile la guarigione del suo datore di lavoro attraverso il proprio sacrificio come in un mito degli antichi. E’ in questo finale convulso che la narrazione si fa più ostica, visionaria, vibrante, e giocoforza prende a deragliare e perde molto in concretezza finendo per apparire incerta, incoerente, persino sbrigativa. Forse Purdy intendeva mimare così la progressiva follia di un protagonista sempre più sano e sempre meno attendibile, annientato in ultimo anche nel senno (“il mio cervello alla fine scontava la vergogna e lo sfacelo del corpo”), ma lo ha fatto con una violenza brutale, nerissima, disperata, aggrappandosi in via esclusiva a un immaginario tra il catastrofico e il millenaristico (l’uragano, con corollario di oscure profezie) tanto potente quanto vago e nebuloso. L’inquietudine diventa allora sconfinata e l’intero romanzo sembra assumere a posteriori i contorni di un incubo consumato come in preda alla febbre. Che poco a poco si placa, rovesciando le prospettive: il viso di Garnet torna a essere bianco, la vedova Rance prende a fargli una corte spietata con l’aiuto di imberbi messaggeri ma lui ha perso ogni interesse e ha smesso di amarla, consumato dall’assenza di quel Daventry che ora par quasi aleggiare nella casa vuota come uno spettro.

Ancora un grande romanzo da uno scrittore difficile. Cupo, malmostoso, letteralmente rigonfio d’inquietudine, dove non tutte le promesse della prima – straordinaria – parte saranno effettivamente mantenute (avrebbe potuto essere il capolavoro di Purdy), ma i tre personaggi principali si rivelano davvero indimenticabili.
Al solito, consigliato unicamente ai lettori molto pazienti e non particolarmente in sintonia con la banalità autistica di questi tempi.

8.6/10

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La Versione di Geremia _Letture

       

James Purdy è stato un gigante della narrativa americana, anche se ad appena sei anni dalla sua morte sembra quasi che non sia mai esistito. Poche le tracce, specie in Italia, dove diverse sue opere non sono mai state tradotte. Quando Einaudi pubblicava “La Versione di Geremia”, il nome era ben più quotato e ogni nuova uscita non tardava più di qualche anno per essere promossa anche da noi. Poi l’oblio, fino a una modestissima riscoperta con Minimum Fax prima e Baldini Castoldi e Dalai poi, purtroppo su titoli già editi e non sugli altri. “La Versione di Geremia” dovrebbe essere uno dei suoi titoli migliori, anche se di rado ho riscontrato un’assoluta costanza qualitativa come nel caso di Purdy. Autore e romanzo difficili, comunque, pervicacemente anacronistici, tetri e lenti. Ma anche esempio di una narrativa potente, di un realismo sporco e sconfortante ancor più che in Richard Yates. Non mi sentirei di consigliarlo, a meno che non siate lettori con i controcoglioni e con una soglia di sopportazione della (presunta) noia particolarmente elevata.

Nella cittadina in disgrazia di Boutflour, lo “zio” Matthew Lacey è il classico individuo anacronistico sul quale si è ricamata un’ampia e fantasmagorica mitologia: attore di buon successo agli albori del cinema, in seguito rovinato dal demone dell’alcool, si sarebbe ritirato nella rassegnazione di quella sua città – odiata cordialmente da lui come da nessun altro – per divenirne una sorta di “capo fantasma tra i fantasmi”. L’incontro casuale con il quindicenne Geremia Cready in un giorno di tempo infame diventa l’occasione per porre le basi di un’insolita amicizia e per far sì che una storia prodigiosa abbia modo di essere raccontata e, successivamente, affidata alla memoria della pagina scritta. L’anziano e l’adolescente imbastiscono un rapporto di natura professionale davvero franco e senza fronzoli, con il primo a dettare i suoi ricordi idilliaci sul conto dell’ormai dimenticata famiglia Fergus (che in gioventù lo aveva accolto come un figlio) e il secondo a operare da puntuale amanuense. Quei resoconti su un universo e i suoi presunti eroi cancellati dal tempo non potranno che infiammare l’immaginazione di un giovane senza prospettive come Geremia, spingendolo a vivere come una missione quell’incarico di apostolo e testimone di una leggenda lontana. E nel racconto che prende così vita sotto gli occhi del lettore quasi fosse un placido sogno, con il ragazzo spossato dalle verità complementari della sua matura sorellastra Ella e del vecchio Matt, proprio quest’ultimo tende a svanire e a confondersi tra le figure di fondo, chiamate a recitare la loro parte solo di tanto in tanto ma senza mai togliere rilievo ai veri protagonisti delle vicende: in primo luogo Elvira Summerlad, donna caparbia ridotta sul lastrico dalle avventate speculazioni del marito Wilfred Fergus, poi datosi alla macchia negli stati del sud lasciando alla moglie l’incombenza di crescere tre figli senza un soldo e dovendo abbracciare alla svelta la necessità materiale di un’esistenza pragmatica quanto avvilente, lontanissima dagli agi e dalle talentuose promesse della giovinezza ma anche dalla condotta rispettabile di una donna sposata; quindi sua cognata Winifred Fergus, altro personaggio femminile imponente ed emblema di un’impronta yankee più fieramente tradizionalista, a sostenere in vece del pallido fratello le ragioni dei Fergus nel braccio di ferro a distanza con Elvira; e infine Jethro, l’enigmatico “figlio di mezzo” di quest’ultima, considerato folle e imprevedibile un po’ da tutti a causa di un gravissimo incidente patito in tenera età, che lo ha reso di fatto assai più sensibile e tormentato non solo dei suoi coetanei ma di tutta la meschina umanità in scena in questi States di provincia negli anni della Grande Guerra.

La “Versione di Geremia” non è altro che la messa in scena asciutta e priva di clamori di una tragedia senza morti ma con tante vittime, la cui illustrazione in un passato distante e non più replicabile è curata da Purdy con verità sbalorditiva, cogliendo sfumature marginali nell’intimo dei suoi soggetti e nelle difficoltose relazioni costruite tra di loro, oltreché evitando fermamente ogni forma di forzatura teatrale o di implicazione moralistica per non influenzare l’interpretazione di chi legge. Un tetro, sudicio realismo prevale sempre e comunque sul dramma, come nei pochi litigi corali con al centro le due donne forti e apertamente, lealmente, rivali, e soprattutto nella prolungata ordinarietà del loro scontro a distanza: silenzioso, strisciante e inesorabile logorio, con le austere cadenze di uno stillicidio. Inevitabile con queste premesse una narrazione lenta e anti-spettacolare, che si alimenti di minimi scarti emotivi o psicologici e possa risultare tediosa, snervante, ostica. Purdy fa ricorso con polso fermo a tutta la sua maestria di romanziere asettico, distaccato, trasparente, ma non manca di offrire riflessioni non banali sull’animo umano, sulle sofferenze causate dai legami o dalla loro mancanza, e sulla vacuità di sogni spazzati via in maniera impassibile dalla gelida impassibilità del reale. Nondimeno si percepisce comunque la presenza dell’autore, nella figura del giovane testimone Geremia e nella di lui identificazione negli scomodi panni dello sventurato Jethro, il cui diario senza filtri (letto per caso dal padre e dalla zia) si rivelerà sconvolgente per come mostri in tutta la sua brutalità la natura di esseri umani che bruciano nella convinzione ostile e fasulla della propria rispettabilità. Attraverso il suo volto reso disumano dalle fattezze del capro espiatorio, scopriamo per paradosso la purezza del più umano e disincantato tra i personaggi del testo, annientato dall’affetto opprimente della figura materna fino a progettarne la morte per emanciparsi, e consumato dalla consapevolezza di non serbare vero odio nei riguardi di un padre egoista e latitante, simbolo estremo del più sconfinato dei fallimenti esistenziali. Come lui e come Geremia, per estensione, anche il lettore non ha modo di schierarsi per un’aperta condanna nei confronti di alcun personaggio in scena, e non può che limitarsi a contemplare con il giusto distacco il ritratto di un mondo condannato all’oblio, nella sua flemmatica dissolvenza verso il silenzio. Un grande romanzo sui fantasmi chimerici della libertà, sulla solitudine cui siamo destinati anche senza volerlo (e anche quando tutto sembrerebbe negarle asilo), oltre che sulla fragile sostanza della memoria, individuale e condivisa. Richiede una buona dose di pazienza ma sa ripagare chi non intenda gettare la spugna.

8.4/10

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Il Nipote                        _letture

 

Doppia Review dedicata a James Purdy, come promesso il mese scorso quando scrissi senza troppo entusiasmo a proposito del suo esordio 'Malcolm'. Di essermi imbattuto in un autore di un certo spessore mi sembra di averlo già affermato in quell'occasione. Ora torno sull'argomento per avvalorare l'impressione di allora, avendo nel frattempo consumato altri due suoi romanzi, entrambi assolutamente significativi. Meglio, molto meglio di 'Malcolm' questa opera seconda, 'The Nephew', pubblicata appena un anno dopo (1960) eppure così incredibilmente diversa. Il taglio espressionista che caratterizzava la surreale avventura del ragazzo bramato da tutti è rovesciato nella prospettiva di un realismo piano e rigoroso. L'enfasi riservata al piano simbolico del racconto è scomparsa, così come le ingenuità inventive e le non rare banalità nella trama. Al loro posto una prova superba in termini di sottile narrazione psicologica. Purdy lascia da parte la pirotecnia dell'azione per farsi cantore eccelso di stati d'animo, di fragili ma sostanziali equilibri relazionali, di vite marginali fatte di ritualità e piccoli gesti. Avrebbe potuto annoiare o scivolare nuovamente (a maggior ragione data l'ambientazione) in un comodo e bieco Gotico Americano, invece risulta commovente. Grandi temi esistenziali rattati con maturità sorprendente ma senza voler imporre né lezioni né la propria morale di fondo. Un anno di distanza, quasi due scrittori diversi: insistere, per quanto mi riguarda, ha pagato. E un certo Cabot Wright lo ha confermato… 

Negli anni della guerra di Corea, gli anziani fratelli Alma e Boyd Mason trascorrono le loro giornate sempre uguali aspettando notizie dal fronte dove il nipote Cliff sta combattendo. Un laconico telegramma che da per disperso il giovane spezza l'incantesimo e disegna per questa anomala coppia una diversa quotidianità: rituali e preoccupazioni nuove per colmare il vuoto ed il silenzio di un'assenza improvvisa. Mentre Boyd vive senza condividerlo con altri il proprio dolore ("Non hai il minimo senso della comunità", lo ammonisce spesso Alma), la sorella decide di scrivere un memoriale sul nipote, una commemorazione infarcita di ricordi personali ed alimentata dalla speranza del suo ritorno a casa. I primi giorni Alma sembra trovare pace e raccoglimento nelle sue confuse meditazioni sul tempo e sul giovane, scoprendosi anche più tollerante nei confronti del fratello. Trascorre molto tempo "a dare, in un modo vago e sognante, nuova forma alla vita di Cliff", cercando di leggere nelle sue stringate lettere dal fronte "quel molto che c'era", specie nelle omissioni, ed il promemoria somiglia sempre più nelle intenzioni alle ricette di cucina scritte da sua madre tempo addietro, "perché qualcuno avrebbe potuto avere bisogno di consultarle quando lei non ci fosse più stata". La speranza tuttavia sbiadisce poco per volta, con la consapevolezza di non avere nulla di significativo da scrivere. La sensazione di aver conosciuto il nipote meno di tutti gli altri, pur amandolo come forse nessuno, diventa certezza man mano che le sue indagini presso i vicini entrano nel vivo. Spiazzata dall'inesorabile ingarbugliamento del tempo, dei ricordi e di verità del tutto ignorate, Alma mette da parte i suoi propositi preferendo tuffarsi anima e corpo nei problemi degli altri, con disagio e perplessità crescenti ma anche con il sollievo di una prolungata evasione dal proprio soffrire. Alla fine saprà però affrontare a viso aperto la realtà con la consapevolezza che ognuno ha le proprie croci, registrando la fine di illusioni e certezze che l'inevitabile chiusura della propria ricerca porta con sé: "il tempo è proprio strano", afferma lei ad un certo punto, "per un po' le cose cambiano impercettibilmente, poi, all'improvviso, sono irriconoscibili".
Ad appena un anno di distanza da 'Malcolm', Purdy torna a raccontare la marginalità di un'America minore riuscendo là dove forse aveva fallito. L'evanescente macchiettismo allegorico dei suoi primi personaggi è rimpiazzato in questo caso dalla superba concretezza con cui viene raccontato il mondo quasi immobile degli anziani fratelli Mason e l'incerto ma sostanziale equilibrio tra loro. Purdy scrive con precisione e finezza psicologiche rare, tratteggiando con realismo affettuoso la sua indimenticabile protagonista in lotta contro l'inesorabilità del fato: i suoi sentimenti franchi e limpidi, la sofferenza dietro al non detto, l'amore non confessato e andato irrimediabilmente perduto, la sua "grigia malinconia" come schermo perenne al senso di una morte mai raccontata ma sempre incombente. Riuscitissimo anche il personaggio di Boyd, razionale, pragmatico ed opportunamente evasivo ("Io ci tengo ad esser sordo quando si parla di certi argomenti"), ma anche fondamentale per mitigare l'istinto della sorella e sostenerne la volontà nei momenti peggiori. Descrivendo in modo acuto ma sincero il loro "specioso presente", servendosi di una narrazione regolare e priva di eccessi inutili o forzature, l'autore riesce a rendere al meglio stati d'animo, pregiudizi ed incomunicabilità nella quiete senza tempo di una provincia ormai perduta per sempre. Una qualità pura, preziosa, che fa di 'Il Nipote' un romanzo commovente ed assolutamente riuscito.

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Cabot Wright Ci Riprova    _letture

 

Ed ecco appunto Cabot Wright. Di nuovo, come in 'Malcolm', un personaggio ideato per restare nella memoria eppure astratto, vaporoso, eternamente sfuggente. Di nuovo una figura che è un concentrato di allusioni, un assortimento di sirene simboliche, e che si conferma alla prova dei fatti non troppo agevole da decifrare. E' sicuramente d'aiuto un finale in cui è resa evidente, nel protagonista di questo romanzo del 1965, la voce quasi da profeta di un James Purdy di molto in anticipo sui tempi nella tabella del disincanto. Proprio come era stato in 'Malcolm', raccontando per iperboli grottesche l'anticonformismo destinato a rivelarsi esplosivo solo qualche anno più tardi. Rispetto all'esordio tuttavia qui c'é molta più consapevolezza, un controllo della materia narrata – decisamente autobiografica visto il ruolo centrale del mondo editoriale e letterario di quegli anni – sufficente a preservarlo dal rischio di scivoloni nel grossolano e nel semplicistico. Non di una banale burla si tratta, ma di un affondo feroce nei confronti di una controcultura emersa con il trionfo del capitalismo e dei moderni mezzi di comunicazione di massa. Più freddezza asettica, meno cuore rispetto ad un testo toccante come 'Il nipote', ma non meno sincerità dietro questo grido di dolore di un americano colto e disorientato. Gustoso per certi memorabili e spietati ritratti, convincente come analisi originale su temi spesso banalizzati quali l'identità, la parzialità di ogni prospettiva soggettiva, il ruolo dell'intellettuale nella società. Anche il titolo italiano è prezioso, racconta la volontà di riscatto di un personaggio in cerca di se stesso attraverso il giusto autore (decisamente meglio di quello della prima pubblicazione Einaudi, 'Un Ignobile Individuo', del tutto inopportuno). Ancora una volta, come negli altri due libri di Purdy che ho qui citato, risulta cruciale il ruolo dello scrivere, del fissare la (propria) verità su carta, del tramandarla. Intento vano, forse, in anni in cui la dimensione visuale ha preso il sopravvento su quella verbale – così come la televisione sulla radio o sulla stampa – e l'apparire ha schiantato la sostanza dell'essere. Vano, dicevo, ma pur sempre nobile ed in fondo benefico, soprattutto per chi scrive: per Malcolm, che vuole regalare alle proprie avventure il giusto spazio perché vengano ricordate; per Alma, alle prese con il memoriale del nipote per affrontare il dolore di una perdita e lasciarselo alle spalle; per Cabot, intento a definire una volta per tutte il proprio passato per potersi riscrivere un domani; ed anche per Purdy, che evidentemente amava così tanto la letteratura da metterla in discussione, per salvarla. 

Bernie Gladhart, omuncolo iper-nostalgico ritratto dal suo autore con delizioso accanimento, è un aspirante scrittore ambizioso quanto mediocre e di eloquenza “piuttosto limitata”. Per la moglie Carrie, porta dentro di sé un grande libro destinato al grande pubblico, ma a mancargli è l’argomento. E’ proprio lei a fornirgli un soggetto valido in Cabot Wright, eroe della cronaca nera di qualche anno prima, condannato alla galera per centinaia di stupri e da poco rilasciato dopo aver scontato la propria condanna. Incoraggiato dalla donna che ha già pronto un valido rimpiazzo amatorio, Bernie si trasferisce a Brooklyn – l’”ano del cosmo” – sulle tracce di Wright, lo incontra addirittura nei panni del tranquillo vicino di casa e scrive un ampio manoscritto rifacendosi agli articoli sulle riviste e alle cronache giudiziarie. Assunta dallo stesso editore di Gladhart e con il medesimo incarico, la sua conoscente Zoe Bickle propone all’ex maniaco di rielaborare a quattro mani il testo di Bernie. Lei mira a trarne un prodotto vendibile, mentre per lui è l’occasione buona e forse definitiva per fare chiarezza nel proprio nebuloso passato e ritrovarcisi, alla fine (“Ho sentito raccontare la mia vita tante di quelle volte che mi pare la storia di un altro”). Attraverso le interazioni di questi improvvisati collaboratori, veniamo a conoscenza delle incredibili vicende della vita di Cabot: un matrimonio fallimentare, la stanchezza cronica, il misterioso trattamento medico/psichiatrico intrapreso, la sua repentina metamorfosi in criminale dai modi garbati e poi un autentico tourbillon di avvenimenti tanto assurdi quanto sconvolgenti, vissuti dal protagonista con impressionante distacco. Nei resoconti Wright pare davvero aver condotto la propria esistenza sotto anestesia, privato sempre più di ogni interesse proprio come tutti gli altri rispettabili cittadini americani, uomini e donne che “odono, ma non intendono” e “vedono, ma l’immagine è sfocata”, mentre la pioggia “cade sugli schermi delle loro TV”. L’incontro tra i due sembra dare comunque buoni frutti. Insieme romanzano in maniera febbrile il materiale raccolto da un Bernie ormai sempre più disperato ed avulso dalla realtà. Zoe si esalta scoprendosi romanziera ed aggiunge colore alla fredda cronaca, Cabot ritrova smalto poco per volta vedendo prendere forma una versione dei fatti autentica dietro il proprio mito: “un sedimento finissimo delle vaghe, assurde, frustranti, incongruenti minuzie di una vita”. Il re degli editori di New York, da sempre più che entusiasta del progetto, boccia però senza appelli ‘Macchia Indelebile’ dopo averlo proposto preventivamente al gotha della critica. Un responso negativo dovuto non tanto al tema della violenza carnale (considerato addirittura fuori moda) bensì al fatto che nel racconto il protagonista si imbatta solo ed esclusivamente nei rappresentanti di un’America poco edificante – ad esser generosi – e si venga imbottiti di “anormalità e pensieri corrosivi”. Fantastica la giustificazione di Purdy a proposito di questo fallimento: il libro è definito oscuro, scoraggiante, inquietante, sordido ed assolutamente privo di qualsivoglia richiamo per il lettore in quanto non soltanto sporco ma anche troppo ben scritto, quindi difficile, senza la minima traccia di una comoda attrattiva. Nonostante il rifiuto o forse proprio grazie ad esso, alla fine Cabot Wright si dice guarito dalla stanchezza, dalla noia e dall’assenza di emotività. Dopo aver solamente ridacchiato per anni, ha imparato a ridere. Dopo aver raccontato a Zoe la propria storia, è finalmente libero di dimenticarsela, di dimenticare se stesso e di iniziare una nuova avventura ai margini della società, da homeless.

Colpisce come nell’amarissimo finale, dove si sostiene per bocca di Zoe che “non vale la pena essere uno scrittore in un posto e in un’epoca come questi”, lo stupratore seriale Cabot wright appaia nella sua purezza priva di cattiveria o cinismo quasi alla stregua di un gentiluomo vecchio stampo, che fa simpatia perché non agisce per secondi fini e diventa suo malgrado oggetto delle attenzioni ben più morbose di una società nuova ed ipocrita, di una borghesia spietata, ignorante ed arrivista che non ha costruito la propria fortuna ma si è limitata ad ereditarla. E così il libro di Purdy diventa un pamphlet feroce sull’inutilità dello scrivere, della letteratura, in un contesto in cui falsità e mediocrità propinate a tutto campo soprattutto dal mezzo televisivo definiscono l’agenda culturale e condizionano nel profondo il modo di pensare (e di essere) di un’intera nazione. E’ questo nuovo grande spaccato sull’insensibilità della sazia ed annoiata America alto borghese degli anni sessanta a colpire nel segno: il necrologio prematuro di una “nazione di meduse congelate”, dove “a nessuno piace più nulla”, dove si violenta per noia, dove conta solo fare soldi ed apparire eternamente belli e giovani (memorabile nella sua miseria il personaggio della vacua Goldie). Che i limitati riscontri di critica e commerciali dei suoi primi romanzi abbiano accentuato la piega pessimista dello sguardo di Purdy è cosa pressoché certa, ma in ‘Cabot Wright ci riprova’ il disincanto appare comunque totale: lo si intuisce dall’alone quasi terapeutico con cui vengono presentati per il protagonista i “Sermoni” del vecchio Warburton, deliri xenofobi ma anche canto del cigno di una classe sociale autoritaria eppure rigorosa, fondata su solidi valori. Emerge qui il senso di disorientamento in cui è facile riconoscere la modernità di un romanzo che Purdy scrisse in anni di cambiamenti cruciali, non solo sul piano sociale e culturale ma anche in termini di dinamiche della comunicazione, nella trasformazione dei cittadini in consumatori, nella radicale falsificazione e nella mercificazione di realtà dolosamente artefatte, gli albori della cosiddetta fiction descritti con impressionante e profetica visionarietà. L’elite letteraria newyorkese non gradì l’attacco, forse perché fu costretta ad identificarsi nel grande editore senza scrupoli Princeton Keith e nel suo inesorabile fallimento. Anche lui, comunque, almeno una perla la regala: “la maggior parte dei libri viene al mondo facendo meno rumore di un bambino nato morto”. Una critica che non si può certo rivolgere a Purdy ed alla prosa cordialmente spietata di un romanzo attualissimo come ‘Cabot Wright ci riprova’.

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Malcolm                        _letture

 

Incrociato quasi per caso in un'infruttuosa ricerca in biblioteca, questo romanzo d'esordio dell'autore dell'Ohio mi si è presentato la scorsa settimana con premesse interessanti, andate poi per lo più in fumo alla prova dei fatti. Incoraggiante la sua presenza nella scuderia Minimum Fax, recente veicolo di ottime sensazioni per il sottoscritto grazie a Richard Yates e al suo 'Disturbo della quiete pubblica' (di cui scriverò prossimamente). Bella la copertina, bello l'elogio di Gore Vidal sulla quarta, curiosa la trama abbozzata in sintesi proprio lì a ridosso. Il nome di Purdy poi non mi era del tutto sconosciuto: me l'ero annotato un secolo fa dopo averlo letto in abbinamento ad un altro commento alquanto lusinghiero, in un libercolo sui migliori libri di autori stranieri del novecento, uscito con l'Europeo forse nel 1985 ed incontrato diversi anni dopo in mezzo ad altre cose dello stesso genere, in una delle librerie del mio vecchio. Il testo magnificato in quella specie di breve recensione era un altro, '63: Palazzo del Sogno', la primissima raccolta di racconti che Purdy riuscì a pubblicare nel 1956, tre anni prima di questo 'Malcolm'. Nel frattempo l'autore ha avuto tutto il tempo di essere dimenticato, riscoperto e, fra una cosa e l'altra, di passare a miglior vita (neanche due anni fa). Memore di quelle lontane ma entusiastiche parole ho preso senza indugi il libro dallo scaffale insieme ad un altro dello stesso autore che a breve attaccherò. Buone sensazioni presto svanite, quindi. Se l'idea di fondo è valida, i buoni spunti non mancano e l'interpretazione simbolica riesce abbastanza agevole, il romanzo soffre comunque per l'eccessiva debolezza nelle caratterizzazioni (troppo "pallido" il protagonista, troppo caricati ed inverosimili i personaggi di contorno), per la contenuta visionarietà del piano descrittivo (con un soggetto di questo tipo sarebbe stato preferibile osare molto di più) e per l'insistito ricorso a dialoghi tutt'altro che memorabili. Poi certo, a posteriori si possono cogliere ulteriori riferimenti validi a livello complessivo, ma nel presente della lettura 'Malcolm' ha mostrato molto meno mordente di quanto era lecito attendersi e praticamente non è mai decollato. Non un brutto libro in fin dei conti (il finale per esempio non è affatto malvagio), ma incapace di coinvolgermi in un vero trasporto e di lasciarmi qualcosa di più profondo che una bella immagine di tanto in tanto. Spero che 'Il Nipote' sia meglio e poi ci saranno quei vecchi elogi da verificare, sempre che io trovi da qualche parte quella prima opera tradotta in italiano una vita fa. Forse che siano i racconti brevi la dimensione idonea ad uno scrittore comunque da riscoprire come James Purdy?

Chi è Malcolm? Soltanto un innocuo giovanotto senza radici, un respiro vitale che tutti bramano o il simbolo di una generazione ormai pronta a ridestarsi dal sogno americano? La chiave di lettura simbolica pare la sola praticabile per questo primo romanzo di James Purdy, per quanto la prosa poco incisiva non aiuti il lettore nel riconoscimento delle metafore o nell’apprezzamento della loro forza, invero alquanto relativa. Scrittura dal chiaro intento mimetico quella di ‘Malcolm’, specchio fedele di un protagonista innegabilmente unico ed originale. “Non mi pare che tu sia molto sveglio, ma hai un certo fascino ed un’aria di…innocua amicizia”, afferma il pittore Kermit dopo il primo incontro con il misterioso ragazzino. Ed innocuo in realtà Malcolm pare esserlo sul serio: impalpabile, trasparente, imbambolato senza volontà o sostanza, senza polpa, sangue, carattere, in balia di situazioni quantomeno grottesche e di una schiera di adulti eccentrici e deliranti, al cospetto dei quali risulta addirittura il personaggio più maturo ed equilibrato. E’ un’impressione, ovviamente. In qualità di contemplativo perennemente distratto, Malcolm somiglia ad un novello Forrest Gump all’incontrario, in netto anticipo sul protagonista del film di Zemeckis: seduto sulla sua panchina in attesa di una compagnia che gli porti delle storie, anziché raccoglierle da lui. Del tutto ingenuo, incapace di mentire, disarmato dall’inesperienza, è attore fuori contesto, fuori parte, nell’ambiguo microcosmo in cui si trova suo malgrado a recitare. Forse per questo motivo in tanti hanno letto (col senno di poi) nel suo moderno smarrimento quello dei giovani degli anni sessanta, belli ed invidiati dagli adulti ma in fondo orfani come Malcolm ed incapaci di comunicare con le altre generazioni, ormai segnati da un clima di disillusione radicale: “Non riesco ad avere un’opinione su me stesso” – sostiene lui ad un certo punto – “mi sembra quasi di non esistere”. L’aver captato, anticipato e trasfigurato certi umori generazionali, quel senso di profonda disperazione appena attenuato dal taglio onirico delle vicende narrate, è forse il massimo pregio di un romanzo per altri versi mai troppo riuscito. Anche se l’intento ironico di Purdy si rivela in più frangenti, a prevalere è quell’amarezza di fondo mal supportata dall’eccessivo schematismo di una scrittura macchinosa, ripetitiva e senza lampi autentici. Di momenti gustosi o almeno divertenti se ne incontrano ben pochi ed i dialoghi per lo più fumosi, qua e là demenziali ma veramente a fuoco solo di rado, hanno l’irritante tendenza a soffermarsi come la trama e come il protagonista solo su dettagli poco significativi, privilegiando uno sguardo ingenuo, infantile e non esente da banalità. Così, arrivati all’ultima pagina, torna in mente un’affermazione-tormentone, partorita ora da un personaggio, ora da un altro: “Ho l’impressione che la vita stia per cominciare”. Ecco, la sensazione a giochi fatti è che non si possa dire la stessa cosa a proposito di questo libro.

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