Christopher Moore

Il Vengelo Secondo Biff _Letture

       

Ancora Chris Moore e ancora un titolo sull’esilarante andante.O forse no, nemmeno poi troppo. Perché è sull’inclinazione allo sberleffo che vertono sempre le critiche, ora entusiaste ora indignate, di chi per un verso o per l’altro ha contribuito a fare di questo “Lamb: The Gospel According To Biff”, Christ’s Childhood Pal” il più celebre testo dello scrittore dell’Ohio nonché un vero e proprio fenomeno di culto. Non è tutto oro quel che luccica ma il romanzo è davvero grazioso.

 

Dopo quasi duemila anni nella polvere, Levi detto Biff viene riportato in vita, affidato alle cure energiche dell’angelo pasticcione Raziel, e riceve dall’alto un incarico a dir poco prestigioso: dovrà occuparsi della stesura di un nuovo Vangelo a proprio nome incentrato sulla figura di Gesù Cristo, suo migliore amico in Galilea sin dalla più tenera età e fino alla drammatica conclusione della sua esperienza terrena. L’apprendistato dell’allora aspirante Messia ci viene così narrato senza filtri, dall’allenamento nella pratica miracolistica svolto resuscitando lucertole all’immancabile pretesa di impersonare un eroe a scelta (Davide, Mosé, se stesso) nei giochi di ruolo tra bambini, e dalla superbia dell’adolescente saputello in materia di sacre scritture alla spasmodica ricerca della verità sulla sua missione celeste, con una fragilità, un’insicurezza e un candore che non si potrebbero immaginare più umani. Ad accompagnarlo passo dopo passo ecco dunque Biff, fedele compagno di una vita “escluso a sorpresa dai vangeli ufficiali”, in quel Nuovo Testamento “posticcio” aggiunto alla Bibbia da “quattro testimoni di dubbia affidabilità”.

 

Nuove fantasmagoriche avventure sono così vagheggiate dalla prospettiva privilegiata di un testimone irresistibile che non impiegherà molto a delinearsi, anche e soprattutto, come attore coprotagonista in scena. Seguiamo i due ragazzini ebrei in un viaggio di oltre tre lustri lungo i minacciosi itinerari della Via della Seta, all’inseguimento dei tre savi che visitarono il bambino divino nella mangiatoia e che dovrebbero avere tutte le risposte indispensabili riguardo la sua più autentica natura: un lungo e tortuoso percorso verso la piena conoscenza di sé, agevolato dagli incontri con il (fiabesco) Baldassarre in una misteriosa fortezza di roccia nell’attuale Afghanistan, complice un manipolo di sensuali cortigiane dagli occhi a mandorla e i nomi chilometrici, con il rigorosissimo Gaspare in un monastero sulle alture cinesi, e con lo svitato Melchiorre, maestro di meditazioni, in India. Solo al termine di questa pirotecnica sfilza di peripezie – dallo scontro con divinità degli inferi all’incredibile amicizia con uno yeti, e dai sanguinosi sacrifici di innocenti alla dea Kali all’abecedario tantrico del Kamasutra – Gesù potrà tornare a casa con l’irriducibile consapevolezza del Cristo e potrà dare forma al suo breve ministero in terra così come ci è sempre stato tramandato, diretto a velocità supersonica verso un destino già scritto.


E’ in queste parole del vangelo di Giovanni, citate nella postfazione, che va ricercata la scintilla da cui è scaturita questa nuova, ardita esplorazione narrativa di Christopher Moore. Ancora una volta lo scrittore dell’Ohio si cimenta con virtuosismo e spirito ironico con una parodia, anche se il risultato appare assai più misurato e decisamente meno farsesco di quanto non raccontino gli entusiasti estimatori – numerosissimi – che hanno aiutato “Il Vangelo Secondo Biff” a raggiungere l’agognato status di cult book. Non ci sono dubbi che il romanzo sia effettivamente brillante e spesso divertente, merito di un narratore guascone e di un eroe tenerissimo e per ampi tratti distante anni luce dal canone dell’agiografia universale. Non mancano, stando al tenore di alcuni tra i commenti su Anobii, le anime candide che puntualmente si indignano e parlano magari di lesa maestà, trincerate in maniera patetica dentro le quattro mura fasulle di tanto cattivo catechismo. Allo stesso modo non sono mosche bianche quelli che sottolineano – come un merito o una colpa, fa lo stesso – l’irriverenza di un testo che irriverente non è e nemmeno aspira ad essere. La verità è che il libro in questione è un’operina deliziosa e tutto sommato cauta, non la migliore dell’autore statunitense ma senz’altro una delle sue più misurate e coerenti, dove le digressioni fantastiche sono funzionali alla morale scelta e non appaiono, a dirla tutta, neanche così strampalate come potrebbe sembrare a una prima, distratta fruizione.

 

Gli insegnamenti del Budda, di Lao Tzu e Confucio, i precetti dell’induismo, persino l’ecumenico invito all’amore fraterno nel testamento spirituale di un improbabile profeta come l’uomo delle nevi (per nulla abominevole), si incastrano alla perfezione nel quadro di un addestramento alla tolleranza e alla non violenza che copre come per magia il lungo iato nella vita del Messia. Così “Il Vangelo Secondo Biff” può essere letto come il libro che, con ogni probabilità, doveva essere nelle intenzioni di Moore: un anomalo romanzo di formazione. E la storia di un’educazione sentimentale anche, con il contributo indispensabile dell’eroina – riscattata dalla fama ingiusta di meretrice – Maria Maddalena, anzi, Maddi. C’è qua e là, è vero, quel tocco satirico gentile e un po’ dada à la Brian di Nazareth, ma resta disciplinato, non straborda mai nella burla fine a se stessa e può vantare una solida ricerca e documentazione a monte. Queste le maggiori note di merito di un testo piacevolissimo ma solo a tratti davvero esplosivo (su tutte, le pagine dedicate alla prima avventura in oriente, quella nella fortezza di Baldassarre) che nelle battute conclusive praticamente dimentica gli inserti grotteschi con l’angelo teledipendente Raziel e si fa persino serioso, attento a ricalcare quasi mimeticamente le vicende più note del ministero di Cristo (dal battesimo per mano del cugino Giovanni alle nozze di Cana, dal discorso della montagna all’exploit nel tempio e la Passione) così da guadagnare punti in chiave programmatica ma perdendo parte del suo fascino.

 

Mezza stella in più per le fantastiche citazioni, anche inventate, piazzate per introdurre ogni svolta significativa nel racconto. La migliore a mani basse (“Gesù era un bravo ragazzo, non meritava questa merda”) viene da una canzone di John Prine dal titolo illuminante, “Jesus The Missing Years”.

7.6/10

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Sacré Bleu _Letture

       

No, non è il mio titolo preferito tra i quattro che ho letto del guascone di Toledo. Però quest’avventura maccheronica nel pittoresco mondo degli impressionisti francesi si è rivelata un discreto spasso: disimpegno ai massimi, direi quasi plateale,
ma i tanti bonbon in forma di citazione sparsi sul sentiero bastano a rendere perdonabile una piega fantasy al solito maldestra (e piuttosto ingombrante). Christopher Moore è questo, soprattutto negli eccessi: prendere o lasciare…

 

Parigi, 1890. La notizia della morte di Vincent Van Gogh a Auvers raggiunge alcuni amici dell’artista olandese a Montmartre. Lucien Lessard, fornaio e figlio di fornai sulla butte parigina, aspirante pittore sulle orme del padre pure dilettante, si dice scettico di fronte alla tesi del suicidio, ma le sue attenzioni vengono presto calamitate dal ritorno della bella fiamma Juliette, che due anni e mezzo prima era scomparsa nel nulla spezzandogli il cuore. Ugualmente traviato dal gentil sesso (e da ogni sorta di perdizione alcolica) e perplesso di fronte ai resoconti dal sud della Francia, il “piccolo gentiluomo” Henri Toulouse-Lautrec non si fida nemmeno della fanciulla dagli occhi blu oltremare che sembra tornata apposta per far uscire di senno il compagno di avventure con sedute di sesso sfrenato e pittura. A non quadrare, in particolare, è l’inquietante figura che sembra accompagnare la ragazza da lontano, e che gli si presenta con insistenza per vendere tinte “mille volte migliori” di quelle del celebre Papà Tanguy, punto di riferimento esclusivo per tutti gli Impressionisti. Cosa nasconde questo strano ometto storpio e ostile che si fa chiamare Il Colorista? Come mai Lucien sembra aver svenduto l’anima alla sua bella e di punto in bianco ha tagliato i ponti con tutti, al di fuori di lei? E perché l’enorme ritratto di Juliette cui si è dedicato in maniera forsennata pare averlo privato di ogni forza, fin quasi a ucciderlo?

 

Coadiuvato da un eccentrico professore tuttologo, Emile Bastard, e da un pugno di colleghi più anziani come Camille Pissarro e Auguste Renoir, quasi dei padrini per il giovane Lessard, l’incontenibile Henri riuscirà a venire a capo del mistero millenario che lega il commerciante di Colori e la sua pericolosa femme fatale, ridesterà l’amico dalla strana ipnosi in cui sembra caduto e libererà il mondo dall’oscura minaccia di un’entità maligna che da sempre sembra spremere gli artisti come tubetti, per far loro produrre opere d’arte che nemmeno ricordano di aver mai creato e che, puntualmente, svaniscono nelle sue grinfie. L’enigma del micidiale Sacré Bleu verrà finalmente sciolto ma la sua maledizione troverà nuovi artefici capaci di prorogarne la malia a fin di bene, alimentando un legame d’amore e insieme l’impulso vitale dell’Arte, destinati entrambi a durare per sempre.

 

“Tante grazie, ci hai rovinato anche la storia dell’arte”. Ci scherza apertamente nella postfazione il buon Chris, sufficientemente ironico nello sminuire la portata di un’opera in fondo spassosissima di cui è ben cosciente. Nell’ennesimo pastiche di una carriera ormai di tutto riguardo, l’autore di Toledo si è dimostrato all’altezza dell’esorbitante obiettivo che si era posto, riuscendo a confezionare un romanzo frizzante in perfetto Moore-style ma senza debordare nella pura farsa come talvolta gli è capitato. Divisi i fan, a giudicare dai commenti al libro, tra chi lamenta l’anomalia di un lavoro sicuramente meno straripante della sua norma, e altri che invece hanno riconosciuto e apprezzato il tocco caustico del romanziere statunitense anche in una novella per forza di cose più misurata. Il più grande merito di “Sacré Bleu” risiede nell’accuratezza della ricostruzione storica, certosina e fedele ai fatti reali sin nel più infimo dei dettagli. In tal senso risulta un accompagnamento alla lettura non indispensabile ma vivamente consigliato la guida online curata, pare, dall’autore stesso: una collezione di quadri, fotografie e nozioni in approfondimento, suddivisa per capitoli, perfetto strumento per consentire al fruitore di immergersi completamente nelle atmosfere immortali della Parigi Belle Epoque.

 

A proposito, è indubbio che l’impresa sia stata agevolata dal fascino di quell’universo così irresistibile, ma il tuffo nel demi-monde dei bordelli, dei caffè equivoci e dei pittori spiantati resta una ricostruzione sincera e del tutto attendibile. Assolutamente cruciale, per rendere il testo qualcosa più che una semplice goliardata tirata in lungo, è anche la superba caratterizzazione dei personaggi, con menzione speciale per un favoloso, istrionico e commovente Toulouse-Lautrec, in groppa alla sua adorata Fata Verde, con ogni probabilità assai vicino alla verità dell’artista. Meritevole anche lo sguardo affettuoso ma non scontato sui padri dell’impressionismo e sulla loro umanità: in prima fila, assieme a Monet e Renoir, quel Pissarro che fu caposcuola di grande talento, chiamato a recitare quasi in contrapposizione con il ben più celebrato (ma odioso, pare) Edgar Degas, di fatto il grande assente qui.

 

Come sempre in Moore, a stonare sono piuttosto le incursioni in un soprannaturale da operetta che facilmente indispone. Nel caso di “Sacre Bleu” il Nostro si salva comunque in corner, aggrappandosi a un immaginario perturbante per validare il quale è abilissimo a confezionare una patente di veridicità ancestrale. Non male anche l’idea della musa ispiratrice, schiava del padrone sbagliato e un po’ puttana di ogni vera promessa col pennello, così come l’aver puntato molto sulla facoltà obnubilante di una tinta da sempre considerata magica. Solo due spunti tra i tantissimi che inevitabilmente spiazzeranno i destinatari di queste colorate iperboli romanzate. Anche a questo giro, insomma, da Christopher Moore non potete che aspettarvi un fantasmagorico troiaio. Più raffinato di altre volte, comunque.

7.8/10

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Fool _Letture

       

Che stramaledetto spasso è farsi intrattenere da Christopher Moore! Quelli delle Edizioni Elliot lo hanno capito talmente bene che non si sono persi un titolo, se tralasciamo quel “Il Ritorno del Dio Coyote” edito da Sonzogno ormai una vita fa. Nella recensione che segue ho chiarito punto per punto perché questo pastiche sia irresistibile e compensi certi eccessi altrimenti ravvisati nell’autore statunitense, nel celebrato “Un Lavoro Sporco” ad esempio. Mentre divoravo entrambi i romanzetti non erano ancora usciti in Italia i rispettivi seguiti, “Il Serpente di Venezia” e “Anime di seconda mano”. Ci ha pensato la Elliott, come sempre, in tempi recenti. Sembrano promettere bene ma è difficile che sappiano entusiasmare come “Fool”, davvero Chris Moore al suo meglio.

Nel castello della Torre Bianca il vecchio re della fantomatica Britannia, Lear, ha deciso di farsi da parte e lasciare il regno a quella tra le sue eredi che mostri di amarlo con gli argomenti più convincenti. Tra le due figlie maggiori, le campionesse di perversione e crudeltà Goneril e Regan, è una bella sfida: con opportunismo da fuoriclasse, si servono delle lusinghe più spudoratamente false per gratificare il genitore, e il gioco paga. Non si abbassa al medesimo baratro di ipocrisia la più giovane Cordelia, che non nega all’anziano monarca lealtà e affetto ma nemmeno gli promette l’amore sopra ogni cosa, e per questo viene ripudiata, diseredata e costretta a un matrimonio senza dote con l’effemminato regnante di Francia. La partenza di quest’ultima, la messa al bando del più integerrimo dei cavalieri, il vecchio Conte di Kent, e l’esilio volontario del sovrano con un esiguo seguito di uomini in armi, spalanca di fatto le porte a foschi scenari e lotte intestine, con le sorelle pronte a strapparsi a vicenda l’altra metà del regno e l’infame figlio illegittimo del Conte di Glouchester, Edmund, pronto ad approfittare di una situazione generale non proprio trasparente per usurpare il titolo nobiliare e, se possibile, mettere le mani sulla corona dopo aver sedotto una a scelta tra le principesse fedifraghe.

Il solo ad aver intuito la gravità della situazione non è un nobiluomo, né un prelato o un magistrato, bensì il black fool, Taschino, il matto nerovestito, quella maliziosa e irriverente “sputacchiera di saliva ancora calda” che un po’ tutti a corte vorrebbero da tempo veder morto, forse perché la sua “finissima arte” sfugge regolarmente ai malcapitati bersagli della sua satira. Un po’ tutti, si diceva, tranne quei pochi che, in un modo o nell’altro, stanno appunto levando le tende. Anche a lui è riservata la medesima sorte, per fortuna, una temporanea fuga dal centro del pericolo, ideale per architettare con pochi fidati assistenti – l’amichevole apprendista minus habens Drool, il Conte di Kent ringalluzzito da un incantesimo, uno spettro in forma di fanciulla che dispensa enigmi in rima, una terna di streghe bonaccione, e il severo alter ego in miniatura Jones, picchiatore manifesto in stretta sinergia con la sua velenosa linguaccia – un ardito piano di riscossa che rimetta tutto a posto e regali all’ultima pagina il più scintillante degli “…e vissero felici e contenti”. Per la redenzione dei malvagi irrecuperabili, come per il riscatto di chi era marcio nonostante le apparenze, non ci sarà spazio ma l’amore, almeno quello, non potrà che trionfare.

E’ un Medioevo distopico ma incredibilmente attuale quello in cui si trovano a recitare – in certi frangenti, letteralmente – gli attori di “Fool”. Proprio come oggi ci sono due papi (uno “scontato” e uno “al dettaglio”) e il sesso è al centro di tutto, un’ossessione quotidiana declinata con gioiosa esuberanza, quasi come in una versione del Decamerone riveduta e corretta per restare al passo coi tempi. In quello che è un mirabolante minestrone di tòpoi shakespeariani – intrighi, sotterfugi, sensi di colpa, sprofondi a intermittenza nella pazzia, streghe e fantasmi, mutuati per ammissione dell’autore da una dozzina abbondante di opere del Bardo – Christopher Moore si prende la briga di riscoprire e nobilitare la figura del matto, da semplice dotazione o “divertimento ornamentale” di corte a metafora stessa di vitalismo e imprevedibilità, da cantastorie, giocoliere e diletto per infante (più o meno cresciute) a strumento del caso come nelle carte, il “numero zero” dei tarocchi che sfugge qualsivoglia categorizzazione e può rimettere ogni dettaglio in discussione, persino farsi motore dell’azione in un’esilarante black comedy e scatenare una guerra senza spade (ma con pugnali) e armate, con la sola forza dell’arguzia e di un bastone con la testa da giullare.

Moore è scrittore effervescente e pirotecnico come pochi, anche genuino con quel suo entusiasmo refrattario alle etichette e ai filtri di tanta letteratura di successo. Non sempre, tuttavia, i suoi pastiche pop grotteschi riescono gustosi e convincenti fino in fondo. Il deragliamento è eventualità sempre plausibile, il pericolo di indigestione kitsch molto più che concreto, per cui si rischia di ultimare la lettura dei suoi coloratissimi romanzi (uno per tutti, “Un Lavoro Sporco”) quantomeno provati dal bombardamento di rimandi alla cultura di massa. In “Fool” questo inconveniente è scongiurato dalla fluidità della sua penna, per una volta equilibrista con i fiocchi, e dalla felicissima maestria con cui questa piccola farsa è costruita e raccontata. Ma realmente cruciale, ancor più dei dialoghi efficacissimi o di una parodia che non si fa mai travolgere dall’amore viscerale per i suoi modelli, è il protagonista incontrastato. Lo scrittore statunitense è davvero sorprendente nell’animazione del suo genio fuori dalla lampada, incalzante nelle allusioni e salace negli affondi, ma sempre con una sottigliezza che gratifica e profuma d’intelligenza. Libertino, caustico, amarissimo: Taschino suona come una via di mezzo tra il Woody Allen migliore (quello anni settanta) e un buffone coprolalico e sessuomane à la Luttazzi dei bei tempi andati. Il bello, peraltro, è che non si esaurisce solo nella maschera comica. Supera lo stereotipo in agilità perché è figura umanissima con un triste passato alle spalle e, in barba ai connotati logori del matto, si muove nella storia con una lucidità che a tutti gli altri pare preclusa.

Un libro, insomma, divertentissimo. Il titolo ideale, forse, per chi voglia fare amicizia con Christopher Moore.

8.7/10

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Un Lavoro Sporco _Letture

       

Di Christopher Moore ho sentito parlare talmente bene che è giunta l’ora di approfondire. Me lo ha sponsorizzato, in particolare, un giovane libraio che sta dalle parti di casa mia, con così tanta enfasi e colore che ho già acquistato a scatola chiusa sette dei suoi libri. Il primo che ho letto, tuttavia, è questo “Un Lavoro Sporco”, preso in biblioteca con elevatissime speranze ma rivelatosi poi una discreta delusione. Per essere divertente, intendiamoci, è anche divertente. Solo a tratti però, e per merito di una spinta fanciullesca che nei giorni no (o con il ripetersi delle situazioni) non si è dimostrata proprio una chiave convincente. E’ un fumettone pop che guizza tra il registro macabro e quello comico con disinvoltura pur non mostrando particolari lampi di genio: una manciata di idee niente male (su tutte quella del protagonista nei panni di “agente del karma”) e qualche personaggio simpatico, a fronte però di caratterizzazioni un po’ troppo scontate che ne limitano decisamente il potenziale, mentre non mancano le ingenuità (per un autore di più di cinquant’anni questo non sembra proprio incoraggiante come dettaglio). Insomma, un primo incontro, il mio con Christopher Moore, non dei più esaltanti. Gli altri titoli sullo scaffale restano per ora in lista di attesa: non so quando capiterà l’occasione per un secondo appuntamento (con il celebratissimo “Vangelo Secondo Biff”, presumo) ma posso solo augurarmi che le cose vadano un po’ meglio che con questo “Un Lavoro Sporco”.

Perennemente inquieto e paranoico, il trentenne Charlie Asher si ritrova padre e vedovo nello stesso giorno. Il dramma per la perdita della moglie Rachel e l’ingrato compito di allevare senza grandi aiuti la piccola Sophie, in una San Francisco a dir poco turbolenta, mettono seriamente in crisi la sua proverbiale disciplina e il suo intero sistema di valori, costruito in anni di pura logica cartesiana applicata nel commercio di articoli usati e con la sola arma della propria fervida immaginazione di maschio “beta”. Non è tutto, però: non fossero già sovrumane le imprese quotidiane impostegli da una sorte non troppo benevola, Charlie scopre quasi per caso di essere diventato una specie di eletto, un “mercante” del riposo eterno o “agente del karma”, incaricato di riassegnare attraverso determinati oggetti reali o “vascelli” (che gli appaiono illuminati da un notevole bagliore cremisi) le anime di persone defunte o prossime al trapasso. Un vero e proprio “lavoro sporco” che contribuirà a dare un nuovo significato alla sua esistenza sconquassata (“Fatto alquanto ironico: prima di diventare la morte non si era mai sentito così vivo”) pur essendogli stato affidato con poche, stringate istruzioni, contenute in un volume (dal titolo sin troppo emblematico) rubatogli per giunta da un’addetta del suo negozio, Lily, adolescente problematica e nichilista con qualche turba di troppo in curriculum.

La nuova missione del mite e impacciato Charlie, resa impellente dalla necessità di non abbassare la guardia al cospetto delle riottose forze delle tenebre, segna l’avvio di una serie di mirabolanti avventure a caccia di oggetti particolarmente delicati: tra nuovi lutti in famiglia, sorprese legate a procedimenti di reincarnazione tibetana e il sempre ingrato compito di crescere tra mille insidie una figlia destinata a rivelarsi davvero molto, molto speciale. Nel cast entrano man mano molti altri personaggi volutamente sopra le righe: tra gli avversari un demone taurino, Orcus, e soprattutto la divinità celtica della morte, una triade di sboccatissime arpie delle fogne chiamata Morrigan, oltremodo coriacea; tra gli aiutanti il “collega” Menta Fresca, monumentale e conciato come il più eccentrico dei papponi, la sorella lesbica Jane, l’ispettore (e quasi guardia del corpo) Rivera e la misteriosa monaca buddista Audrey con il suo esercito di buffe creaturine-Frankenstein, oltre ai due giganteschi molossi infernali Alvin e Mohamed, giunti all’improvviso dall’oltretomba apposta per difendere la piccola Sophie.

Con tutte queste premesse, non dovrebbe essere granché difficile capire che razza di scrigno di invenzioni e spunti ora umoristici ora macabri sia questo “Un Lavoro Sporco” – chi conosce abbastanza bene Christopher Moore dovrebbe saperlo – pur con la sua tendenza a protrarsi un po’ troppo oltre il necessario e a diventare ripetitivo, prima di incappare in qualche banalità di troppo nelle battute conclusive. In certi frangenti le sue grottesche ma roboanti vicende riescono anche alquanto divertenti, ma quella di Moore resta almeno in questa occasione un’arguzia di profilo non troppo alto, innocua e un po’ fine a se stessa. L’autore si conferma un valido intrattenitore: indovina i colori chiassosi e orchestra non senza perizia (ma con eccessiva disciplina) una sarabanda narrativa stimolante e densa di spunti disparati dall’universo pop e non solo, senza peraltro andare mai più in profondità di uno scatenato festival circense sui temi del trapasso, dell’anima e delle sue derive materialistiche. Poco male in fin dei conti visto che, con una certa dose di indulgenza, la sua impresa può dirsi anche compiuta (la prevedibilità – ad esempio riguardo la figura del “Luminatus” – orienta in tal senso la sua riuscita nei confronti del lettore meno esigente, ma il clamore e gli entusiasmi generalizzati nei riguardi dello scrittore e di questo suo romanzo paiono comunque non giustificati. C’è una miscela troppo caotica di idee e generi, inzavorrata da caratterizzazioni caricaturali, al limite del fumetto, però l’insieme si fa leggere agilmente e con simpatia. Certo non siamo proprio dalle parti del genio o del capolavoro: quello di Christopher Moore è un patchwork votato al kitsch che fonde cultura di massa e miti arcaici in maniera straripante e volutamente tirata all’eccesso. Un po’ come in Palahniuk ma senza affogare nelle sue paludi di sconsiderato cinismo, riuscendo piuttosto a non smarrire la rotta fino alla fine grazie alle (forse troppe) cautele dell’intreccio e alla fermezza nel procedere come con il pilota automatico.

Gradevole insomma, ma su temi così stimolanti e da una penna pirotecnica come la sua era lecito attendersi molto di più.

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