Month: dicembre 2015

My friend Blue he runs the show…

        

E così alla fine alle esigenze di sceneggiatura ci si è piegato, Scott Weiland. Da quanti anni ci giravamo intorno, parlando del personaggio? “Questo è un altro che se ne andrà prima del tempo”, era quasi un mantra negli anni d’oro del grunge, per noi ragazzini inesorabilmente accattivati dall’alone maledetto di quel plotone di rockstar sul marcio andante, unica generazione a tenere testa a quella mitologica di fine anni sessanta. Col tempo l’adagio aveva perso vigore, con Scotty caduto fisiologicamente in disgrazia, un dimenticatoio in parte meritato tra colpi di testa e rinculi espressivi, in parte fatto scontare come una pena per molti versi ingiusta, appioppatagli in qualità di inarrivabile capro espiatorio. Di recente avevo affrontato il suo ultimo album solista, la nemmeno così infame opera prima intestata ai Wildabouts, e in quell’occasione avevo scritto di lui non senza affetto come di un sopravvissuto, lasciando intendere come la sua musica fosse ormai ben poco in sintonia con il presente. E’ facile immaginare che se ne fosse accorto anche lui, prima degli altri, ma in fondo lo aveva dichiarato anche nelle ultime interviste: la voglia ridotta al lumicino, continuava a salire sul palco solo per tirare a campare, pagare le bollette, il mantenimento dei figli e gli alimenti alle ex mogli. Un tramonto speso in piccoli club di periferia – lontanissima l’eco delle arene e dei sedici milioni di copie vendute con i primi due album degli Stone Temple Pilots – che comprensibilmente gli stava proprio stretto. La causa della morte non è ancora stata rivelata, i comunicati si limitano a un laconico “decesso durante il sonno”, ma ha forse ragione chi scrive che i bookmakers la sua overdose non la quotano nemmeno.

Sarebbe il finale più triste ma anche il più scontato, e nonostante questo mi auguro si tralascino i moralismi di rito: sul suo conto se ne sono sempre dispensati ben oltre la soglia tollerabile, con tutto che Weiland non si dannava certo l’anima per apparire simpatico a forza, e in fondo poi cosa conta? Personalmente mi sento affranto, come ogni volta che se ne va un artista che in qualche modo mi ha fatto sognare. Con lui è capitato tantissimo tempo fa. Ai tempi di “Purple”, il fortunato sophomore dei Pilots uscito col cadavere di Cobain ancora caldo, nel 1994. Tre anni dopo mi sarei tinto i capelli di rosso fuoco, perché quella era la sua linea all’epoca di “Interstate Love Song”, “Vasoline” e “Lounge Fly” e, si sa, gli adolescenti sono “leggerini” quando si parla di corredi estetici. La verità è che Scott aveva tutto per piacere ai più giovani: era obiettivamente un bel tipo, il physique du role rispettava tutte le direttive, aura maudit e storiacce di droga nel suo curriculum occupavano regolarmente le posizioni più alte assieme a una voce tra le più belle di quegli anni, persino più versatile di tante altre meglio accreditate. Un po’ orco à la Layne Staley, un po’ rocker a tutto tondo, talvolta crooner raffinato con in serbo qualche squisitezza soul-retrò. Per non farsi mancare nulla, poteva vantare anche uno stuolo infinito di detrattori, i tanti che non avevano avuto alcuna remora a liquidare il gruppo come una colossale presa per i fondelli. In quel periodo gli attacchi che la critica snob riversava sui malcapitati californiani, rei di avere cavalcato l’onda grunge per bieco opportunismo – loro che erano di San Diego e non di Seattle – nemmeno si contavano. Di certo la band resta tra le più malignamente denigrate di sempre, relegata spesso e volentieri nell’angolo come una congrega di lebbrosi, e dove non arrivarono gli imbrattacarte di professione fu qualche collega burlone a eccedere nello sberleffo (come dimenticare i Pavement di “Range Life”?).

        

Ri-ascoltate oggi, canzoni come “Plush”, “Meatplow”, “Silver Gun Superman” o “Seven Caged Tigers”, tra le altre, fanno sentire pienamente a posto con la propria coscienza chi, come il sottoscritto, non ha mai prestato troppa attenzione alle malevolenze di cui sopra. Fanno ancora una porca figura tutte quante, specie se ci si sofferma a considerare lo stato nauseabondo in cui versa il rock mainstream da un buon decennio e mezzo. Meno rivoluzionari dei Nirvana, meno dannati degli Alice In Chains, meno belli dei Pearl Jam, meno cazzoni dei Mudhoney, meno tenebrosi degli Screaming Trees e meno metallici dei Soundgarden. Meno tutto quello che volete, o forse semplicemente più adatti alle classifiche di vendita, però nel mucchio gli Stone Temple Pilots ci stavano eccome, a pieno diritto. Grazie ai fratelli DeLeo, autori validissimi, ma soprattutto grazie a un frontman con i fiocchi, vocazione da performer vero e sublime faccia di bronzo, quale era Scott. Che è stato tanti interpreti in uno, trasformista all’acqua di rose (ma efficace) fuori e sensibilità multiprospettica dentro: dalla cattiveria (simulata, più che altro) dell’hard-rock al granito di “Core”, al populismo ruffianotto e irresistibile di “Purple”, dalle digressioni kitsch-pop di certi brani del controverso (sottovalutato, tanto per cambiare) “Tiny Music… Songs For The Vatican Gift Shop” alle inattese gentilezze paterne di “Shangri-la Dee Da”, passando per gli eccessi un po’ tamarri della parentesi Velvet Revolver (la matrice per le ultime cose dentro e fuori i Pilots, purtroppo) ma anche per gli squinternati slanci sperimentali di un album sfortunatissimo come l’esordio solista “12 Bar Blues”, fascinoso, avanguardista e accattone, con più di un passaggio indimenticabile (anche per merito dei produttori Daniel Lanois e Blair Lamb).

Dal vivo l’avevo intercettato solo cinque anni fa all’Alcatraz, nel tour della reunion della sua band principe: appesantito in modo preoccupante, quasi prossimo all’ennesimo licenziamento della carriera e, prevedibilmente, drogato come un cavallo. Sul filo della nostalgia canaglia, fu comunque un live intenso e divertente, mendace eppure languido nella promessa di una rinascita che non sarebbe mai venuta. In fondo ha avuto moltissimo Weiland, e tutto o quasi ha dissipato per debolezza e per scriteriata aderenza ai canoni di genere, una personale via crucis che lui ha sempre portato avanti con ostinato masochismo. A differenza di tante altre anime del medesimo circo, tormentate quanto lui se non di più, questo spreco evidente non gli è però mai stato perdonato. L’accusa di cinismo e falsità, gratuita ma immancabile nel suo caso, ha con ogni probabilità fatto lievitare un conto di per sé già salatissimo. Qualcuno, c’è da starne certi, gli avrà fatto una colpa anche per non essersi immolato ai bei tempi, per aver disatteso i pronostici infausti perché in fondo a quella pellaccia ci teneva. Beh, è oltremodo amaro da rilevare, ma l’insostenibile crepuscolo in cui sentiva d’essersi cacciato non rappresenta certo la più agevole delle vie di uscita, e la sofferenza patita nel declino lento e inesorabile, lontano dai riflettori più abbaglianti, merita comunque rispetto. Dettagli che contano poco, ora che se ne è andato anche lui. Per colpa della compagna fetente di tutta una vita o, chissà, dormendo davvero il sonno dei giusti, quasi si trattasse di un pietoso risarcimento per i troppi travagli, per le infamie reiterate e per il non essersi rivelato poi così caro agli dei: quarantotto anni, età stronzissima per congedarsi. Troppo vecchio per morire giovane, troppo giovane per morire vecchio.

Fai buon viaggio Scotty, ci mancherai.

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The Ghost of the Mountain

       

Questa è sorniona e curiosa, ma abbastanza divertente. Mi sa che in quell’agosto del 2013 non era uscito un emerito fico, se mi sono trovato costretto a scrivere dei Tired Pony. Di certo questa anti-recensione nemmeno mi ricordavo di averla scritta, ma leggerla ora mi ha regalato almeno un paio di sorrisi. A ben vedere è l’ennesima riflessione sui R.E.M., sulla loro parabola discendente, sull’uscire o meno con dignità. Ne è uscito un pezzo del tutto informale su due musicisti che ho sempre amato molto e che hanno deciso di percorrere strade completamente diverse per congedarsi dal successo. Certo, sarebbe stata l’occasione per parlare del sophomore del supergruppo guidato nominalmente da Gary Lightbody, uno che – volendo essere sinceri – non mi ha mai detto un cazzo. Nel caso di Monthlymusic questo è rimasto a lato, spunto più che marginale. Ma ho corretto un po’ il tiro su Ondarock, dove ho analizzato (si fa per dire) l’album un po’ più nel dettaglio. Dubito sinceramente ci siano fan dei Tired Pony interessati ad approfondire ma, nel caso, quell’altra analisi giace qui.
 

Ceci n’est pas un compte rendu

Una catasta di considerazioni lasciate fuori a prender aria, semmai.
Pensieri affettuosi invecchiati in fretta, nei lunghi attimi di confino tra una scintilla e l’altra.
E quando questa s’accende, eccomi ancora una volta lì, a soffermarmi su Bill e Peter. Occasioni molto rare ormai, un tempo frequenti quanto gli sguardi al calendario sul muro della mia camera, dove Mr. Berry e Mr. Buck trovavano spesso spazio in ampi ritratti giovanili. O quei loro passaggi invocati come benedizioni sul mangianastri, sul walkman, sullo stereo. Sul videoregistratore anche, dovunque mi riuscisse di raggiungerli.
Bill e Peter sono stati i prediletti in una compagnia di beniamini senza pari. Escluso Michael, certo, voce carsica e feticcio scapigliato al di fuori di ogni catalogo. Tra gli umani però c’erano loro, soldatini umili e compagni spassosi, destinati a restare intagliati nel cuore. Bill la scimmia, che sperimentò ogni sorta di droga non letale prima di legare con Mike e di regalare a me, almeno a me, un modello inarrivabile di sezione ritmica. E Peter il fratello maggiore, quello da cui farsi consigliare e prestare i dischi, quello che mai ti avrebbe bucato le palle, in senso letterale e figurato.
Del batterista trattengo con piacere la curiosità di un privilegio. Prescindendo dalle pallide comparsate di copertina per i tre veterani agli ultimi fuochi della carriera, è stato proprio lui il solo a venire immortalato sulla cover di un loro album. Lo sguardo malinconico incorniciato da quel suo sensazionale ponte ciliare e, appena sotto, un paio di bisonti virati in seppia. Spettri di una probabile estinzione dalla ricca sfilata della vita? Non è dato saperlo, ma gli incalliti dietrologi di “Abbey Road” e dello scalzo rimpiazzo di McCartney avrebbero anche potuto spenderci qualche riga, volendo.

Bill amava concedere il pass per concerti a una torma di dinosauri in plastica amici suoi, per esorcizzare forse le ombre del proprio declino artistico. Ma potrei sbagliarmi, e sarebbe Peter quello che stipava all’inverosimile i cocuzzoli degli amplificatori per far vibrare di passione triceratopi e stegosauri, finalmente alleati. Sia come sia, proprio nel potere allegorico dei grandi rettili risiede un ultimo nesso tra i due, oggi così distanti. A un estremo Bill, chiamatosi fuori al momento giusto per non privarsi dell’opportunità di una seconda vita. Da comune mortale. Da farmer in Farmington come recita Wikipedia, anche se si stenta a crederci. Dalla parte opposta Peter, che è rimasto invece fino all’ultimo e nemmeno avrebbe chiuso bottega, immagino, fosse dipeso da lui. Ha recitato con abnegazione persino commovente la parte del sopravvissuto, un po’ come i R.E.M. degli ultimi dieci anni e più, quelli senza Bill insomma. Più che interpretarla l’ha introiettata, quasi si trattasse di una missione. Con sincerità, virtù che nessuno si sognerebbe di contestargli, ma anche con patetica prevedibilità e occhi ogni giorno più tristi.

Non ha mai smesso i gilet scuri e le orribili camicie da cowboy del ragazzino lungagnone e magrissimo approdato ad Athens dalla California, quello che lavorava al negozio di dischi dalle parti dell’Università. Il fisico però non è stato altrettanto perseverante, integerrimo né collaborativo, e oggi Buck ha l’aria di un vecchio levriero afgano, mogio e appesantito. Nella band la sua chitarra aveva perso spazio e smalto in egual misura: non più il jingle-jangle byrdsiano che rese classico il marchio, né le sventagliate aggressive degli album più impegnati o la scorpacciata di tremolo ed e-bow lungo tutti i ’90. Al loro posto, una manierata controfigura del felice populismo acustico sfoggiato in quel paio d’anni di frastornante sovraesposizione planetaria – il segmento lampo “Out of Time” —> “Automatic For The People” – costretta a sgomitare oltretutto col pianoforte sempre più ruffiano di Mills e con il fluo pacchiano della sua scorta di sintetizzatori.

Ridimensionato in casa ma riluttante per carattere al capriccio polemico, Peter ha silenziato la sua bulimia di musicista insaziabile ricercando gratificazioni anche minime in un’operosa marginalità collaterale. Dai Minus 5 ai Venus 3 ai Baseball Project. Da Ken Stringfellow a Robyn Hitchcock a Steve Wynn. E dai Tuatara ai Tired Pony, sempre un gradino più in basso e sempre in compagnia del quasi-R.E.M. Scott McCaughey. Particolarmente crudele il Nomen omen dietro l’ultimo progetto, con un pony stremato al posto del baldanzoso purosangue di ieri. Dopo la discreta confessione della prima fatica – “Il posto da cui siamo scappati” – e lo sfizio di un esordio solista a cinquantasei anni suonati, arriva oggi un sophomore destinato a smorzare ulteriormente gli entusiasmi degli affezionati. Un prodotto gradevole, confezionato con garbo e attento alla calligrafia. Ma anche troppo timido e immacolato, laddove il tocco ruvido non passerebbe certo per una pretesa spropositata. Se perfino una canzone intitolata “Sangue” suona minata in partenza dall’anemia, fingere che sia tutto a posto varrà quasi quanto una medaglia olimpica del metallo più prezioso. Il grosso problema di questo “The Ghost of the Mountain” è che tutto sembra costruito per assecondare la levigata malinconia e quel tono da crooner al velluto del frontman belloccio, Gary Lightbody, col gruppo sacrificato alla stregua di una lussuosa appendice. Per Peter è lecito parlare di umiliazione, anche se lui non lo ammetterebbe neanche sotto tortura. Si limita a firmare qualche autografo con la Rickenbacker, prima di scomparire nel marasma biancorosso di coretti e organi vaporosi, intruppato senza fiatare come un beffardo Wally alla fiera sui Docks. Gli arpeggi leggendari della sua elettrica ridotti a semplici orpelli decorativi, un motivo bluastro sulla tappezzeria di un anonimo alberghetto in provincia.

Non me ne voglia Buck, se scelgo di usare contro di lui le parole del primo titolo in scaletta.
I don’t want you as a ghost.
Non abbiamo bisogno di surrogati, di riempitivi, di talenti sbiaditi e consumati. Non vogliamo anime dannate dalla beatitudine fasulla di sogni protratti troppo a lungo. L’album dei ricordi è già completo, ed è bellissimo. Quasi quanto un musicista famoso che si reinventi contadino.

Ma questa, in fin dei conti, non è nemmeno una recensione. Soltanto un cruccio personale senza alcuna impellenza. Lo scherzo di una memoria che si sia dimenticata di quanto può fare cilecca. O una preghiera senza destinatari nelle alte sfere, se preferite.
E finisce qui.

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