Denti Bianchi                                                 _Letture

     

E’ stato indiscutibilmente un caso letterario quello dell’esordio di Zadie Smith, ormai più di dieci anni fa. Arrivatoci con immancabile ritardo, mi vedo qui costretto a ridimensionarne la portata pur omologandomi alla critica nel sottoscrivere gli attestati di stima e simpatia per la giovane autrice londinese. Il romanzo è carino, corposo ma fluido, piacevole come passatempo non troppo impegnativo ma nemmeno banale. Certo non è un capolavoro, come qualcuno ha avuto l’ardore di definirlo. Zadie è tutto sommato brillante, riesce a tenere vivo l’interesse del lettore dalla prima all’ultima pagina dando forma ad una narrazione a incastri, fatta di diversivi anche senza risultare cervellotica o spocchiosa. Certo è pur sempre l’opera di una ventenne (la prima versione è di metà anni ’90) per quanto promettente, con tutte le ingenuità del caso ma anche col la sostanziale baldanza di chi è troppo genuinamente impulsivo per cedere all’arma (a doppio taglio) del cinismo e del calcolo. Apprezzabile, pur senza entusiasmare.

C’è Archie, aspirante suicida che riesce a dare un senso alla propria grigia esistenza solo ad un passo dalla resa, ma non sa sconfessare per questo la propria patologica ritrosia a schierarsi e prendere decisioni definitive. C’è Clara, sfuggita per un soffio alla follia confessionale della predestinata nella fede, solo per votarsi con rassegnata devozione al culto degli ignavi celebrato dal marito. C’è Samad, immigrato bengalese drammaticamente ancorato ad una personale visione dell’Islam e ad un orgoglioso passato di prostrazione che non ammette i compromessi e le comode seduzioni dell’integrazione. C’è Alsana, che rappresenta una versione più materna e leggermente meno inflessibile del medesimo retroterra culturale.

E poi ci sono i loro figli. Irie, adolescente alla ricerca di una difficile identità meticcia. Millat, bastiancontrario e seduttore sedotto da troppi cattivi maestri. E Magid, talento zen splendidamente sopravvissuto ad ogni tentativo di indirizzarne le sorti.

Il libro vive di questa irriducibile dialettica tra due universi impermeabili l’un l’altro e l’incomunicabilità si impone come vero nodo cruciale, nonostante la marea di parole mandate a schiantarsi da questa e da quella parte senza che nulla di concreto possa essere costruito al di là di un blando amore.

Da un lato appare emblematica la prospettiva di Samad, con il senso di frustrazione e smarrimento di chi, sradicato, non è più stato in grado di mettere radici: <<Quando si entra in questo paese si fa un patto con il diavolo. Si consegna il passaporto, si riceve un timbro, si vuole guadagnare qualcosa… si comincia… ma allo stesso tempo si vuole tornare indietro! E chi vorrebbe mai restare? Freddo, umido, miseria, cibo orribile, giornali spaventosi… E chi vorrebbe mai restare? In un posto dove non si è mai benaccetti, ma solo tollerati. Appena tollerati. Come se si fosse degli animali diventati finalmente domestici. Chi vorrebbe mai restare? Ma si è stretto un patto con il diavolo… ti trascina dentro e all’improvviso non sei più adatto al ritorno, i tuoi figli diventano irriconoscibili, non appartieni più a nessun posto>>. Dall’altro resta indelebile lo sfogo finale di Irie contro la trappola inaccettabile dei particolarismi meschini, del passato ereditato a forza, della tradizione subita come qualcosa di inevitabile: <<Non questo interminabile labirinto di stanze presenti e stanze passate e le cose dette dentro quelle stanze dieci anni fa, e la merda storica di ognuno spiaccicata ovunque. Loro non continuano a ripetere regolarmente i vecchi errori. Non ascoltano sempre vecchie puttanate. Non si preoccupano di ciò che fanno i loro figli, finché si comportano in modo, sapete, ragionevolmente sano. Felice. E ogni singolo giorno del cazzo non è un’enorme battaglia tra chi sono e chi dovrebbero essere, ciò che erano e ciò che saranno>>.

Inutile dire come dal perenne confronto tra queste due filosofie di vita i primi (e soprattutto il vecchio Samad Iqbal) siano destinati ad uscire perdenti e feriti. Le simpatie della giovane autrice sono ovviamente rivolte ai secondi, all’insopprimibile bisogno di libertà nel proprio percorso esistenziale che solo questi ultimi (cui si può aggiungere l’altro ribelle – in fuga dalle storture dell’altrettanto rigido razionalismo scentista genitoriale – Joshua Chalfen) sanno rivendicare con furore autentico. Irie in particolare, vero alter ego della Smith, pare l’unico personaggio realmente dotato di buon senso e di una visione lucida sulle mille contraddizioni del presente. La grettezza e l’ottusità degli adulti sono comunque stemperate dal taglio bonario e dallo stile agile, umoristico anche, dall’intrecciarsi di storie e di istantanee scattate nel passato dei protagonisti ed utili ad umanizzarne le asprezze caratteriali, i difetti. Zadie ama i suoi personaggi e li rende caricature inoffensive nei loro sbagli, mai odiose, anche se questo instancabile ricorso all’affabulazione finisce con l’appesantire il romanzo forse più del dovuto facendogli pagare qualcosa in termini di incisività.

‘Denti Bianchi’ racconta una realtà già ampiamente trattata e lo fa senza particolari virtuosismi letterari, anche se la viva passione dell’autrice, l’entusiasmo e la partecipazione trattenuti a stento riescono in parte a riscattarlo e a renderlo se non altro gradevole. In tal senso funziona discretamente come affresco corale sulle moderne classi medio-basse della società inglese, su gioie e dolori del melting-pot, sull’integrazione e la (in)tolleranza, perché diverte con garbo senza voler imporre verità definitive e perché non rinuncia a lasciar trasparire quel sottile velo di amarezza che ne conferma lo spirito genuino.

Non entusiasmante, si può leggere, nonostante la messe di refusi ed errori della versione italiana.

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