L'arcobaleno della gravità  _letture

 

Ed ora qualcosa di completamente diverso. Beh no, non proprio. Con questo post intendo inaugurare in effetti una nuova sezione, quella delle letture, anche se il criterio sarà il medesimo già adottato per i dischi recensiti altrove. Ci starebbe un preambolo più o meno ampio sul mio rapporto con i romanzi, ma cercherò di farla breve per non annoiare. In passato ho sempre letto parecchio (alle medie e al ginnasio ero un mostro in questo senso) ma con gli studi universitari ben avviati questa passione ha subito uno stop brusco quanto non ben motivato: manuali e libri di testo, saggi in abbondanza, ma letteratura sempre meno e con sempre minor entusiasmo. Dopo la laurea lo zero assoluto, solo musica a getto continuo. Bene, la scorsa primavera ho ricominciato timidamente a leggere e non mi sono più fermato. Devo ammettere che ho scelto di trattarmi discretamente bene: il libro del "nuovo inizio" è stato la 'La versione di Barney', che volevo affrontare sin dai tempi del suo imprevisto boom italiano, quindi dieci anni o giù di lì. Tra gli altri mi sono dilettato con opere veramente ottime come 'La Schiuma dei Giorni' di Boris Vian, 'Eureka Street' di Robert McLiam Wilson e 'Hey Nostradamus' di Douglas Coupland, autori che non conoscevo minimamente. Poche le delusioni – e comunque parziali – legate a grossi calibri come Houellebecq o Palahniuk di cui avevo sempre sentito dire cose strepitose. Con 'Corri Coniglio' di Updike ho invece iniziato ad affrontare alcuni classici del romanzo americano del dopoguerra, annotati nella mia agenda da tempo immemore. La vera impresa in tal senso è stata rappresentata da questo colosso, un testo che mi feci regalare anni fa e che iniziai a leggere due o forse tre volte, senza riuscire mai ad arrivare neanche alla centesima pagina (su quasi mille, con carattere microscopico e margini striminziti). Avercela fatta ora in un mese scarso, per giunta con buona continuità d'impegno anche nei momenti di maggior pesantezza mi ha convinto della bontà di questa mia fase di rinnovato interesse per il romanzo. Non credo che ricadrò in un buco di alcuni anni come l'ultima volta, anzi. Con 'Gravity's Rainbow' è mia intenzione fissare su questa pagina anche dei brevi resoconti dei testi appena terminati, come da mia recente tradizione su Anobii. Se è vero che io non posso spacciarmi per critico musicale nonostante la già discreta mole di recensioni e live report pubblicati online su vari siti negli ultimi quattro anni, è assolutamente ovvio che non possiedo alcuna qualità né quelle necessarie competenze che facciano di me un critico letterario. Ho scritto e scrivo questi pezzi (i vecchi evito di riportarli qui ma lo farò con i nuovi d'ora in avanti) solo per puro piacere personale, come traccia della lettura o per ricordarmi in futuro cosa mi aveva colpito di un determinato romanzo o autore. Scrivo da dilettante, come sempre, e questa è la vera linea comune con le recensioni di dischi e concerti. Un ultimo chiarimento prima del pezzo scritto per Anobii (purtroppo non lo si può linkare direttamente. Il link dalla prima immagine porta direttamente al mare magnum delle recensioni in italiano sull'opera di Pynchon): non mi sento di consigliarlo anche se è di un capolavoro che si tratta indubbiamente. E' un'opera che richiede una pazienza assoluta nel lettore, un libro monumentale e forbitissimo che tende a sviare, illudere, annebbiare, per poi tornare sul sentiero e divagare nuovamente, lasciando una serie di impressioni più generali, un senso diciamo, ma non permettendo di cogliere una miriade di riferimenti culturali a tutto campo. Può essere spossante, sgradevole anche. Nella parte finale deraglia evidentemente dai binari della logica ma non smette di rivelare un suo oscuro fascino, un personale magnetismo. Ed è scritto bene, veramente bene. Se non li conoscete comunque, ed avete voglia di abbandonarvi a qualcosa di non così ferocemente impegnativo, approfittate dei primi quattro titoli che ho citato più su. Difficilmente resterete delusi.

Opera apocalittica e dissacrante, autentico Moloch letterario, ‘Gravity’s Rainbow’ è considerato a ragione un capolavoro tra i romanzi postmoderni. Servendosi di una scrittura farcita, stracolma di citazioni, motti, arguzie, poesie e canzoni, una prosa febbrile – discontinua e coltissima – che stordisce ed affascina, Pynchon delinea un personale affresco simbolico su vecchi e nuovi miti, sulla guerra fredda, sulla paranoia individuale e collettiva come specchio di un irriducibile baillamme emotivo e sociopolitico, sull’identità negata e sulla prevaricazione che condiziona ogni forma di rapporto tra esseri umani. Gli insistenti richiami alla storia (meglio, alle storie), alla scienza ed alla tecnologia, sono solo il vestito di un testo che in realtà intende raccontare il continuo presente di un’umanità dal passato incerto e senza alcun futuro, anche se immortale: abbruttita, brutale, infelice e mai veramente libera. Come la lampadina Byron, capace di una presa di coscienza su di sé eppure condannata all’impotenza, al rancore e alla solitudine.  Le prime tre parti del libro (Londra sotto i razzi tedeschi, vicende al Casinò Hermann Göering, peregrinazioni nella Zona) sono costruite da Pynchon per accumulo dando l’illusione di un disvelamento della realtà che sarà poi negato dall’incredibile vortice scatenato nell’ultimo capitolo. La trama è costantemente tradita, resa incerta da uno sproposito di ellissi, ubriacata dall’aprirsi frenetico ed improvviso di sottotrame, di sottotracce, di lunghe parentesi nelle parentesi. Il bello della scrittura dell’autore sta proprio in questa invadente ed inebriante confusione di spunti, sempre e comunque ricondotti all’origine del senso, strappi immancabilmente ricuciti o rabberciati con una bella sfilza di topoi (in guisa di toppe), avendo cura di guidare il lettore, di tirare sempre le fila della sua attenzione, di aiutarlo ad uscire dalla pazza foschia alzatasi nella messe di rimandi profusa. Assumono i contorni di lunghe narrazioni oniriche e minacciose queste prime tre parti, realtà sospese, illusorie, policrome e cangianti, come l’arcobaleno appunto, un teatro dell’assurdo in cui però tutto e tutti sono strettamente collegati da un unico filo, dove quasi nessuno muore e chi muore è come obbligato a riemergere in qualche delirante seduta spiritica. Poi nell’ultima parte questo sfiancante gioco di digressioni, di specchi deformanti, condito dall’immancabile humor caustico e dalla sublime predilezione per il grottesco si chiude dopo l’impennata, avviandosi ad una rovinosa caduta verso il caos. Un crollo progressivo ma repentino, inesorabile, con lo sfarinamento della trama e delle pur labili certezze del lettore in un marasma che certifica ed elegge a modello la nullità dei confini tra passato e presente, le già fragili separazioni tra plausibile e fantastico, miscelando in un mixer allucinato i tratti portanti dei vari personaggi principali con l’imporsi della gravità che trascina il razzo al suolo. Non c’è inizio, non c’è fine. Ogni logica è sconfessata insieme al principio di causalità – in barba a Pavlov e al suo modesto devoto officiante Pointsman – e inevitabilmente ci si perde senza più appigli validi. Tyrone Slothrop è quanto di più simile ad un protagonista in questo ribollente mosaico di figurine di carta, ma forse è solo uno specchietto per allodole, schiantato in una impietosa frammentazione identitaria che i suoi tanti nomi (lo Slothrop presente e i suoi avi-duplicato, Rocketman, Ian Scuffling, Max Schlepzig, il mitico maiale Plachazunga) evidenziano e che la sua picaresca odissea nella Zona non solo non può colmare ma rende anche quanto mai drammatica ed evidente, irrisolvibile. Un po’ come questo titanico capolavoro, difficilissimo da assimilare, impossibile da trattenere.
 

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