Il Giovane Holden _Letture

       

Ok, questo è un titolo buono per tutti e mi permette di andare sul sicuro. A essere sinceri io ci sono arrivato parecchio tardi, ben oltre la trentina diciamo, ma è che negli anni giusti a scuola mi venivano proposte altre cose (anche menate purtroppo) e, beh, questo superclassico è rimasto ai margini. Recuperato con tutta calma in una fase in cui l’idealismo dei giorni belli è per me ormai morto è sepolto, l’ho gradito come agile e intelligente passatempo (letto in due o tre giorni), ne intuisco la portata evocativa sui più giovani ma non mi sentirei di farne un titolo così imprescindibile, non ai livelli ai quali si è spinta la sua mitizzazione. “Di formazione” per antonomasia, “Di rottura” e “in anticipo sui tempi” senz’altro, ma forse non il capolavoro epocale di cui si parla sempre. Ad ogni modo va letto, possibilmente da adolescenti, se non altro per sincerarsi che si ha un cuore e non si può restare insensibili ai tormenti di un protagonista cucito su misura per ognuno di noi.

 

Adolescente di buona famiglia, Holden Caulfield ha in tutto e per tutto i connotati dell’anima inquieta. Si è appena fatto cacciare dall’ennesima scuola prestigiosa, l’istituto Pencey di Agerstown in Pennsylvania, dove da decenni garantiscono di “forgiare una splendida gioventù dalle idee chiare”, e appare oltremodo evidente che con lui la promessa è andata disattesa. Bocciato in quattro materie su cinque, refrattario per indole al perbenismo di facciata di quel mondo conformista, come all’ipocrisia feroce dei suoi squallidi compagni di collegio (lo sciupafemmine Stradlater, l’insopportabile Ackley), deve inventarsi un modo per ammazzare il tempo che lo separa dalle vacanze di Natale, quando potrà mettere al corrente i suscettibili genitori del proprio fallimento senza suscitare un pandemonio con tutti i crismi. Decide quindi di prendere un treno per New York dove per un paio di giorni proverà a placare la propria irrequietezza e a riorganizzare le idee, pianificando magari un viaggio di sola andata verso quella California in cui già vive il fratello maggiore D.B., un romanziere che ha scelto di prestarsi (svendersi, secondo il nostro protagonista) al cinema e campa scrivendo sceneggiature. Le sue peregrinazioni nella Grande Mela, notturne più che altro, non andranno tuttavia come da programmi: regolarmente sbeffeggiato nei bar per l’incapacità di passare per un maggiorenne, rapinato in albergo da un inserviente e una prostituta, vedrà naufragare il sogno di congedarsi in modo romantico dalle poche persone che non disprezza (il professor Antolini, l’adorabile sorella minore, Phoebe) e otterrà un secco rifiuto anche al folle progetto di una fuga a due con l’amica Sally Hayes, che pure reputa, per intelligenza, non certo all’altezza del suo vero amore, l’ormai irraggiungibile Jane Gallagher. Il sogno di una vita diversa, da un presente di costante insofferenza come da un futuro regolato che altri sembrano già aver pianificato per lui, deve essere messo da parte, come al solito. Per sempre, forse. Oppure chissà, per l’ultima volta.

 

“The Catcher In The Rye”, all’apparenza, non è altro che un piccolo romanzo. Appena due giornate nella vita del giovane Holden Caulfield, raccontate in una spigliatissima prima persona dall’eroe stesso, come istantanea di uno smarrimento esistenziale nell’attimo cruciale del passaggio alla vita adulta. Il fatto che Jerome David Salinger vi abbia dedicato i dieci anni più intensi della sua carriera di narratore, portando con sé il manoscritto e perfezionandolo persino nei giorni dello sbarco in Normandia, della battaglia delle Ardenne e della liberazione del campo di Dachau, costringe tuttavia a considerare quest’opera qualcosa di più significativo che non un semplice romanzo di formazione tra i tanti. Sono almeno due le qualità che ne hanno decretato il successo, una fortuna che al momento, a oltre sessant’anni dalla pubblicazione, proprio non sembra conoscere flessioni. In primo luogo il suo aver saputo anticipare una rivoluzione – del pensiero, prima ancora che del costume – che si sarebbe concretizzata solo un paio di decenni più tardi. A ben vedere è proprio questa turbolenza implicita e sotterranea ma strisciante a rendere “The Catcher In The Rye” un libro “di rottura” rispetto a testi analoghi ma più datati, in fondo figli del loro tempo (mi viene in mente il meraviglioso “Grande Meaulnes” di Alain Fournier, un titolo da cui Salinger non nascose d’esser stato influenzato). E poi, beh, va rimarcato il perfezionismo nella resa introspettiva di un protagonista che pare vivo, nel quale lettori di ogni paese e di ogni età hanno creduto di potersi specchiare per riconoscervi il loro stesso, irriducibile, senso di inadeguatezza. Holden è il ribelle, il sognatore che ognuno di noi è stato e magari continua (o si illude di continuare) a essere. Intelligente, spigoloso, bugiardo patologico, insofferente alla stupidità che si cela dietro ogni forma di autorità, e nel fondo melmoso del conformismo più bieco. La sua durezza è un arma di difesa nei confronti di un mondo, e di una rassegna di comportamenti, che lo “sconcertano, impauriscono e nauseano perfino”. Sotto sotto, però, ha un animo gentile ma ferito, pieno di buchi, incapace di rinunciare alla propria innocenza per abbracciare il cinismo e la ragion di stato dei grandi. E’ un intellettuale in boccio, capace di grandi slanci morali e ideali, eppure incline agli scivoloni per ingenuità, a un infantilismo quasi grottesco nel suo contrasto col volto di ghiaccio del reale. Ma è anche un depresso cronico destato a tratti da barbagli di assoluta bellezza, e il bisogno di entusiasmarsi per quanto di più puro e semplice è il suo carburante emotivo.

 

E’ un adulto precoce, questo Holden Caulfield, ancora imprigionato in un ragazzino? O piuttosto un ragazzino impreparato al grande salto, nel corpo di un quasi adulto? Sia come sia, la sua umanità è la sua forza, quella sua imperfezione “schifa” – come la bollerebbe lui – un bagliore da cui è inevitabile lasciarsi conquistare per “restarci secchi”, a momenti. Un po’ come da quell’acchiappatore nella segale che è l’unica incarnazione, per sua stessa parola, che gli piacerebbe assumere: un individuo votato al bene, una persona retta e utile, specie nei confronti dei più deboli. “L’uomo immaturo vuole morire nobilmente per una causa. L’uomo maturo vuole vivere umilmente per la stessa”. Il passo terrorizza il giovane protagonista, uno che sembrerebbe piuttosto voler “morire umilmente e per nessuna causa”. Ma anche questo non è vero, perché ci sono cose che il Nostro ha comunque a cuore e lo costringono a non gettare la spugna: il ricordo del fratello minore Allie, morto di leucemia, oppure la sorellina Phoebe, l’integrità e la purezza che quello scricciolo loquace incarna e che in sé non riesce più a vedere. Anche le splendide pagine degli incontri furtivi tra i due, uno scrigno prezioso per la tenerezza che emana, restano in un certo senso irrisolte da un finale che, molto opportunamente, non scioglie alcun nodo. Alla fine l’anomalia di Holden sarà forse riassorbita. Psichiatri individueranno e colmeranno il suo vuoto, e il posto col suo nome nella Ivy League sarà occupato nonostante tutto, per senso di responsabilità magari. Non lo sappiamo, ma possiamo pur sempre sperare che non vadano a finire così le cose, in questo modo “schifo”.
Dopotutto questa non è la vita, è solo un romanzo. Per fortuna.

8.7/10

0 comment