I’m never gonna live again

Premessa obbligatoria: questo blog non ambiva ad essere una collezione di coccodrilli. Non è nato con l’intento di articolarsi in una mesta sequenza di pagine di necrologi, anche se potrebbe dare quest’impressione. Quando ho iniziato pensavo di scrivere qualche menata non troppo formale su album recenti, credevo sarei stato capace di resistere alla tentazione di parlare del passato, ma la realtà concreta molto spesso costringe a fare i conti con storie che si immaginavano dimenticate e questo porta quasi inevitabilmente ad immalinconirsi. Purtroppo è proprio così che si sta sviluppando suo malgrado il mio diario minimo, stramaledizione! Come recitava quel film? “Chi è che orchestra tutto questo? E’ il diavolo, probabilmente…”. Mi viene da sorridere perché alla fine sono io che ci casco. Per un motivo o per l’altro non sto più scrivendo di questi fantomatici dischi dell’ultima ora, di quelle gustosissime promesse del sotto-sottobosco alternativo che con ogni probabilità resteranno puntualmente inespresse. Però non sarei in pace con me stesso se non spendessi due parole per ricordare un grande musicista che se ne va per sempre. E’ un periodo particolarmente sfortunato questo, visto che – senza che ce lo si aspetti – in tanti se ne stanno andando come in punta di piedi. Oddìo, fosse per i cari colleghi d’ufficio miei coetanei, tutte queste morti improvvise ed insopportabili non sarebbero altro che semplici curiosità raccontate da “quello che ascolta tutta quella roba che conosce solo lui”, tanto per restare a frasi realmente udite dalle mie povere orecchie. Non ho scribacchiato un omaggio per Jay Reatard e Lux Interior, ma non escludo di ricordarli almeno in breve nei prossimi mesi. Con Chesnutt e Linkous ho sentito la necessità di fissare nero su bianco un’emozione a caldo. Speravo di non dovermi confrontare nuovamente con resoconti di questo tipo ma il cuore stanco di Alex Chilton evidentemente non era d’accordo. Non ha neanche voluto saperne di scoppiare su un palco come quello di un Mark Sandman, offrendomi il più comodo degli assist per una narrazione tra le più enfatiche e visionarie che si siano mai viste. E’ una tristezza che un autore e cantante immenso quale è stato lui si spenga nella più totale e fredda indifferenza. Ma è un film già visto, prendersela non ha proprio senso perché è nella natura delle cose, una regola del gioco, via. Non conosco i Box Tops, sua prima band, ed ignoravo perfino che i Big Star fossero attualmente in giro per il mondo e suonassero ancora dal vivo. Per me quell’esperienza era chiusa con quel filotto di capolavori immortali che sono stati ‘#1 Record’, ‘Radio City’ e ‘Third’, così diversi tra loro eppure così straordinariamente vivi. Musica di 35 anni fa praticamente, musica che ebbe pochissima fortuna quando fu pubblicata ma che meritava di venire fuori comunque. Un incrocio tra le più disparate esperienze – dai Kinks ai Byrds agli Zeppelin – che ascoltato oggi racconta con incredibile veridicità quelli che sono stati gli anni ’70 per la musica americana, mantenendo tuttavia una prospettiva altra, non ufficiale e dunque non banalmente stereotipata.

 

Di più, la band di Chilton ha saputo essere moderna come poche altre in quegli stessi anni, seminando umori, riff ed impasti all’epoca probabilmente apparsi stravaganti ma che col tempo avrebbero svelato tutta la loro straordinaria attualità. Una virtù dei grandi quella di venire fuori sulla lunga distanza: Nick Drake e la sua ‘Fruit Tree’ hanno fatto di questo concetto una specie di archetipo. Le canzoni di Chilton e dei big Star sono diventate presto oggetto di culto, soprattutto tra gli addetti ai lavori. Il fatto che abbiano influenzato una marea di grandi gruppi negli anni ottanta e novanta (dai Replacements, ai Wilco, dai R.E.M. ai Jesus & Mary Chain) va letta come naturale e sacrosanta conseguenza del loro più profondo valore, come una sorta di riconoscimento e risarcimento postumo. E’ stata una fortuna per quelli come me, così distanti nel tempo da loro, di arrivarci comunque, per vie indirette. Era destino. Non poteva che funzionare così, come una sorta di appuntamento in cui, grazie al passaparola o agli amici giusti, comunque ci si sarebbe incontrati. Nel mio caso devo tutto alla devozione e all’amore (una vera e propria fede) manifestati dai Teenage Fanclub nei loro confronti. Arrivarono ad intitolare un disco (il mio preferito, guarda un po’) come una delle immortali canzoni di quel lontanissimo e folgorante esordio: ‘Thirteen’. Non ci fossi arrivato per questa strada probabilmente mi ci avrebbero portato gli Yo La Tengo, che avevano fatto carte false per suonare assieme ad uno dei loro massimi idoli. Comunque ci sarei arrivato, questo conta. Ora che la parola fine trova il suo posto nella vicenda umana di Chilton, ad appena cinquantanove anni di età, suona abbastanza sinistro il testo del ritornello di ‘Feel’, primo brano in scaletta su ‘#1 Record’ e quindi prima canzone riascoltata da me questa mattina in una mini-maratona prossima al religioso: “I feel like I’m dying / I’m never gonna live again / You just ain’t been trying / It’s getting very near the end”. E’ pur vero che per lui le porte di un’esistenza ben più duratura di quella terrena si erano già spalancate parecchio tempo fa. Ora che le sue canzoni – ‘September Gurls’, ‘O My Soul’, ‘Jesus Christ’, ‘Thank You friends’, ‘Watch The Sunrise’, ‘Back of a Car’, ‘Take Care’, ‘The Ballad of El Goodo’ , solo citando a casaccio alcune delle più belle – hanno iniziato a sopravvivergli, resta la certezza che tanta miracolosa scrittura pop sia una benedizione che non è andata sprecata e che anzi servirà ancora per gli autori di domani. Una mirabolante abilità nel plasmare easy-listening in grado di solleticare anche il palato dei cultori del rock (ascolti ‘Radio City’ chi ne è poco convinto), ma anche l’infinita dolcezza di chi componeva senza pensare al business, anzi, senza nemmeno sapere se avrebbe pubblicato o meno un album, trovandosi magari a dover attendere quattro lunghissimi anni per vedere finalmente il compimento di una delle proprie fatiche.

E’ vero, purtroppo Alex Chilton non c’é più. La perfezione melodica dei suoi dischi tuttavia resta, incancellabile, a disposizione di tutti quelli che hanno avuto la fortuna di incontrarlo e di tutti quelli che faranno la sua conoscenza negli anni a venire.

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