Josephine Foster

Blood Rushing

       

Il ritardo cronico con cui recupero i pezzi scritti in giro e li riporto su questa pagina si è fatto drammatico. Quasi un anno e mezzo di recensioni su Monthlymusic – webzine con la quale non collaboro più (o forse sì) – attende di essere snocciolato qui, e hai voglia a lasciarle decantare queste opere. Un ottantina di dischi che ho raccontato su Ondarock attendono anch’esse pazientemente una nuova trattazione, ma forse non ha più senso. Un esempio? Seguendo l’ordine cronologico dovrebbe essere il turno di Josephine Foster e del suo “Blood Rushing”, uscito nientemeno che nel settembre del 2012, ma il problema è che la chanteuse statunitense ha nel frattempo pubblicato anche un seguito, il formidabile “I’m A Dreamer”, che è già d’archivio pure lui. Un circolo vizioso insomma, e uscirne sembra impresa ardua. Tornando alla Foster, sono comunque lieto di ripresentare album e relativa critica, come sempre, nel caso dei miei scritti per MM, di taglio generalista e riepilogativo, pensati per chi dell’artista conosca poco o nulla. Una bella raccolta di canzoni, questa, da un’interprete di caratura superiore che da queste parti avevo già introdotto seppur marginalmente, raccontando il suo unico disastrato live torinese in quel posto infame che è/era la Cripta 747 (mai tornata in città da allora l’austera Josephine, nonostante le numerose puntate italiane tra teatri cittadini e insolite venue di provincia). L’ho buttata giù nella maniera più affettuosa possibile, perché la Foster è una folksinger che ammiro come poche altre. Ho provato a svelarla al di là della buccia stereotipata in cui lei per prima ha inteso rinchiudersi, quel rigore solipsista rubato nelle parole e nei ritratti stessi della superba Emily Dickinson. Questo disco è un superamento di tale limite (come lo saranno la leggiadria e l’intimo autobiografismo di “I’m A Dreamer”), e nel contempo un ritorno alla sua dimensione più autentica, yankee e silvana. Non per nulla la cantante ha lasciato la casa andalusa dove vive assieme al marito e collega, Victor Herrero, per registrarlo appositamente nel natio Colorado, cercando di fare il pieno di suggestioni dalla natura incontaminata e dalla forza non corrotta dei suoi elementi. Il risultato è questa piccola collezione di brani che, tra tentazioni easy-listening e consueto formulario avant-folk, riflette molto della sua autrice inquadrandola coerentemente nel suo contesto. Come poi, per descrivere un’opera catalogabile molto semplicemente come “Americana”, io abbia potuto spingermi a scomodare Terrence Malick (“La Sottile Linea Rossa”, anche se i paesaggi emotivi riporterebbero più che altro a “I Giorni del Cielo”) e persino il nostro Montale, proprio non saprei dirlo. Ma tant’è.

 

 

Oh anima mia, fa’ che io sia in te adesso
Guarda attraverso i miei occhi, guarda le cose che hai creato
Tutto risplende

Per anni è stata sufficiente l’illusione, promossa come più facile delle imbeccate da quella figura così austera. Gonna a strascico, scialli e camicette nere, lunghi capelli di corvo raccolti in uno chignon.
E lo sguardo dall’inconfondibile ombra triste, sempre enigmatico nella sua gravità.
Ovunque la riconoscevi come il fantasma di Emily Dickinson, persa in un passato astratto ed impossibile.
I frammenti malinconici della sua antologia folk claustrale, compilata con ascetico riguardo sulle liriche della poetessa di Ahmerst, non potevano che rappresentare il fondo di questo esorcismo, quasi una liberazione. Nelle altre riletture quel senso di possessione mancava. Niente abbaglio mesmerico dentro le canzoni, anche se coraggio e finezza antiaccademica sono sempre stati insopprimibili prerogative per la sua sensibilità di artista. Così i lieder della tradizione romantica tedesca trasfigurati in ‘A Wolf in Sheep’s Clothing’ dai fuochi bianchi e acidi delle chitarre elettriche, così il canzoniere popolare di Garcia Lorca tonificato in ‘Anda Jaleo’ dal cristallo del charango e da una vivida asprezza gitana esercitata a tutto campo.
Esaurito lo slancio di questa sua parentesi devozionale, Josephine Foster torna a vestire i panni della strega campestre degli esordi, quando lo standard appalachiano delle sue composizioni per ukulele era traviato dalla vitalità selvatica di un’affilata ma irrequieta vena psichedelica. Soltanto una sfaccettatura tra le altre per quella voce incredibile, un soprano salmodiante forgiato in ambito lirico e sorpreso nell’imbarazzo tra inclinazioni lugubri e ridenti arabeschi, smussatura palese dei tanti anni spesi a perfezionarsi tra funerali e sposalizi.
Appena pubblicata la seconda raccolta iberica, Josephine ha abbandonato il suo rifugio andaluso per tornare in patria e registrare il nuovo ‘Blood Rushing’, disco che rilascia uno sfacciato aroma di States sin dall’inequivocabile allegoria della copertina, personale rivisitazione pittorica della propria bandiera nazionale. Il sottile filo rosso che lega campi e firmamento è lo scorrere impetuoso di un sangue – o di un vino, stando all’incalzante ritornello di ‘O Stars’ – che è l’essenza stessa della natura orgogliosa ed indomabile. Il Rio Colorado dei remoti esploratori spagnoli si tuffa dal Grande Carro a battezzare una nazione e ad ancorarla a quanto ha di più sacro. Non soltanto il sole, oggetto di una benedizione sincera in una luminosa mattina d’inverno. Non solo il vento, che sferza indifferente le mille torri di Chicago. Non solo gli affacci vertiginosi sulle Rocky Mountains, o le colture vezzeggiate nella febbre di un canto propiziatorio. Tutto il quadro insieme, l’intero patrimonio. Anche la pancia gassosa della terra, anche la limpidezza feconda dell’acqua, lo scintillio benevolo delle stelle.
Blushing è il doppio in scena e la guida, colei che arrossisce, che presta occhi e cuore sul sentiero. E’ suo il diario che sfogliamo, miniature tonali e annotazioni di un misticismo astrale. Un compendio bucolico che ricorda la spensierata Arcadia di Vashti Bunyan, ma con ambientazioni e corredo simbolico profondamente americani. Un sigillo evidente nella piega populista di certe ballate, alt-country che non disdegna rigogli gospel e riscatta la maggiore prevedibilità della scrittura con tutta la classe ed il polso della cantante, oltre magari ai pregevoli orpelli flessuosi della sua chitarra. Al solito il picking nudo si apre ad un florilegio di digressioni. Stilizza fino all’osso ma non rinuncia ad aggraziare l’ordito con suggestioni arcane quanto inattese, rendendo movimentato e a tratti perfino eccentrico un album, per altri versi, dalla perentoria impronta classicista. Semplice e semplicemente arrangiata ma del tutto accattivante, la cavalcata di ‘Sacred Is the Star’ è il manifesto emblematico di questo inedito approccio easy listening: folk melodioso e zampettante, refrain killer in una dotazione di pelli e mandolini, carta di libera cittadinanza per le orecchie di ogni ascoltatore. Anche rallentando i giri e curando più a fondo la foggia dei ricami, la scrittura si conferma penetrante e disinvolta.
Naturale e suadente Josephine, eppure impervia. Sfuggente quando al momento del congedo sceglie di far bisticciare country-blues e psych-folk e va a bersaglio per franchezza innata.
Blood Rushing’ è la sua improvvisa colica pop.
Svolazzante. Ambigua.
Nervosa, eterea, lussureggiante.
Fragile come le Electrelane auliche e commoventi dell’addio. Pure pietrosa. Eruttiva ed arrembante nel suo vestitino avant-folk, a briglie sciolte in poche sfuriate elettriche come riusciva ai Gorky’s Zygotic Mynci in piena sbornia da crapule rock. Oppure esile e silvana in quella mise da maliarda à la Joanna Newsom, che dai tempi della New Weird America le è sempre calzata a meraviglia.
La Foster di oggi è un quarzo opalescente. Una maestra di incantesimi, di fascinazioni raminghe. La sirena che intesse delicate ninnananne per un mondo spogliato di ogni armonia. E proprio come Emily nella sua stanza, continuerà ad irretirci nella perfezione silenziosa della nostra solitudine.

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Josephine Foster @ Cripta 747   08/07/2011       _ Il nostro (altro) concerto

      

Altrove l’ho definito il concerto più “infotografabile” cui mi è capitato di assistere, e non ritratto. Peggio, in questo senso, di quella volta che un buttafuori mi sferrò un cazzotto sul grugno per aver immortalato i Klaxons (capirai!) senza accredito, peggio dei live nelle grandi arene con ferocissimi gorilla alla transenna, peggio degli show estivi all’aperto sotto il perenne scacco della grandine. Intanto una cosa mi preme chiarirla. Nel biasimo generale io faccio foto ai concerti sempre e comunque, ignorando chi sostiene che in questo modo non posso seguire con vera partecipazione gli eventi. La verità è che mi diverto un mondo e riesco a sposare due delle mie passioni in una sola esaltante attività, per quanto limitata dalla mia natura di eterno dilettante e dall’eventualità che qualcosa vada particolarmente storto, in un senso o nell’altro. I concerti brutti capitano, per l’appassionato di musica non ci si può fare nulla. Poi ne capitano altri – non così di rado – in cui l’artista è all’altezza ma non il pubblico, o il contesto nel suo insieme. E non mancano quelli in cui è il fotografo amatore a storcere il naso: luci troppo soffuse o troppo calde o troppo schizofreniche per resa visiva, così insopportabili da costringerlo a fare le acrobazie tra tempi sufficientemente bassi, diaframmi accettabili e rumore non così mortalmente alto, iso permettendo. Bene, tutta questa lunga e noiosa premessa per dire che a volte, anche rimanere fermo al palo con la mia reflex non è proprio un male. Mark Kozelek è uno di quelli che non ammettono macchine e macchinette per riprese video o fotografiche durante le sue esibizioni. Allettante a guardarla dal punto di vista di un suo fan ma tutt’altro che inaccettabile anche per chi abbia il vizietto della fotografia. Certi spettacoli riescono a plasmare una tale aura di sacralità che anche una mosca che svolazzi senza invito riuscirebbe inopportuna. I suoi live quasi mistici per voce e chitarra classica rendono alla perfezione un principio cui cerco di attenermi fermamente ogni volta che un cantante, anche meno intenso del leader dei Sun Kill Moon, canta senza accompagnamenti ritmici o senza scorte elettriche. Detesto io per primo un click che fa a sberle con una voce nel silenzio claustrale, diversamente da certi invasati con zaini, arsenale tecnico e strafottenza paurosi. Un concerto di Josephine Foster rientra alla perfezione in questa stessa categoria, per cui nella cronaca qui riportata non ho particolari recriminazioni da fare. Stare bravo al mio posto e godermi quella sua voce pazzesca, con le parche esilissime trame della sua chitarra, era quasi un comandamento biblico che ho rispettato senza fiatare. Facendo di necessità virtù, diciamo, visto che ad una simile adeguata condotta sono stato spinto non dalla cantautrice del Colorado per espressa richiesta, ma dalle terrificanti condizioni luministiche in cui lo spettacolo si è svolto: una penombra quasi totale, con un unico neon a mezzo servizio posto per terra, e con su una mantella nera della stessa Foster, ché l’atmosfera è tutto. Questo, è importante dirlo subito, è stato in realtà l’inconveniente più trascurabile di una serata in cui quasi tutto è andato per il verso sbagliato, e riferisco queste parole non al semplice cacciatore di ritratti fotografici ma proprio all’appassionato di musica in libera uscita. Perché è così che mi sono presentato alla Cripta 747 di Torino la sera dello show in questione: da appassionato generico, fresco reduce di un concerto rock-blues (i Black Crowes a Vigevano, la sera prima) e ben disposto ad affidarsi a sonorità ben diverse pur essendo da tempo a digiuno di folk appalachiano e non avendo sentito una sola nota delle canzoni della suddetta Josephine Foster, piacevole incognita che avrei detto esclusiva nella serata, sbagliandomi di grosso. Trovare questa famigerata “Cripta” è già stata una discreta impresa. Immaginavamo un locale a tutti gli effetti ancorché piccolo, schiacciato tra i tabarin fighetti del Quadrilatero Romano e l’inavvicinabile kasbah notturna di Porta Palazzo, e invece ci attendeva uno scantinato infame. Chiuso, per giunta. L’abbiamo fatto aprire noi stessi quando telefonando ormai disperati ai titolari, siamo stati raggiunti davanti ad un grosso portone senza citofoni e senza numeri civici da una terna di tizi vagamente alternativi, di ritorno da una cena in luogo imprecisato. Scoprendo che il posto era collocato sotto terra, in un trittico buio di infernotti comunicanti, una dose minima di perplessità è affiorata quasi automaticamente. Nessun biglietto di ingresso in cambio di cinque miseri euro, nessun guardaroba, nessuna uscita di sicurezza, nessun posto per sedersi, nessuna base in legno accostabile ad un palco e, soprattutto, nessun altro avventore a parte noi e due ragazzi appositamente giunti da Milano. Li per lì ho immaginato che quelli della Cripta fossero vampiri e avessero trovato cinque poveracci con cui sfamarsi. Poi le cose sono cambiate con l’arrivo, alla spicciolata, di un numero sempre più alto di giovani dall’aspetto, francamente, assai poco raccomandabile. Al di là di questo, dubbi via via più incalzanti in merito allo svolgimento della serata, accentuati da un clima sempre più cocente da scherzo poco divertente, con birre affogate in una bacinella di ghiaccio e vendute senza scontrini nella più esterna delle tre cantine, calca berciante e difficoltà crescenti a tollerare con la sporcizia del luogo quella dei propri occasionali vicini, presumibilmente i peggiori squatter di Torino a convegno gratuito (eh sì, pagavano solo i veri “forestieri”, noi stronzi) in una cloaca per la musica. Del concerto in sé non rimane neanche molto da dire, eccetto che vi erano due gruppi (due artiste in realtà) spalla, dalla Finlandia, e che la Foster è stata strepitosa per pazienza quanto per incanti regalati. Le classiche perle ai porci, considerata la teppaglia umana (e canina) che, stravaccata accanto a noi sul pavimento, non ha smesso un istante di ciarlare, fumare di tutto, rovesciare bottiglioni di vino e farsi, molto poco elegantemente, i propri porci comodi. Uno spettacolo indecoroso ed uno scempio immeritato già per le non esaltanti Hilma Glad (folksinger oversize con ambizioni stranianti “alla islandese”, per quanto nella variante “vorrei, ma non posso”) e Kuupuu (il cui essere graziosa non ha riscattato un set ammorbante a base di cinguettii ed elettronica delle più indigeste), figuriamoci per una performer e vocalist di assoluto talento come l’americana. Che ha fatto il possibile, occorre dirlo, forse anche per dare senso a quelle interviste in cui dichiarava di amare l’esibirsi in location insolite quando non proprio estreme (si riferiva a chiese, grotte e monumenti vari, in realtà). Ignorando per quanto le riuscisse l’ignobile bazar davanti a lei, Josephine ha stregato senza problemi i pochi che erano lì per lei. Non saprei minimamente ricostruire la scaletta del suo live da un’ora e via, anche generoso considerando cotanto parterre de roi, perché come detto mi ero presentato da profano assoluto. Sono però certo, avendo approfondito nel frattempo la conoscenza della sua intera discografia (dai primi dischi per Locust al recentissimo ‘Blood Rushing’), che abbia ripreso diversi dei bozzetti con le liriche di Emily Dickinson di ‘Graphic As a Star’ oltre ad alcune delle Canciones Populares raccolte in origine da Garcia Lorca e reinterpretate assieme al marito Victor Herrero nelle due raccolte iberiche sin qui licenziate. Non il meglio del suo repertorio (che per me rimane quanto pubblicato nel 2005/06, ‘Hazel Eyes, I Will Lead You’ e ‘A Wolf In Sheep’s Clothing’), eppure abbastanza per intrigare con la sua toccante semplicità, con la perfezione di un cantato da pelle d’oca e con la purezza dei suoi ricami scarni in acustico. Uno spettacolo martoriato da agenti esterni e nondimeno delizioso, a riprova che i grandi artisti sono tali anche nelle peggiori condizioni. Con buona pace anche mia e della mia smania di immortalarli, oltreché di quelli che li invitano forse solo per il gusto perverso di oltraggiarli. Il buon proposito, in conclusione, è di ritrovare la Foster nelle circostanze più idonee, con una macchina fotografica a disposizione ma da usarsi solo in quei pochi frangenti in cui la musicalità si faccia più chiassosa, armoniosamente parlando. Amen.

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