Month: agosto 2009

La dieta della band ruminante

 

Curiose novità in arrivo dal piccolo pianeta Eric Johnson. Non che negli ultimi tempi ci aspettassimo qualcosa da quella ridente isoletta musicale e forse una considerevole fetta della sorpresa nasce proprio da questo. Dopo la deviazione non proprio felicissima compiuta un anno e mezzo fa sul vascello Shins, ora il Nostro ne attua una non troppo dissimile sotto le spoglie meno note dei Fruit Bats, progetto collaterale (ma condotto nei panni del leader) che lo ha già visto licenziare tre album prima del nuovissimo ‘The Ruminant Band’. Nei brani che aprono e chiudono il disco, ‘Primitive Band’ e ‘Flamingo’, sono suggerite per sommi capi le linee generali di questa significativa revisione, non relativa al piano stilistico quanto piuttosto a quello relazionale. Uno scartamento in un certo senso, uno spostamento per vie orizzontali verso una prospettiva meno definitiva e più incerta, nebulosa. Le due canzoni in questione hanno più il sapore dell’impressione che non della concreta istantanea. La propensione per le tonalità estive è confermata ma quelli abbozzati in questo caso sono sogni più tiepidi, sfumati. La ballad dal retrogusto beatlesiano ‘The Hobo Girl’ chiarisce quanto sia ambita per Johnson questa direzione, nella scelta di mantenere una pregevole distanza a livello emotivo e formale. Sembra una canzone congelata nel passato, con l’intento di ingannare i vecchi Fruit Bats ora che si brama la lontananza. Stessi scenari per ‘Feather Bed’, con un pianoforte cadenzato eletto a protagonista assoluto ed Eric che gioca ancora a fare il piccolo Lennon, quello di ‘Double Fantasy’ (ma senza la sua Yoko). Il bello è che, senza voler strafare, nemmeno sfigura e riesce comunque a trasmettere tutto l’amore nella citazione. In brani come ‘Beautiful Morning Light’ si fanno più nette certe sensazioni: scarna, sospesa, efficace nel lasciare sprazzi di incanto grazie ad un arpeggio spartano come non mai, la canzone è una preziosissima testimonianza in acustico di questa curiosa ed ammirevole esigenza di concretezza, votata al taglio di ogni eccesso espressivo. Una prospettiva che a molti cantautorini di oggi farebbe parecchio comodo: sì M. Ward, è a te che sto pensando, proprio a te!

  

E’ una sorta di imperativo non scritto. ‘Tegucigalpa’ insiste con questa tendenza all’omeopatia, al rifiuto dell’inessenziale. Stavolta, tuttavia, negli scheletri architettonici di ossicini di pollo si ritrovano scampoli della polpa del precedente ‘Spelled In Bones’, forse il gioiello più splendente nel repertorio della band di Seattle. Ora però il cambiamento si percepisce, eccome. Nella Title Track le delicatezze della band sono ridotte ad un’essenzialità che sa di cartolina o di caricatura: apprezzabile l’intento dietetico, gradevole e ben svolta come bozzetto, forse un po’ riduttiva e con Johnson eccessivamente impegnato a giocare a nascondino. ‘Being On Our Own’ e ‘My Unusual Friend’ sono frizzantine. Pur sapendo molto del Johnson classico già ne incarnano la sconfessione, per lo stesso motivo appena esposto. Sono pacate, per nulla viscerali ma, grazie a Dio, non si riducono a sembrare meri esercizi di stile. Stesso discorso per ‘The Blessed Breeze’ dove il coefficiente di tipicità è più alto ma ancora una volta non si pigia sull’acceleratore. Se tanti indizi fanno una prova certa, non ci sono più dubbi che si tratti di una scelta espressamente voluta e ragionata. In fondo la tavolozza dei colori (qui quelli più nostalgici) è rimasta la stessa, per cui non si segnalano evidenti controindicazioni in fase di ascolto. Lunga vita allora a questo Eric Johnson spogliato e spigliato, apparentemente sgravato da chissà poi quali responsabilità. Con ‘Singing Joy To The World’ ci lascia il suo respiro e fa centro, lasciando intuire una versione dimagrita ma non disinnescata della genuina freschezza a marchio Shins. Un lavoro onesto in definitiva, sicuramente interlocutorio visti i diretti predecessori, ma tutt’altro che sgradevole. Per la caparbietà con cui declina il verbo del ‘Soft Focus’, l’effetto flou adottato come nuovo abito mentale oltre che estetico, merita senza dubbio qualcosa più di un rapido plauso. E poi è un disco estivo, placidamente estivo.

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Yes, it feels scary to be ordinary…

 

Dannato ex ragazzo prodigio del folk nordamericano. Uno non fa in tempo a complimentarsi per il convincente primo passaggio "solista" dopo la lunga avventura al timone dei Bright Eyes, che lui se ne viene subito fuori con un seguito a strettissimo giro di posta, del quale davvero non si sentiva il bisogno. Certo un annetto fa l’omonimo ‘Conor Oberst’ era stata una sorpresa notevole, per la qualità apprezzabile delle canzoni e per la significativa opera di ricostruzione di sè come artista, attuata dal non più giovanissimo talento di Omaha. Rimanere su quei livelli sarebbe stata una buona promessa. Come spesso capita in questo mondo, affidarsi alla fretta dopo aver stupito positivamente, come a voler ribadire l’urgenza palpitante di uno stato di grazia, porta però ad esiti ben diversi da quelli sperati. ‘Outer South’ non può che essere letto in questi termini, i soli che giustifichino un buco nell’acqua causato non dal solito ego smisurato del cantante, bensì da spinte opposte e contrarie. Con l’album precedente Conor aveva stupito proprio per la scelta di un profilo basso, rinunciando alle ultime scorie da primadonna che ne avevano caratterizzato ogni lavoro a marchio Bright Eyes, in dosi – va detto – decisamente decrescenti col passar degli anni. Mi era parsa una prova indiscutibile della sua effettiva maturazione come artista, meno sensazionale e più coi piedi per terra. Piedi buoni comunque, quelli del classico fuoriclasse non più troppo in erba. Il nuovo ‘Outer South’, arrivato nei negozi appena nove mesi dopo il suo predecessore, non tradisce quest’impostazione ma pecca sensibilmente proprio a causa di una sua forzatura. Oberst ne esce annacquato, confuso, ridimensionato. Le canzoni non condividono le sessioni di registrazione con ‘Sausalito’ o ‘Cape Canaveral’, ma è comunque plausibile che si tratti di potenziali B-sides o Outtakes di quel particolare momento creativo. Il livello di queste composizioni lo dice senza troppi appelli. A Conor non pare aver giovato la scelta di abbassarsi a semplice membro in una band composta da autori con pari dignità, visto che i compagni di questo viaggio non hanno nemmeno lontanamente il suo spessore di songwriter (nè tantomeno quello del suo fidato compagni d’armi, Mike Mogis): una compagnia di ottimi musicanti ma modesti cantanti, premiati a sorpresa con il microfono dell’ex leader dispotico in ben sette brani su sedici.

Questo è il primo (doppio) difetto evidente: perdita di coesione a fronte di un vistoso calo di appeal. Pessimo il Macey Taylor cui Oberst ha affidato ‘Worldwide’ facendone un pezzo da sbadigli: una triglia lessa a corto di tutto, all’opera ancor prima di colazione. Molto male Taylor Hollingsworth, sia nel guastare con la sua brutta voce una canzone discreta come ‘Snake Hill’, sia nel pilotare la band nella prima vera caduta del disco (il pop-rock banalotto e per nulla coinvolgente di ‘Air Mattress’). Mediocre Jason Boesel nella rilettura à la Lou Barlow miagolante di ‘Eagle On A Pole’ (brano del 2008, nota bene), in una versione accademica e priva di mordente, ma anche nella ‘Difference Is Time’ che porta in tutto la sua firma: alt-country non brutto per quanto senz’anima (cui non basta qualche ricamo elettracustico), convenzionale e calligrafico ma onesto, senza eccessi come tutto il resto della raccolta. Anche la ‘Bloodline’ di Nik Freitas offre gli stessi pregi e difetti, inseguendo ammirevolmente Gary Louris su un terreno in cui davvero non può spuntarla. Onorato del microfono, Freitas ammette che sì, fa paura essere ordinari. Forse va ad interpretare l’incubo ricorrente di chi ha scelto di ospitarlo in questo disco, un Oberst che, scoprendosi democratico e svagato come capobrigata, ha offerto la più concreta delle dimostrazioni di quella stessa paura. O forse lo dice per testimoniare che i passi falsi capitano a tutti, come quelli giusti. La sua ‘Big Black Nothing’, ad esempio, vince abbastanza agevolmente la palma di miglior titolo del lotto per trasporto ed intensità. Bella, asciutta, sobria, ma ornata da suggestioni e da un respiro profondo che ci farebbe volentieri scrivere di una conferma per quell’impressione di maturità che avevamo avuto a proposito del folksinger del Nebraska, se solo ne fosse l’autore. Già, come se la cava in fin dei conti il nostro eroe quando ha in mano lo scettro? Sotta la sua media, direbbe il commentatore sportivo. A volte è decisamente fuori giri. Smielato nella resa in ‘Cabbage Town’, troppo meccanico nella scrittura. Lo si ascolta ma non lo si ama. ‘Spoiled’ e ‘Nikorette’ si spalleggiano coi loro ritmi sbarazzini, per alzare il livello di effervescenza dell’album: ma Conor appare a corto d’ispirazione e questa sembra soltanto acqua minerale, la voglia da sola non basta. E’ ancor più preoccupante ‘White Shoes’, dato che rallenta virando verso piste già battute mille volte, evidentemente in cerca di esili fascinazioni. L’effetto tuttavia è soporifero, freddino, distante. Sembra vittima della stessa sindrome anche ‘I Got The Reason #2’, salvata tuttavia in corner dal piglio del leader, da un carisma finalmente forte e chiaro. Quel che rimane va archiviato tra il passabile e il buono. L’apertura di ‘Slowly (Oh So Slowly)’ è forse il caso che più nettamente lascia il sapore di discreto lato B rispetto a quanto pubblicato in precedenza. Piacevole, scorrevole, convenzionale  e fortemente impregnata di american taste, si colloca ancora su quella felice linea di disimpegno che aveva rappresentato la scelta vincente di ‘Conor Oberst’, con quella sua atmosfera da allegra compagnia. In ‘Ten Women’ prevale l’opzione dell’automatismo, mandando in scena il Conor classico a garanzia di semplicità e successo, senza appesantimenti: voce tremula, chitarra, coro d’amici e la solita buona capacità affabulatoria. Più elettrica, cazzuta e blueseggiante, ‘Roosevelt Room’ è la sua miglior firma a questo giro. Non alla pari di certe perle del passato, ma ha il merito di restituircelo tonico, ruvido, sanguigno e motivato, con un bel mood che sa di alcohol e frustrazione rabbiosa. All’appello manca soltanto ‘To All The Lights In The Windows’, invero una canzone molto bella e anch’essa più obertsiana nell’accezione tipica prima citata. A dirla tutta sul ritornello si tradisce, lasciando intuire senza scusanti i Soul asylum dei tempi d’oro, retrogusto da perdente non di lusso compreso. Ecco, se questo deve essere il prezzo del proprio legittimo ridimensionamento, mi sembra giusto augurare a Conor maggior fortuna di quella capitata al povero Dave Pirner, uno che ha smesso da troppo tempo di aver paura della mediocrità.

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Quando il Black Power era anche Black Merda

Troppo belli per essere veri. Nella mia profonda ed assoluta ignoranza non li avevo mai nemmeno sentiti nominare. Poi qualche mese fa mi imbatto sul Mucchio in una devota recensione di un loro album recente e casco dal pero. Non vi nascondo che, senza quel nome strepitoso, avrei saltato la pagina a pie pari, ché tanto si era nella solita sezione delle riedizioni o della muffa da collezionista chiamata ‘Classic Rock’. Però quella ragione sociale non poteva lasciarmi indifferente e ho deciso di approfondire. Gesù benedetto! Ma un gruppo del genere nell’oblio cosa lo hanno lasciato a fare, si può sapere? Qualche semplice nota biografica: originari del sud ma stabilitisi a Detroit per motivi sin troppo ovvi, considerati il periodo e la professione, questi quattro sconosciuti afroamericani hanno iniziato a lavorare a metà anni ’60 come preziosissima backing band, collaborando con Wilson Pickett e numerosi artisti della storica Motown. Orientamento soul come da etichetta e nome di battaglia assolutamente in linea con queste onorevoli (ma non memorabili) premesse. Sembravano destinati ad esaurirsi come ottimi turnisti in quella eccellente scuderia ma accadde qualcosa che li cambiò. Su una rivista lessero delle mirabolanti imprese di un giovane scapestrato chitarrista di Seattle, uno ancora poco noto eppure destinato a tramutarsi in leggenda nel giro di tre o quattro anni. Jimi si schiantò su questi bravi ragazzi con un impatto micidiale: era quello che loro sentivano di poter e voler diventare. Ancora sotto le spoglie di Soul Agent furono il primo gruppo al mondo ad incidere una cover di Hendrix (‘Foxy Lady’), non tanto per un ammirevole senso dell’intuizione nel precorrere i tempi ma proprio per più nobili ragioni legate all’identificazione culturale e spirituale con un grandissimo artista di quegli anni, forse il più grande. Continuarono a prestarsi per incarichi di alta manovalanza musicale, mettendosi al servizio dei Temptations, ma i tempi erano maturi per una svolta facendo proprie le ragioni di quel fuoco e di quel suono appena scoperti. Cambiarono il nome in Black Murder, con un chiarissimo intento di denuncia verso quanto di più odioso capitava negli States in quel periodo di cambiamenti non ancora generalizzati. Lo smussarono in Black Merda per attenuare la durezza della polemica, ignorando completamente il significato di quella seconda parola nella nostra lingua. Uscirono in rapida successione due ottimi dischi, ‘Black Merda’ e ‘Long Burn The Fire’ che rimasero pressoché ignorati. L’insuccesso li convinse a proseguire come semplici musicisti "a servizio" fino ad una manciata di anni fa, quando vecchietti hanno riscoperto il piacere di suonare come gli andava. Ascoltate oggi, con la musica nera trasformata in una volgare caricatura del "potere" bianco, le loro vecchie canzoni fanno una certa tenerezza, ma non suonano affatto patetiche o antiquate, anzi. Emanano uno splendore autenticamente vintage che le rende quantomai attuali, nell’accezione buona del termine considerato quanto scritto poc’anzi.

Recuperata la preziosissima raccolta di quei primi due lavori, intitolata  ‘The Folks From Mother’s Mixer’, posso affermare senza timore d’essere smentito che i Black Merda erano dei grandi, anche se magari furono persuasi del contrario da chi non era preparato al funk-rock suonato da un gruppo di soli afroamericani. Bene come camerieri per le magiche voci della Motown, meno se intendevano togliere il lavoro ai giovani e arrabbiati figli della buona borghesia americana. Hendrix era molto più di un modello per loro. Nella scarna ma aromatica ‘Prophet’ se ne sente l’ammirazione profonda, sin dal titolo. Così in ‘Cynthy-Ruth’, dove non manca una certa propensione alla solennità corale. Canzoni come inni, con una loro forte epicità. In ‘Ashamed’ c’è tutta la purezza del rock americano di fine anni sessanta, caotico ma sincero alla Easy Rider. Anche in ‘Lying’, pur se più austera, anche nell’ottima chiusa di ‘We Made Up’. E’ musica che oggi non si suona più, al massimo la si imita con maldestra e ruffiana spavalderia. La ribollente e crepuscolare ‘Long Burn The Fire’ descrive un fuoco di cui non esiste che il ricordo ma rimane una delle migliori cartoline di quella band e della sua marginalità favolosa. Stesso incredibile senso di libertà in ‘I Got A Woman’, stessa incendiarietà trattenuta in ‘Sometimes I Wish’. Gruppi come i Make-Up del mitico Ian Svenonius avrebbero battuto le stesse piste solo molti anni più tardi, senza freni. Ascoltata con quasi quattro decenni di ritardo ‘Over And Over’ è ancora uno spettacolo, con quei corridoi disegnati da assoli luminosissimi, con fragranze psichedeliche inattese e groove sbalorditivi, istrionici ma senza barocchismi da virtuosi dell’hard rock. Il brano che da il titolo alla raccolta è un vero gioiello, esprime al meglio le qualità di una formazione tranquilla ma efficace nell’incedere, resta ben impressa anche senza fiammate. Insinuante, intrigante, personalissima. Strepitosi Black Merda, anche alle prese con registri più orientati al folk cantautoriale e intimista. Tra le pieghe di ‘My Mistake’ si riconosce un tono incerto ma ispirato, solo apparentemente fragile, all’avanguardia anche nell’impiego sapiente dei violini. Romantici ma non banali. Quello di ‘Think Of Me’ è folk appena sussurrato, con dentro quella sacralità del respiro black e sottili pennellate soul. Poche le eccezioni a questa formula, tutte peraltro pregevolissime: ‘Reality’ è un frammento pop che riporta in casa Motown con stupefacenti coloriture a livello vocale; ‘For You’ anticipa i lustrini seventies imbastardendo poi quell’atmosfera da lento sofisticato grazie ad una chitarra sempre puntuale. Sarei pronto a scommettere belle somme sul fatto che Chris Robinson conosca a menadito una canzone che, da ‘Amorica’ in poi, i suoi Crowes sembrano non aver mai smesso di far propria. Solo ‘Windsong’ può lasciare perplessi, a conti fatti: più lento, sperimentale, pinkfloydiano, è forse il pezzo invecchiato meno bene tra quelli del ricchissimo lotto, per quanto non privo di suggestioni. Comunque sia, buon ascolto a voi!

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Akron/Family @ Spazio211

04-06-2009

  

Che attesa per gli Akron/Family a Spazio, la tipica emozione da grande evento. A giudicare dal pubblico presente e col senno di poi non sono stati in tanti quelli che hanno vissuto la spasmodicità della nostra vigilia. I fatti concreti, tuttavia, ci hanno dato ragione. Gran concerto, come da anticipazioni di chi già aveva avuto la fortuna di vedere dal vivo questo scatenato trio di folli neo-hippy. La fama delle esibizioni live scoppiettanti e ricche di improvvisazioni sorprendenti ormai precede la band di Brooklyn, a ragione. I non tantissimi spettatori ci hanno messo veramente troppo tempo per svegliarsi e carburare ma Seth e soci sono stati bravissimi a non lasciarsi prendere dallo sconforto per l’iniziale mortorio. Il pubblico italiano dei piccoli club non è ancora avvezzo a show così trascinanti, per cui qualche difficoltà a livello empatico può starci. Certo sul lungo periodo sono stati loro a spuntarla, con una costanza ed un marasma sonoro cui era impossibile restare indifferenti. Tante assenze rimarchevoli in scaletta, ma è anche vero che pezzi dilatati oltre i dieci minuti non consentono fisiologicamente un numero cospicuo di brani. Come per i Silver Mt. Zion in fondo, un gruppo con cui gli Akron/Family hanno in comune più di un suono e più di una suggestione. ‘Ed Is A Portal’ l’hanno fatta comunque, non poteva essere altrimenti. Non chiedetemi come la ricordo perché credo d’averla vissuta in una specie di costante trance emotiva. Dannati stregoni! A conti fatti sono tornato a casa con la pancia piena e il portafogli vuoto: birra d’ordinanza, doppio LP di ‘Set ‘Em Wild, Set ‘Em Free’ da collezione e T-Shirt d’ordinanza, in questo caso anche decente tutto sommato. Non ho il coraggio di immaginare cosa possano esser stati i live di qualche giorno prima in Spagna, dove gli Akron/Family si sono ritrovati a recitare il ruolo della fetta di pane per i Wilco, insieme ai redivivi Jayhawks (con Mark Olson al rientro nei ranghi dopo quasi quindici anni) che hanno chiuso. Tre band della Madonna con lo stesso abbordabilissimo biglietto: per la serie "eventi che neanche a sognarli…". Vabbè, in fondo i Wilco li ho già visti due volte (e nel tour di ‘Summerteeth’ c’era ancora il povero Jay Bennett), i Jayhawks una (immensa, anche senza Olson) e gli Akron/Family pure. La prima di una lunga serie, spero…  

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