Sophia @ Hiroshima

08-10-2009

 

Robin Proper-Sheppard è tornato. L’uomo che, pur non inventandolo, ha declinato il verbo sad-core come forse nessun’altro, è uscito quest’anno con il quinto album dei suoi Sophia e non si è dimenticato di prendere qualche appuntamento con il nostro paese. Quello che lega i Sophia all’Hiroshima Mon Amour è forse un binomio che in pochi altri casi si è riproposto con eguale ostinata puntualità. A parte una data non troppo remota a Spazio, avevamo già incontrato Robin in città per ben due volte nel 2004, a distanza di pochissimi mesi l’una dall’altra, proprio sul palco di HMA. Ora lo ritroviamo con piacere nello stesso posto, con cinque anni in più, parecchi spettatori in meno e l’intatta passione che ha reso celebri i suoi show più sontuosi (quelli spartani ed in solitaria meriterebbero un discorso a parte). Dopo ‘Technology Won’t Save Us’, il recente ‘There Are No Goodbyes’ ha spostato ancora un poco la linea del suo songwriting verso il pop. Se dal punto di vista formale la distanza dai primi crudi lavori dei Sophia pare evidente, non si può negare comunque che l’ispirazione non sia venuta meno con la maggior leggerezza della veste e con qualche svolazzo in più negli arrangiamenti. Robin continua a scrivere canzoni belle e segnate da una dolente amarezza, anche se gli anni del lutto vero e proprio sono passati. Un filo di speranza fa capolino verso la conclusione, nella disillusa presa di coscienza della necessità di guardare avanti. Se su disco questa sensazione rimane appena accennata, dal vivo si traduce in una ben più matura ed apprezzabile schiettezza, un vigore che non nega l’intensità delle esecuzioni ma evita di fissarsi in comodi atteggiamenti di sconforto. I Sophia in concerto assomigliano oggi un po’ più ai God Machine, o agli Swervedriver, di cui ancora si legge il nome sui cassoni porta strumenti da viaggio. Il passato ritorna senza presentarsi necessariamente come un peso opprimente. Robin suona e canta con la stessa grinta pezzi nuovi e grandi classici, lasciando ammirati per la vena quasi post-rock di certe derive urticanti e per la disinvoltura con cui passa dai tormenti di una ‘I Left You’ alla vena ruspante di ‘If a Change Is Gonna Come’. Il piacere è proprio nella completezza di una performance molto più varia ed interessante che non in passato. Un po’ come capitava in ‘People Are Like Season’, l’album più discontinuo (e per questo più entusiasmante, secondo me) della sua discografia. 

 

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