Invisible Girl

 

Non solo banale musica di genere. Questo il succo del pezzo dedicato su indie-rock.it al terzo album in coppia per King Khan e il fidato Mark Sultan, uscito a fine 2009 e destinato a diventare un immediato classico nell'ambito stilistico di riferimento (pur andando ben al di là dei limitati confini che l'etichetta impone sempre e comunque). Ciò che mi premeva dimostrare nel ridotto spazio a mia disposizione era che dischi come 'Invisible Girl' sono opere musicalmente e culturalmente molto più interessanti e rilevanti di quanto non suggerisca il distratto approccio promosso dalle recensioni o dalle stampe promozionali. Non che i due autori siano meri intellettualoidi esclusivamente concentrati sul concept di facciata – per capirlo basterebbe guardarli sulle foto dei booklet o sulle istantanee scattate ai concerti – ma è indubbio che i riferimenti e i rimandi sono squisitamente ampi e complessi anche soltanto in un pugno di canzoncine senza troppi fronzoli come quelle presenti nella raccolta in questione. Richiami ed echi da una sottocultura canzonettara oggi assolutamente passata di moda, riproposti con il rigenerante filtro del minestrone, del frullato ipercalorico. Tenere assieme la leggerissima musica dei sixties (anche italiani) con il garage più sbracato, i Beach Boys irranciditi con l'occasionale numero da virtuosi, la martellante attitudine pop dei Ramones con il pauperismo sgraziato del recente credo lo-fi, non è proprio cosa da tutti. Non è comune, soprattutto, che la commistione resti credibile ed apparentemente spensierata come in queste godibilissime nuove canzoni, dove l'irriverenza dei consumati punk-rockers è splendidamente amalgamata con il calibrato tocco da cultori revivalisti (che i due sbalestrati musicisti canadesi riescono ad essere con incredibile naturalezza). Da qui l'appellativo di kitsch, inteso ovviamente nella più genuina e positiva delle accezioni così come ne scriveva Umberto Eco all'inizio degli anni sessanta. Khan e Sultan ne incarnano divinamente la filosofia, spingendo all'eccesso tanto la logica del contrasto culturale quanto quella dell'instancabile cortocircuito semantico tra "alto" e "basso", colto e volgare. Nel pezzo per Monthlymusic ho valutato l'album da una prospettiva più scherzosa e meno approfondita, puntando gli ideali riflettori proprio sull'irriducibile anarchia estetica di Arish e Mark, sui loro trascorsi perennemente "ai limiti" oltre che ai margini, sul loro essere personaggi (prima che persone) la cui devianza non è mai stata altro, in fondo, che amore sincero per un passato formidabile dimenticato troppo in fretta. 

 

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