Letture

Stoner _Letture

     

Più di cinque anni che non entravo qui dentro. Un lustro abbondante in cui sono stato impegnato da una seconda parentesi universitaria che ha tolto praticamente ogni spazio alla scrittura, alla musica e, sì, anche alle letture. Ora che quel vortice di impegni full time è definitivamente passato, lasciando evidenti macerie tutt’attorno, non ho potuto esimermi dal tornare a leggere qualcosa che non fossero i manuali di pedagogia o psicologia dell’età evolutiva, con un accanimento se possibile maggiore rispetto al passato. I primi titoli affrontati, è vero, sono ancora legati a questa fase prossima all’epilogo con la tesi di laurea, anche se letture (o ri-letture) come “Pinocchio”, “Il giornalino di Gian Burrasca”, “Giannettino”, “Ciuffettino”, “Viperetta”, “Sussi e Biribissi”, “Le pìstole d’Omero”, restano senza dubbio piacevolissime. Stesso discorso per il Céline insperato di “Guerra” – che è stato un po’ come ritrovare un vecchio amico figlio d’un cane – e in parte con “Sulla strada” di Kerouac, uno di quei nomi famosi e mai letti che tenevo lì da qualche secolo senza aspettarmi nulla di ché, ma che in realtà si è rivelato piuttosto buono e, soprattutto, invecchiato davvero bene. Per il prosieguo, tra i titoli messi in valigia spiccava questo benedetto “Stoner”, acquistato esattamente nell’estate di dieci anni fa sull’onda di tutta una serie di recensioni entusiastiche. Fazi lo aveva da poco rilanciato, cogliendo con grande opportunismo la relativa riscoperta in mezzo mondo di un’opera assai poco fortunata, ai tempi della pubblicazione, per un autore in seguito capace di vincere il prestigioso National Book Awards per la narrativa con “Augustus”. Da allora ho visto scorrere sui social un buon numero di commenti a cinque stelle, ora lapidari per eccesso di folgorazione, ora minuziosi e commossi nel ripescaggio di dettagli e citazioni preziose. Tutti erano accomunati dalla presenza di quella sibillina etichetta, “Capolavoro”, che da un lato mi ha sempre ingolosito, dall’altro mi ha messo sul chi-va-là, visto il carattere generalizzato del plauso. E niente, ho buttato giù un commento di getto, non certo una recensione degna di questo nome, solo per fissare ancora a caldo l’impressione.

La trama è di quelle oltremodo essenziali, non che la cosa sia di per sé un difetto. Segue grosso modo mezzo secolo di vita di William Stoner, figlio di contadini del Missouri spedito in una vicina università a caccia di una laurea in agraria, nella speranza di ottenerne un grosso beneficio in termini di conoscenze sulle più moderne e fruttuose tecniche per la coltivazione. Neanche a dirlo, l’imbelle William scopre una peraltro esangue passione per la letteratura inglese e cambia strada, laureandosi proprio in ambito letterario e poi reinventandosi, nella medesima sede, in un docente universitario dapprima alquanto scarso, e poi sempre più autorevole (ancorché mai troppo apprezzato). Si sposa con una donna che non lo ama, e che imparerà col tempo a contraccambiare, nel più classico dei matrimoni infelici dai quali nasce un altrettanto infelice figlia. Solo l’inflessibilità in ambito lavorativo gli consentirà di risparmiarsi una debacle su tutta la linea, pur costringendolo a esiti rovinosi tanto in termini di carriera che di diversivi sentimentali. A metterla giù così, sinteticamente, quello che emerge è il quadro di un testo piuttosto “rischioso”. C’è oggettivamente poca ciccia, e questo per qualcuno potrebbe rappresentare un problema. Non mi aggrego a quella schiera perché da sempre noia e lentezza non mi spaventano, se l’arte interviene a soccorrere l’opera a compensarne la monotonia, o il pallore. Nel caso di “Stoner” la prosa è effettivamente molto piana e compassata, solo che di compensazioni mi rincresce ammettere di non essere riuscito a trovarne. E’ un libro scritto bene, sarei ingiusto fino ai limiti della disonestà se affermassi il contrario. Però è anche esangue, privo di nerbo, colore e profondità. Il fatto di suonare monocorde mi riesce persino veniale, come difetto, perché posso riconoscervi un preciso intento stilistico che ne dia giustificazione. In questo dimostra anzi una coerenza che a suo modo riesce ammirevole. No, la pecca vera di “Stoner” è di volersi giocare la carta del realismo senza brillare affatto per autenticità. Di tutti i personaggi principali in scena non ce n’è uno che riesca davvero credibile: non il protagonista, bloccato nel cliché (qui, se non altro ante litteram), della figurina che letteralmente si lascia vivere, e arriva a guardarsi dal di fuori mentre i momenti capitali della sua esistenza si palesano. Personalmente, questo è uno di quei luoghi letterari abusati che mi infastidiscono. Di più, nel vissuto di questo William Stoner non c’è traccia di passione o consapevolezza, eccetto che in una relazione extraconiugale ben poco plausibile e in una estemporanea presa di posizione, in ambito accademico, che guarda caso gli costerà molto cara. Ancor peggiori, nel romanzo, appaiono le nemesi del primo attore: la moglie Edith, che non solo manca di polpa psicologica e caratteriale ma viene a tal punto maltrattata dall’autore, che la chiude in un calco di instabilità psichiatrica ed emotiva, da renderla francamente indigesta. Discorso analogo per il collega, e poi diretto superiore, Hollis Lomax, pure costretto a forza nella sua figurina di storpio incattivito e vendicativo da rasentare alla fine il ridicolo. Il meno peggio è allora la figlia Grace, cui pure Williams non ha ritenuto di dover offrire lo spessore che forse sarebbe stato necessario. Tralascio di rimarcare tutta una serie di altre soluzioni inverosimili a livello di trama, dal figlio unico di contadini poveri che si concede il lusso di una (pur poco redditizia) carriera universitaria al fatto che il medesimo professore, poco apprezzato ma comunque autorevole, non esca in sessantacinque anni di vita da un guscio di centocinquanta chilometri mal contati. Il finale se la cava direi con mestiere, anche grazie a una suggestione toccante piazzata al posto giusto, nonostante un velo di maniera. Non riscatta il libro, però.

Insomma, per quanto mi riguarda, lo status di “cult book” e la scintillante nomea di “capolavoro ritrovato” sono francamente fuori luogo, oltreché generosi. Facendo piazza pulita dei facili entusiasmi con cui venne accolto nel suo rilancio, dieci o quindici anni fa, “Stoner” è un romanzo discreto, buono se proprio siete dei patiti della letteratura sfrondata e dall’andamento molto lento, privo di guizzi o grandi sussulti. Sono troppo severo? Magari sì, e ho accentuato i difetti fino a condannare il libro a una sorta di caricatura. Può anche essere, potrei aver agito con una qualche premeditazione, pur non conoscendo affatto John Edward Williams e il resto del suo lavoro. Il mio guaio, con “Stoner”, è che ho avuto la sventura di leggerlo tra due romanzi di Richard Yates, i soli che ancora mi mancavano e nemmeno i suoi migliori, “Una buona scuola” e “Il vento selvaggio che passa”. Beh, non me ne vogliano gli estimatori di questo testo, ma il confronto a caldo è stato a dir poco impietoso. Anche nei suoi lavori “minori”, Yates riusciva davvero a suonare vivo e credibile in maniera impressionante, sapeva scoperchiare baratri nell’animo dei suoi personaggi, riuscendo a includere con efferata maestria nel ritratto anche noi lettori, scaraventandoci addosso quella sorta di umano pietrisco, ferendoci e sconcertandoci per tutta quella verità. Realismo sporco, si diceva. Beh, non è tra le pagine di “Stoner” che riuscirete a trovarlo.

5.8/10

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1Q84 – Libri 1 e 2 _Letture

       

Diamine se è accattivante l’immagine di copertina. Non parlo di quella straniera piazzata qui in cima, bensì dell’edizione italiana nei Supercoralli che sicuramente vi sarà capitato di incrociare in libreria: la dolce ed enigmatica giapponesina del Mercante in Fiera Dal Negro, piegata a scrutare l’imperscrutabile su una superficie riflettente che le restituisce quel volto da sfinge d’oriente. E’ la cosa migliore di questo libro, e qui vi spiego perché…

 

Tokyo, 1984. Abbandonato in tenerissima età dalla madre, e figlio di un uomo che con ogni probabilità nemmeno è suo padre, Tengo è un trentenne soddisfatto della propria modesta routine. Appassionato da sempre della matematica, per lui autentica comfort zone mentale, si tiene a galla grazie al magro stipendio di insegnante in una scuola superiore, grazie alla consolazione di fugaci incontri erotici – a cadenza settimanale – con una donna sposata che ha diversi anni più di lui, e al sogno, a lungo coltivato, di diventare uno scrittore. Per tecnica, nulla da eccepire, si è sempre rivelato molto più che dotato, ma è l’ispirazione vera, quella bruciante, a fargli difetto. Così i libri che da tempo presenta al concorso nazionale per romanzieri emergenti, del quale è anche selezionatore, non hanno ottenuto ancora nulla più che vaghe attestazioni di stima e richieste di collaborazione da parte dell’esigente – e alquanto controverso – editor Komatsu. E’ poi proprio quest’ultimo a commissionare a Tengo la riscrittura, in chiave migliorativa, de “La Crisalide D’Aria”, opera prima a dir poco sorprendente della misteriosa (quanto acerba) diciassettenne Fukada Eriko, detta Fukaeri. Il mite professore si trova quindi a dover fare i conti con un dilemma morale per un incarico, quello del ghost writer tecnico, che reputa evidentemente una frode. Lo scenario cambia tuttavia non appena il Nostro conosce di persona Fukaeri, idiot savant dal magnetismo evidente e dalla non meno irresistibile avvenenza, intuendo che le vicende da lei narrate nel testo potrebbero non essere semplicemente il frutto di una fervida immaginazione. Strane manifestazioni, in forma di minacciose epifanie, si faranno largo nell’esistenza del giovane dando via via concretezza ad alcune visionarie bizzarrie di un romanzo – “una François Sagan che ha assorbito le atmosfere del Realismo Magico”, nientemeno – destinato a tramutarsi subito in bestseller, assieme a un’accresciuta consapevolezza di sé come autore e come individuo bisognoso d’amore, guidato a riallacciare un legame di due decenni prima rimasto, purtroppo, solo un’inespressa trama del destino.

Scappata ancora bambina dalla casa dei genitori, insofferente ai rigidi dettami di una fede impostale senza riguardo alcuno, la timorosa Aomame si è tramutata nell’arco di vent’anni in uno spietato quanto inesorabile angelo della morte. Armata solo di un rompighiaccio di sua invenzione, al soldo di una donna benestante che con lei condivide i medesimi, dolorosi, “buchi nell’anima”, la ragazza si cimenta nei panni del killer seriale apparentemente privo di emozioni, “portando dall’altra parte” tutta una serie di individui dalla comprovata brutalità nei confronti delle donne, e implicitamente vendicando la morte violenta della sola vera amica che abbia mai avuto. Quando nel mirino finisce il Leader dell’oscura setta Sakigake, pederasta impunito, numerosi foschi segnali le si presentano, facendole intuire di essere stata schiantata – non si sa bene da quale forza sconosciuta o da quale scherzo del fato – in una sorta di mondo parallelo nel cui cielo risplendono due lune e dove il presente che conosceva ha lasciato il posto a una nuova e più subdola realtà, da lei chiamata per pura ipotesi 1Q84. Nel portare a termine quella che ha già deciso sarà la sua ultima missione, cosciente di condannarsi a un’esistenza di solitudine e fuga senza più legami, Aomame si mostra pronta al suicidio ma è scossa nel contempo dal conforto di una storia d’amore che ha radici profonde e che all’improvviso sembra essere diventata ben più che una remota chimera.

Due storie corrono parallele sullo sfondo della Tokyo impassibile del 1984, apparentemente slegate l’una dall’altra eppure destinate a incontrarsi dopo gli innumerevoli avvicendamenti in montaggio alternato orchestrati dall’abile sceneggiatore Murakami Haruki. Che si rivela impeccabile nel dispensare in maniera omeopatica un piccolo indizio dietro l’altro, come molliche di pane sul sentiero, così da alimentare l’interesse del lettore su due vicende in cui davvero poco di sostanziale accade in oltre settecento pagine, e ci si perde semmai nei vertiginosi labirinti del passato di Tengo e Aomame. La scrittura appare però troppo algida, lenta, ingessata, il ricorso alla distopia mostra presto la corda come vuoto espediente di scena mentre la commistione tra noir e fantastico ha più il sapore dell’artificio irrisolto che non del colpo di genio assai spesso evocato (a vanvera) da critica e pubblico. Così l’uso dell’inserto perturbante – i fantomatici Little People – si rivela vincente solo fin quando non viene esplicitamente svelato e scade suo malgrado nel ridicolo involontario, a metà strada tra i nani di Biancaneve e degli elfi con il vizietto del Grand Guignol. Il talento descrittivo resta innegabile, seppur vanificato dalla prolissità e da una reiterazione persino snervante, ma l’aura di mistero e misticismo, così come i velleitari richiami a “1984” di Orwell, si rivela un make-up posticcio che appesantisce una narrazione troppo schiacciata sulle facili suggestioni. Non funziona granché meglio la resa dei due protagonisti, tratteggiati minuziosamente ma in fin dei conti pallidi e immobili nella loro emotività negata, in quello stoicismo poco credibile fatto di eterne rinunce e di passioni infantili, ancorate a un passato comune francamente risibile. Si capisce subito che i loro destini saranno collegati. Peccato che per centinaia di pagine non si vada al di là di uno stucchevole sfiorarsi, che non ripaga il lettore della pazienza e rimanda in modo scaltro a un ulteriore capitolo. Quel “Libro terzo” che – almeno per chi scrive qui – non si muore certo dalla voglia di leggere.

6.1/10

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Le vite di Dubin _Letture

       

Bello e faticoso questo romanzo del grande Malamud. Non è “Il Commesso”, non è “L’Uomo di Kiev”, ma si tratta pur sempre di un libro di levatura notevole. Che richiede molta pazienza al lettore, quindi chi ami il genere frivolo o avventuroso si astenga senza riserve. Beh, a dirla tutta le frivolezze non mancano, e così le “avventure”, per quanto si resti spesso e volentieri nell’orbita dei puri ragionamenti, quelli di una persona anziana e mai troppo appagata oltretutto. C’è un matrimonio stagnante a lasciare il segno, ma anche le corna proprie e altrui, con una bella figliola che non si dimentica. La resa psicologica è superlativa, così come quella atmosferica, o nel tratteggiare l’impassibile ciclo delle stagioni nella tranquilla campagna della provincia americana. Però rimane una lettura lenta e abbastanza crudele, quindi non mi riesce di raccomandarla fino in fondo.

 

William Dubin è un cordiale, spigoloso, disciplinatissimo (anche nella pancia, “sporgente ma non troppo”) uomo di mezza età. Di professione biografo, “improbabile” come tende a definirsi lui stesso ricordando il suo più celebre lavoro, quello su Henry David Thoreau, di cui l’aveva affascinato quell’esistenza a pieno contatto con la natura. “Scrivi le vite che non puoi vivere” è uno dei suoi motti, ovviamente rubato al pensatore di turno, e dietro l’aforisma si cela tutta la sua amarezza di eterno incompiuto. Dubin non è propriamente un entusiasta. Non della sua vita almeno, che rimane un sostanziale omissis, una stanza vuota in cui il Nostro parla da solo, si interroga, rimugina, si preoccupa per i figli lontani e si trova a commentare eventi o situazioni personali con le parole dei grandi personaggi da lui vivisezionati negli anni: Mark Twain, Hemingway, Montaigne, Samuel Johnson e via andando, con una certa predilezione per i tapini famosi – e morti anzitempo – del primo testo da lui pubblicato. Quando si mette all’opera, William “foggia e illumina vite”, si sente come “una formica che si accingesse a divorare una quercia”, bramoso di assimilare l’altrui esperienza per disporla in una “meditata centralità”. Già, l’esperienza. E’ proprio lei il suo tallone d’Achille, il centro nevralgico dei suoi crucci. Ne avverte il bisogno come una liberazione, per trovare davvero un senso alla quiete e all’appagamento tipici di un uomo che è arrivato alla sua età come senza aver vissuto, al centro di un matrimonio raffazzonato con una premurosa casalinga in via di appassimento, Kitty, cui sa di non aver dato abbastanza.

 

La sua nuova sfida ha il nome del poeta e romanziere David Herbert Lawrence, di cui possiede numerosi documenti inediti e per il quale ritiene di poter delineare un ritratto più sottile dei tanti già apparsi. Nell’affrontarla gliene si spalanca però innanzi una di gran lunga più accattivante, rappresentata da una giovane donna in carne ed ossa, la studentessa ventiduenne Fanny Bick, che sua moglie ha da poco assunto come donna delle pulizie. Imprevista, la passione travolge entrambi, ma non viene consumata a letto per lunghi tratti. Prima perché il biografo rifiuta la profferta carnale della ragazza, poi perché quest’ultima lo ripaga facendosi offrire una vacanza fedifraga a Venezia, in cui si concederà non a lui ma a due aitanti giovanotti del posto. L’esperienza, che tenderà a rivelarsi un “cercare la luna nel pozzo”, ha strascichi importanti sul suo metodico lavoro, distratto a più riprese dall’impertinente fantasma della fanciulla, e ancor più sulla sua coscienza via via più logorata dai sensi di colpa nei confronti della consorte. Dubin conquisterà la sua Fanny, a tempo debito e a maturazione (di lei) avvenuta. La perderà e la ritroverà ancora, affinandosi in nuove prodigiose forme di equilibrismo e menzogna. Nel mezzo, almeno un paio di annate all’insegna di tourbillon sentimentali, lacerazioni emotive e contraddizioni umorali: la gelosia nei confronti della giovane, la constatazione del proprio decadimento fisico nelle lunghe parentesi senza di lei, l’arida convivenza con Kitty (un vivere “fianco a fianco, ma non più assieme”), l’ossessionante follia per il proprio lavoro e insieme l’incomunicabilità verso quei figli, Gerald e Maud, cresciuti troppo in fretta e ormai irrimediabilmente altrove.

 

In “Le Vite di Dubin”, Bernard Malamud si è per certi versi superato. E’ stato a tal punto convincente nel tratteggiare la figura noiosamente stantia del suo protagonista da aver reso in buona parte tediosa, per esigenze di veridicità, anche la propria narrazione. A cinquantasette anni, come nei (notevolissimi) flashback giovanili, Dubin riflette infatti l’aspetto e il temperamento di un individuo anziano, sterilmente erudito e passivo a oltranza, un “romantico soddisfatto” cui è sempre piaciuto “desiderare”, uno che “gradiva la presenza delle donne” per un appagamento meramente estetico, contemplativo, uno che confessava candidamente di “sapersi dominare”, salvo poi ritrovarsi schiantato all’improvviso in un’avventura in prima persona del tutto travolgente. L’autore fa spesso riferimento alla “tetraggine” del suo antieroe, macerato dal tormento e da una routine che per chiunque sarebbe insostenibile. Ma i patimenti autoinflitti di Dubin li rivolge poi contro il lettore, straziato dall’interminabile pancia di un libro in cui nulla parrebbe accadere. C’è un momento in cui il protagonista si ritrova nell’angoscioso inverno del suo scontento, sperduto nel raggelante biancore di una tormenta di neve, disorientato nei boschi e impossibilitato a trovare una via di uscita. Bene, per chi legge le suggestioni sono le medesime, anche se a imprigionarlo non sono gli eventi atmosferici (pure resi con fisicità magistrale, così come le stagioni che si avvicendano sullo sfondo) ma proprio il romanzo, pungente e impassibile come i rovesci e l’isolamento. Un grande libro insomma, scritto in maniera superba e forte di una verità psicologica non comune, che richiede tuttavia una pazienza non meno proverbiale al suo fruitore.

7.6/10

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Pastorale Americana _Letture

       

L’altro ieri ho trovato in libreria una copia di “Pastorale Americana” a una manciata di euro. Una prima edizione italiana, un Supercoralli del 1998. L’ho presa senza pensarci un istante, ma non per leggerla, no. Mi vergogno un po’ a dirlo, l’ho acquistata per rivenderla. Viaggia tra i sessanta e gli ottanta euro quella particolare edizione, specie nelle condizioni ineccepibili dell’esemplare di cui sopra. Forse già questo dettaglio – un Supercoralli di appena vent’anni, smerciabile (facilmente) a quelle cifre – rende in maniera adeguata l’idea del culto che si è alimentato negli anni sul conto del romanziere di Newark, puntualmente accreditato come sicuro vincitore del “prossimo Nobel per la letteratura” e immancabilmente beffato dal sudafricano o dalla bielorussa di turno, persino dal cantautore che “moh, vado o non vado a ritirarlo?”. Elementi per giudicarlo in profondità o per scrivere un coccodrillo decente non ne ho, quindi a differenza dei tanti che in queste ore si scoprono sui social “massimi esperti italiani di Philip Roth”, mi astengo. Mi limito a lasciare la recensione senza pretese scritta su Anobii appena due mesi e mezzo fa, dopo aver chiuso l’ultima pagina proprio di “Pastorale Americana”, prima edizione italiana nei Supercoralli, copia personale non destinata alla vendita. Eh sì, ne ho trovate e comprate due a pochissimo nel giro di tre mesi. E’ che mi stavo dando una svegliata e intendevo provare a vederci chiaro sull’annosa questione “Roth & il nobel: uno scandalo o la giusta pernacchia?”. “Il Lamento di Portnoy” e “Complotto Contro l’America” mi fanno l’occhiolino là sullo scaffale, ma ho scelto di ignorarli ancora un po’. A questo punto la faccenda perde infatti d’interesse, per quanto già mi aspetti quelli che rivendicheranno la magnifica opportunità di un Nobel “alla memoria”, così da colmare la mancata assegnazione di quest’anno a Stoccolma. Per sapere se il libro e Roth mi sono piaciuti, ad ogni modo, vi tocca proseguire nella lettura, tié.

 

Stati Uniti, anni novanta. Quale razza di sventura è toccata in sorte a Seymour Irving Levov – da tutti ribattezzato affettuosamente “lo svedese” – che nella brulicante, operosa Newark degli anni quaranta e cinquanta era venerato come una sorta di “domestico Apollo ebreo”, nel quartiere di Weequahic ma non solo? Dapprima campione locale di pallacanestro, football e baseball, quindi addestratore nei Marines, imprenditore e cittadino esemplare, marito di una (tormentata) ex reginetta di bellezza nonché padre irreprensibile, non ha mai mancato di danzare col successo ma neppure si è lasciato intortare dalle sue lusinghe finendo per montarsi la testa.

 

Ora comunque non è più della partita, un cancro alla prostata lo ha portato via a nemmeno settant’anni, ma forse è già parecchio tempo che il suo annientamento si è compiuto. Per ripercorrere la sua parabola ci viene offerta la testimonianza a tratti devozionale dello scrittore Nathan Zuckerman – l’alter ego di Philip Roth – informato della sua fine dal fratello di lui all’annuale raduno degli ex studenti del locale liceo, in una occasione “mondana” di per sé già piuttosto deprimente.

 

Il narratore non impiega molto per congedare l’ingenua opinione che conservava da secoli sul conto dell’illustre concittadino. Gli è sufficiente soffermarsi per pochi istanti sulla cruda verità che questo suo vecchio compagno di scuola, Jerry Levov, gli affida con sincerità quasi brutale. Si spalanca così tutto un altro teatro, e al centro della scena scopriamo che lo svedese, uomo integro ma opaco, “costruito per il conformismo e la responsabilità”, era in realtà stato annichilito dagli eventi già una trentina di anni prima quando la problematica figlia adolescente, Meredith (per tutti Merry), aveva deciso di “riportare la guerra in America” piazzando un ordigno in un piccolo emporio e uccidendo un uomo innocente.

 

Una scheggia impazzita cresciuta a pane e valori. Un particolare momento storico, l’inasprirsi del conflitto vietnamita voluto da Lyndon Johnson, alla fine degli anni sessanta: una miscela micidiale che avrebbe mandato in mille pezzi la fiduciosa utopia di quel mite protagonista, “sbalzandolo dalla tanto agognata Pastorale Americana” per scaraventarlo “nella sua antitesi, il furore, la violenza e la disperazione della Contropastorale, l’innata rabbia cieca dell’America.

 

Evidentemente sconvolto da un’evidenza che mai avrebbe immaginato, Zuckerman/Roth diventa preda di questa ossessione e decide di scambiare la propria solitudine con quella di quell’individuo che così profondamente aveva mitizzato in tenera età. Di più, sceglie di “abitare questa persona” tanto diversa da lui, di sparirvi dentro e trarre dalla sua intima tragedia l’ispirazione per un nuovo romanzo. Che è appunto questo “Pastorale Americana”, un affresco corale che conserva intatta la fragranza dei classici – che avanza, persino, ambizioni più o meno legittime al titolo di Great american novel – e insieme il dramma esistenziale di “un uomo giusto al momento sbagliato”, la bandiera stessa del logoro mito dell’integrazione esposta al fortunale inatteso dei nuovi barbari, allevati in quelle stesse case rispettabili “dove va sempre tutto storto”, gli “apocalittici” della contestazione (pre-)sessantottina.

 

Sullo sfondo di un intreccio formidabile, “scosso” come un cavallo al Palio ma non abbastanza da ingarbugliarsi senza rimedio, vediamo sfilare due decenni e mezzo di epopea yankee, con l’acuirsi quasi tangibile delle contraddizioni di un paese sempre meno propenso a credere all’abbagliante splendore dell’American Dream, tra delocalizzazione selvaggia e conflitti razziali ogni giorno più insensati e brucianti.

 

E in questa sua amara dimensione polifonica che “Pastorale Americana” rende forse al massimo, nella brusca presa di coscienza di una collettività di irriducibili ottimisti, svegliati come da un boato improvviso, travolti senza nemmeno poter azzardare una reazione dallo schianto di un sistema valoriale andato a catafascio e condannati a languire in un disincanto raggelante, privi di certezze e con in mano bussole oramai inservibili. Non potrebbe funzionare, tuttavia, se Roth non avesse costruito a monte una caratterizzazione vivida e impeccabile come quella dello svedese, giudice impietoso di se stesso, strapazzato dalla fatalità di una Storia che non mostra alcun riguardo per l’etica sobria e ineccepibile alla quale ha consacrato la propria esistenza.

 

La sua “resa incondizionata” alla tragedia, di grande finezza psicologica, è magistrale come le superlative (ma laceranti) riflessioni sul tema della memoria, della perdita, del fallimento, così come i ritratti della consorte, l’eternamente insoddisfatta Dawn Dwyer, e del patriarca Lou Levov, ormai fuori contesto come l’eccellenza del vecchio guanto di pelle. Lo stesso non si può dire invece di quelli, prossimi alla caricatura, della scriteriata rampolla e del fratello cinico oltre il lecito, uniche vere pecche narrative di una macchina che a tratti sfiora la perfezione, salvo poi pagare qualcosa in faciloneria didascalica volendo estremizzare a tutti i costi. Gran bel libro comunque, di quelli che si vorrebbero divorare senza arrivare mai all’ultima pagina.

8.5/10

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Tempi duri, Saint Glinglin! _Letture

       

E’ una delle opere più pazze di Queneau questo “Tempi duri, Saint Glinglin!”, folle già per quella genesi d’impronta teatrale dilazionata in tre tempi nell’arco di un quindicennio, e resa un parto faticoso dai continui stravolgimenti e dalle fratture di una forma dilaniata tra monologo interiore, narrativa tradizionale e composizione poetica. Un coacervo di tensioni espressive che la pluralità dei riferimenti culturali – dal mito alla psicanalisi, dal trattato filosofico allo sberleffo surrealista, con un’occhio di riguardo per l’indagine antropologica – avrebbe portato a esplodere in un romanzo incoerente, visionario e debordante. Un romanzo à la Queneau, in pratica…

Pierre Nabonide è un giovane dilaniato dall’inquietudine. Si trova suo malgrado a vivere una sorta di esilio nella “Città Straniera”, dove studia senza alcun profitto l’idioma locale per compiacere il padre e non rendere vana la borsa onorifica che questi si è premurato di assicurargli con grandi sacrifici. Vorrebbe consacrarsi alla scienza della vita ma poi si strugge dinnanzi all’insensata acquesistenza delle creature nel giardino zoologico della fantomatica località estera: aringhe, murene, crostacei e poi i più miserabili di tutti, i pesci cavernicoli. La sua crisi personale raggiunge l’acme alla vigilia della festa patronale di Saint Glinglin, la “Città Natale” abitata dalla sua famiglia e da tutti gli altri “urbinataliani”: il suo ritorno a casa in coincidenza con i festeggiamenti rovina i piani populisti del genitore, il sindaco (un podestà più che altro) universalmente noto come Nabonide tout court (proprio come l’ultimo sovrano di Babilonia), che nei circenses sfrenati della cerimonia ha investito tutto e sperava di distrarre al meglio la collettività. Peggio, la sua ostinazione nel rendersi protagonista di un comizio pubblico apparentemente privo di senso alimenta le malelingue dei notabili meno allineati (Catogan e Paracole) che, a differenza degli altri (Le Busoqueux, Machut, Zostril, Marqueux, Rosquilly, Saimpier, Choumaque), cospiratori silenziosi, non tardano a lamentare apertamente (ma sterilmente) la cattiva gestione in atti pubblici e privati dell’illustre personalità.

Nella cornice invariabilmente alticcia dell’avvenimento, con la popolazione che avalla lo status quo, fracassa giubilante ogni sorta di manufatto in ceramica plasmato per l’occasione e si stordisce tracannando una bottiglia dietro l’altra di Fifrequet e Trapu (o gozzovigliando con il piatto tipico della festa, la super-zuppa di verdure e carne Brouchtoucaille), gli eventi precipitano: mentre si scopre che il primo cittadino teneva segregata una figlia ignota (e del tutto alienata), Helene, questi fugge nella zona impervia delle Colline Aride inseguito dalla prole adirata e trova la morte dopo una rovinosa caduta nella Sorgente che pietrifica. Recuperato, il suo corpo di granito viene eretto a mo’ di statua commemorativa nella piazza principale ed è proprio il figlio Pierre, pure contestatissimo, a raccoglierne il testimone. Un anno più tardi, avvicendamento a parte, nulla di significativo sembra essere davvero accaduto: cittadini, contadini e turisti persistono nelle loro esorbitanti digressioni etiliche, il cerimoniale bislacco della festa continua a calamitare le attenzioni di tutti, lo scaccia-masse-di-nuvole che garantisce il bel tempo perenne è regolarmente in funzione e i polemisti di professione sono sempre in circolazione, velenosi quanto inefficaci nelle loro invettive.

C’è in realtà una nuova forma di sfavillante intrattenimento, introdotta come ogni piccola grande novità dal commerciante e importatore Mandace. E’ il cinematografo, con il suo mondo dorato di stelle e stelline straniere, su tutte quella Alice Phaye che è diventata un’autentica ossessione per il secondo fratello Nabonide, Paul, e che fa visita alla Città Natale giusto alla vigilia della nuova Festa di primavera. Siamo invitati a seguirne la cronaca dalla prospettiva defilata – e in fondo privilegiata perché non viziata dalla locale follia – del turista ed etnografo Dussouchel, testimone smaliziato della fine di un’era e delle sue tradizioni, quando il marchingegno che preserva il clima sereno viene gettato nella discarica da Pierre, la pioggia fa irruzione, vasche e acquari si colmano subito in attesa di ospitare gli adorati pesci e la statua tombale viene dissolta nello sconcerto generale. Il frantumarsi di ogni regola consolidata mentre la pioggia battente comporta nuove forme di assuefazione per gli Urbinataliani, condurrà a esiti imprevedibili prima che la dissoluzione dei quattro fratelli Nabonide riconsegni la cittadina all’impassibile autorità del bel tempo perenne e di nuovi cicli di eventi.

Scritto in tre tempi nell’arco di un quindicennio (1933, 1938, 1948), con più di un’addizione e più stravolgimenti sulla base delle prime embrionali incarnazioni, “Gueule de pierre” e “Les Temps Melés”, pur senza mai trasfigurarne del tutto l’originario impianto teatrale, “Saint Glinglin” è una perfetta manifestazione dell’inventiva strabordante di Raymond Queneau. Come già per altre e più celebrate opere dello scrittore di Le Havre, non si tratta certo di un testo poco impegnativo, specie per chi patisca le ingegnose trovate lessicali o il nonsense esercitato apparentemente a tutto campo. In anticipo di qualche anno sulle sublimi esternazioni surrealiste del miglior Boris Vian (viene in mente, soprattutto, l’alienante altrove de “L’Autunno a Pechino” e “Lo Sterpacuore”), questo disagevole romanzo si presenta in realtà come una riuscita rielaborazione dei più svariati topoi letterari pescati dalla psicanalisi (la dialettica padre-figlio mutuata dal Freud di “Totem e Tabù”) alla mitologia (Edipo è ovunque), dall’antropologia (il parallelo tra le usanze della Festa di Primavera e il rito del Potlàc descritto da Marcel Mauss nel suo “Saggio sul dono”) alla filosofia della storia (il principio della circolarità hegeliana, sempre aleggiante). E’ originalissimo in particolare, per quanto faticoso in lettura, il trattamento della materia narrativa, articolata in sezioni rigorosamente strutturate sulla norma di un’irriducibile discontinuità. Sette parti per tre diverse tipologie espressive, corrispondenti ai caratteri dei tre rampolli Nabonide: tre monologhi interiori che riflettono la rivolta di Pierre (o l’alienazione di Helene), tre canonici frangenti descrittivi in terza persona a rappresentare il conformismo di Paul e una composizione poetica che simboleggia l’evasione del giovane Jean.

Gli spunti sono insomma numerosissimi anche se il sottofondo disturbante, l’ossessiva inclinazione a un simbolismo quantomeno elusivo e il costante ricorso al sabotaggio linguistico (vedi l’esclusione della lettera “x” nel corpo di ogni parola) possono mettere a dura prova il fruitore facendolo battere in ritirata. Sarebbe un peccato ma ci può stare, il Queneau eccentrico e allucinato di “Saint Glinglin” è quasi un lusso in questi tempi di fantasia liofilizzata e livellata verso il basso. Affabula come da copione pur rivelandosi meno pirotecnico – per citare un’opera stranota e per certi versi paradigmatica – che in “Zazie nel metrò”. Il tono è più crudo, grottesco come nei primi, umidi film di un Jean Pierre Jeunet (“Delicatessen” ci si è ispirato?) e con trovate macabre a dir poco gustose (i morti gettati senza cerimonie nella “marmellata di fango” della discarica). Resta volutamente irrisolto, con il suo bel finale visionario al culmine della spirale di vertigine immaginata dall’autore, e va preso per quel che è: niente più che un sofisticato esercizio ludico sul tema dello scorrere del tempo, sull’eterno contrasto tra generazioni e sull’inutilità (forse) delle lezioni di una Storia al solito cinica e impietosa.

7.6/10

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Sotto una Buona Stella _Letture

       

Era un bel po’ di tempo che non scrivevo qualcosa su Richard Yates. Lo faccio ora nel presentare l’ultimo dei suoi titoli pubblicati in Italia, “Sotto Una Buona Stella”, all’esordio assoluto in italiano nonostante si tratti del secondo romanzo del Nostro e sia vecchio quasi mezzo secolo. Evitare di ripetere quanto già detto in precedenza è impossibile, e allora lascio parlare la recensione. Giudizio arrotondato a 9.0 perché non si possono affibbiare a Yates meno di cinque stelle… 

 

Robert Prentice è un diciottenne fresco di diploma, ma non esattamente il classico giovanotto di belle speranze. Nell’imminenza di un futuro che già bussa prepotente alla sua porta non ci sono impieghi favolosi, né relazioni con fanciulle da cartolina, bensì i campi di battaglia europei del secondo conflitto mondiale ormai agli sgoccioli. Il ragazzo non sarà certo un fenomeno di maturità e consapevolezza ma non pare darsi pena del destino che incombe. In fondo, la guerra può rappresentare un’opportunità formidabile e fare di lui l’eroe che ha sempre sognato di essere, nell’ingenuità di quelle sue prospettive così limitate. E poi, a guardar bene, che cosa lascia a casa? Una famiglia che è solo sua madre Alice, donna assillante oltre ogni immaginazione, e nient’altro: beni, passioni, progetti concreti. Proprio nulla. Nemmeno la suddetta casa, in fin dei conti, visto che dai tempi lontani del divorzio dei genitori ha sempre vissuto la pena di un’esistenza girovaga attraverso gli Stati Uniti, un patetico e lento declino – dal benessere impossibile della buona società di provincia a sistemazioni sempre più umili e avvilenti – a rimorchio della donna e delle sue ambizioni ormai irricevibili.

 

Il fronte come fuga dall’infelicità e dal vuoto delle sue giornate, il fronte come riscatto definitivo. Questo sulla carta, dove non fa una piega. Ma quelle speranze così gracili non potranno che infrangersi contro il muro della realtà, nel fango del Belgio, della Francia, della Germania, per tradursi in una nuova forma di incompiutezza e smarrimento. Se non altro, però, il disincanto accumulato in pochi mesi avrà buon gioco nel mandare in pezzi quella vecchia catena, di frustrazione e dipendenza, che lo opprime dal primo giorno. Un futuro, forse, sarà ancora possibile per lui.

 

Impacciato, indifeso, invidioso delle coppiette che incontra per le strade di New York nell’ultima licenza prima di partire. E’ così che ci viene presentato (ri-presentato in realtà, essendo già apparso in uno dei racconti di “Undici Solitudini”) il mite, imbelle Bobby, primo vero alter-ego dello scrittore di Yonkers, qui al secondo romanzo (“A Special Providence” sarà pubblicato nel 1969, otto anni dopo “Revolutionary Road”). Per inquadrare Alice con la necessaria precisione, non occorre molto di più, anzi. Bastano un paio di pagine e la si è già riconosciuta senza possibilità d’errore, la madre di Yates che abita tutte le sue opere con quell’intonazione tra lo sfatto e il nevrotico, e un bicchierino di whiskey sempre a portata di mano. Una donna inerme, minuta, stanca, ansiosa di piacere e di non passare per la fallita che è. Una donna che sognava di affermarsi come artista eminente, scultrice che plasma la creta e lavora la pietra grezza, ma le cui velleità sono state piegate presto da avversità di varia natura, un matrimonio senza capo né coda, un altro legame sentimentale minato dall’inganno e la grande depressione implacabile sullo sfondo, beffardo accompagnamento al disfarsi del suo personale sogno americano.

 

Un’ “odissea isterica”, la sua, alleviata solo dall’amore e la fede incondizionati di suo figlio, quel “meraviglioso cameratismo” a lungo vagheggiato e in cui si troverà a credere solo più lei, visto che il sentimento del ragazzo piegherà piuttosto verso una “pazienza cupa e amorevole”. Nei suoi confronti Robert pare dilaniato, tra il disprezzo silenzioso per la sua ignoranza, per il suo ottuso egocentrismo e le sue bugie, e l’impossibilità di affrancarsene, di sgravarsi di una pietà che è anche e soprattutto un “cercare rifugio nella consolazione” di quelle stesse menzogne condivise.

 

Ancora una volta i personaggi di Richard Yates appaiono schiavi indimenticabili. Di se stessi, ovvero dei propri sogni impossibili, ma anche degli altri, dei loro affetti e, come se non fosse abbastanza, dell’alcool in cui affogare tutta la loro sconfinata (e altrimenti non silenziabile) amarezza. Dopo un’introduzione a mo’ di ribalta condivisa, prima della partenza di Bobby per l’Europa, ecco lo sguardo del narratore americano seguire i suoi protagonisti come in montaggio alternato, la sua lucida prospettiva realista a fare da comune denominatore: il presente di Robert, dapprima giovane zimbello dei commilitoni nel campo addestramento reclute, quindi fragile soldatino senza carattere in balia degli eventi nel teatro bellico; e i trascorsi di Alice annientata nella solitudine, illusa dalla gentilezza del nuovo compagno, Sterling Nelson, tormentata dalla garbata disapprovazione della sorella Eva, pervicace nel suo ottimismo stoico e un po’ triste.

 

Rispetto alle altre donne dei romanzi di Yates, Alice è segnata da una disperazione placida e mai davvero rovinosa. Soffre in silenzio ma non si abbatte, nonostante quel senso di abbandono ritornante, e non si piega al rancore come diverse sue omologhe in altre opere (si pensi alla straordinaria Grace di “Cold Spring Harbor”), non è incattivita da un livore allo stadio terminale.

 

In ultimo, il ritorno al fronte e a un conflitto che si conclude nella desolazione. Un compagno d’armi morto fuori scena in modo assurdo, e tutto che sembra sempre più privo di senso, nella maniera più banale possibile. Se il cameratismo si rivela nulla più che una fugace illusione, la guerra stessa non potrà essere che l’espediente per espiare colpe soltanto immaginate. Ma anche questa, nel gioco a schema libero del caso, resta una pur vana speranza. A differenza che nei film, i combattimenti non plasmano eroi, non servono a regolare conti o a dimostrare alcunché. Soprattutto, non offrono risposte che già non si conoscano. L’implicito parallelo tra i due soggetti pare, in tal senso, evidente. Bobby sui campi di battaglia è come la madre in giro per gli States, sballottata da una destinazione all’altra senza mai riuscire ad essere l’attrice della sua stessa esistenza: entrambi inadatti, entrambi fuori contesto e fuori fuoco, entrambi rassegnati a mentire a se stessi per non dover guardare in faccia la realtà e provare a cambiare le cose. Ma se Bobby alla fine riuscirà a fare quel minimo scatto, il medesimo sussulto verrà negato ad Alice, e la sua resa all’inganno sarà ineludibile.

 

Pubblicato per ultimo in Italia solo grazie all’opera meritoria di Minimum Fax, “A Special Providence” è l’ennesimo grande romanzo del narratore statunitense. Forse il meno crudele, a dispetto dei temi affrontati, di certo il più autobiografico. In alcuni frangenti (su tutti la parentesi-miraggio in cui appare il falso gentiluomo Sterling Nelson, o la patetica fissazione con cui Alice si aggrappa a quella remota istantanea di notorietà, pubblicata da una nota rivista), siamo senza dubbio dalle parti del miglior Yates.

9.0/10

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Pornonazi _Letture

       

Oh, questo è davvero un romanzone favoloso e mi fa piacere presentarvelo. “Pornonazi”, titolo che è tutto un programma ed è assistito a dovere dagli stralci fuorvianti della critica piazzati con scaltrezza nella quarta di copertina. Poco nazismo grazie al cielo, almeno in termini nostalgici, e ancor meno sporcaccionate stile Cinquanta Sfumature. In cambio una spy story che si diverte a volare altissimo, specie quando il crepuscolo decadente si infiamma su una Germania prossima all’anno zero. Caldamente consigliato!

Febbraio 1941, Berlino. Karl Fußmann è un giovane chimico, magnetiseur amatoriale e feticista degli stivaletti. E’ appena stato assunto come assistente scientifico presso l’Istituto d’Igiene delle SS, al servizio di una “selezionata comunità di accademici falliti e addormentati”, per sintetizzare un rimedio contro la malaria che consenta alle truppe di Rommel di non rischiare di perdere la cruciale campagna militare nei deserti del nord Africa. Insofferente alle ipocrisie borghesi della bella società, l’“assembramento di larve e parassiti” frequentato dalla fidanzata Johanna, rappresentante di moda e cantante su lussuose navi da crociera, recita la parte di una tranquilla coscienza critica nel retrobottega del regime nazionalsocialista. Quasi subito viene assegnato alle dipendenze del sottotenente SS conte Ferfried Gessner detto Ferrie, aristocratico, sportivo, dandy, di bella presenza e con una passione per l’entomologia e i documentari.

 

Mentre il suo talento comincia a farsi apprezzare nei laboratori del Reich, è proprio il brillante superiore ad “assoldarlo” per una segretissima missione collaterale, consistente nel recapitare preziose pellicole a colori Kodak al suo cameraman di fiducia, Aurel B. Holsten, nell’arcadia montana di Berchtesgaden, alta Baviera. In questo luogo, prossimo al celebre rifugio hitleriano del Berghof, Ferrie e il suo sodale realizzano i film pornografici della loro clandestina società cinematografica, la Sachsenwald Naturfilm GmbH, a quanto pare su incarico di alti papaveri per far sì che le truppe non sfoghino i propri bollori con meretrici malate di sifilide, in realtà per ottenere ricchissime concessioni petrolifere dai magnati in Libia, pronti a fare follie per materiale di questo genere.

 

Proprio nella residenza del conte Gessner, Fußmann viene sedotto con l’inganno dalla fascinosa pornoattrice Lotte, che gli si concede nel bel mezzo di un’escursione nella natura e lo fa filmare a tradimento da Holsten, così che faccia da rimpiazzo al prestante coprotagonista della pellicola, resosi irreperibile. Per Karl è l’avvio di una perversa spirale di ossessione, minacce – dal protettore della donna, il sadico Detsen, come dal responsabile dell’Istituto di Igiene, Böhme, che sospetta traffici loschi – e sesso a pagamento nell’esclusivo bordello berlinese in cui la donna si prostituisce. L’attrazione è fatale, l’“incontro fortuito di un ombrello con una macchina da cucire”, ma l’inabbordabile tariffario del postribolo costringe il malcapitato, sull’orlo di un baratro emotivo ed economico, a chiedere un prestito al facoltoso padre di Johanna, nel frattempo messa incinta in una delle rarissime occasioni a disposizione della coppia.

 

Quando l’ambiziosa Lotte, pure coinvolta dalla relazione con il giovane scienziato, sceglie di inseguire il sogno di una carriera cinematografica di rango in quel di Babelsberg (la Hollywood tedesca) e rifiuta la sua proposta di matrimonio, Fußmann si vede costretto ad accettare l’ordine di trasferimento in Libia, per trovare sul campo un rimedio alla malaria dopo i reiterati fallimenti di uno svagatissimo (e ora morto, pare) Ferrie: è la sola via di uscita possibile all’intricato garbuglio in cui si trova invischiato e a una vita senza più stimoli accanto a Johanna e al figlio indesiderato.

 

Ma in Nord Africa il Nostro antieroe si trova coinvolto in una serie di eventi tragicomici e di rocambolesche situazioni, sfuggendo per il classico rotto della cuffia ai tentativi di assassinio di un paio di sicari vecchio stampo, al doppiogiochismo di chi proprio non si aspetterebbe e allo spietato Detsen, salvato per ben tre volte da uno strano angelo custode, il “ragazzo magnetico” Kornel, per poi fare ritorno in una Germania rasa al suolo solo diversi anni dopo. Negli Stati Uniti inarrestabili del primo dopoguerra sembrerebbe poter coronare il sogno di quella passione senza eguali con la sola donna che abbia saputo stregarlo anche se, a quanto attestano le indagini di un investigatore privato, mandato dai genitori di Johanna a investigare, il destino sembra avere per lui e Lotte ben altri piani, quando tutta la follia vissuta in cinque intensissimi anni gli presenta un conto salatissimo.

 

Mai come nel caso di “Pornonazi”, le enfatiche etichette piazzate in controcopertina dall’editore suonano come un bieco specchietto per le allodole. “Sesso, molto sesso, nazismo, ancora più nazismo” recita il recensore del Guardian. Niente di più falso. Chi vada in cerca di uno squallido romanzaccio erotico casca male, perché di sesso in queste cinquecento e passa pagine ne incontrerà pochissimo. E meno male, vien da pensare, visto che il capitolo dedicato alla malata liaison carnale tra i due protagonisti è il più lungo e ripetitivo del libro, ancorché vergato da una penna eccellente e con la giusta dose di sarcasmo. Ma si devono rassegnare anche i patiti morbosetti del grottesco immaginario nazistoide, visto che di quella delirante ideologia in quest’opera non resta che un pallido simulacro, abilmente svuotato e messo alla berlina da un autore che non potrà certo essere tacciato di scomode o nostalgiche simpatie.

 

Il critico del Frankfurter Allgemeine Zeitung lo definisce “ideologicamente scandaloso” per tirargli la volata? Mente, o più prosaicamente non è abituato a maneggiare il politically uncorrect e ne fa oggetto di scandalo. Meglio glissare invece sul tizio del Leipzig Almanach (nientemeno!) che tira in ballo a sproposito i vari Quentin Tarantino, David Lynch e – poteva essere altrimenti vista la carne che sfrigola sul fuoco? – l’immancabile Houellebecq. Restando alle corrispondenze cinematografiche, più facile riconoscere echi del Visconti de “La Caduta degli Dei”, in una cornice dionisiaca e pimpante à la Russ Meyer, mentre è più che relativo l’eco dal postmodernismo da crepuscolo de “L’Arcobaleno della Gravità”.

 

Kunkel comincia senza clamori, con il controllo da manuale di una prima parte che è quanto mai ideale per introdurre un personaggio complesso come Fußmann, e insieme le ambiguità del ben più sfuggente Ferrie. L’andatura è piana e il bel mondo di una Berlino ora ignara e festante sull’orlo dell’abisso, ora ipocrita e disordinata dietro il rigore metodico della facciata d’apparato, è tratteggiato con misurata ferocia. A fare da contraltare farsesco, ecco peraltro le parentesi boccaccesche ma demenziali dei set a luci rosse nei boschi delle Alpi salisburghesi.

 

A inframmezzare una narrazione descrittiva che vede convergere i due protagonisti maschili, fino all’incontro quasi mistico con la “puttana angelicata”, pensano gli inserti epistolari di quella sorta di eminenza grigia che è il ginecologo Waldemar F. Pfister, socio occulto della Sachsenwald, maestro di una perversione di stampo scientista ed endorser della spregiudicata Lotte, in merito alle sconclusionate sceneggiature dei film. Della porzione di libro riservata al legame alquanto spinto tra Karl e la sua bella si è detto. L’impennata vera arriva però subito dopo, quando “Pornonazi” decisamente cambia passo. Con Fußmann in Libia i contorni si tingono di giallo e si sconfina in zona spy story con buona autorevolezza.

 

Ma il romanzo decolla e vola altissimo soprattutto quando racconta il disfacimento del Reich nella sfarfallante prospettiva dei decadenti Lotte e Holsten, persi nel loro mondo di stravizi e immoralità mentre tutto attorno crolla miseramente e la guerra è di fatto perduta. Il debole dell’autore per una ricostruzione storica certosina si esprime qui al meglio, senza silenziare la follia (auto)distruttrice del regime hitleriano ma senza tacere nemmeno le brutalità belliche delle truppe alleate, o quelle bestiali dei russi piombati su una Berlino allo stremo. Sono pagine crude, potenti, nerissime, eppure Kunkel trova il modo per regalare un ultimo sferzante ghigno tramite il cameraman della Sachsenwald. Non meno foschi e densi di inquietudini sono i capitoli riservati alla fuga dall’Africa di Karl e dell’amico Kornel, Doctor Magneto & The Quicksilver Kid, o al camaleontismo di un Ferrie rinato come principe degli opportunisti nel teatro postbellico. Inevitabilmente, considerato il tenore romantico e disperato di “Pornonazi”, il finale riserverà una buona fetta di miseria a tutti (o quasi) gli attori principali.

 

Peccato solo per quell’appendice di una trentina di pagine abbastanza insulsa, per come scelga di esplicitare un seguito che sarebbe stato ben più opportuno celare in un ininterrotto fuori campo. Un grande romanzo ad ogni conto, scritto magnificamente. E anche una storia d’amore (e morte) piacevolmente fuori dagli schemi.

8.5/10

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Il Vengelo Secondo Biff _Letture

       

Ancora Chris Moore e ancora un titolo sull’esilarante andante.O forse no, nemmeno poi troppo. Perché è sull’inclinazione allo sberleffo che vertono sempre le critiche, ora entusiaste ora indignate, di chi per un verso o per l’altro ha contribuito a fare di questo “Lamb: The Gospel According To Biff”, Christ’s Childhood Pal” il più celebre testo dello scrittore dell’Ohio nonché un vero e proprio fenomeno di culto. Non è tutto oro quel che luccica ma il romanzo è davvero grazioso.

 

Dopo quasi duemila anni nella polvere, Levi detto Biff viene riportato in vita, affidato alle cure energiche dell’angelo pasticcione Raziel, e riceve dall’alto un incarico a dir poco prestigioso: dovrà occuparsi della stesura di un nuovo Vangelo a proprio nome incentrato sulla figura di Gesù Cristo, suo migliore amico in Galilea sin dalla più tenera età e fino alla drammatica conclusione della sua esperienza terrena. L’apprendistato dell’allora aspirante Messia ci viene così narrato senza filtri, dall’allenamento nella pratica miracolistica svolto resuscitando lucertole all’immancabile pretesa di impersonare un eroe a scelta (Davide, Mosé, se stesso) nei giochi di ruolo tra bambini, e dalla superbia dell’adolescente saputello in materia di sacre scritture alla spasmodica ricerca della verità sulla sua missione celeste, con una fragilità, un’insicurezza e un candore che non si potrebbero immaginare più umani. Ad accompagnarlo passo dopo passo ecco dunque Biff, fedele compagno di una vita “escluso a sorpresa dai vangeli ufficiali”, in quel Nuovo Testamento “posticcio” aggiunto alla Bibbia da “quattro testimoni di dubbia affidabilità”.

 

Nuove fantasmagoriche avventure sono così vagheggiate dalla prospettiva privilegiata di un testimone irresistibile che non impiegherà molto a delinearsi, anche e soprattutto, come attore coprotagonista in scena. Seguiamo i due ragazzini ebrei in un viaggio di oltre tre lustri lungo i minacciosi itinerari della Via della Seta, all’inseguimento dei tre savi che visitarono il bambino divino nella mangiatoia e che dovrebbero avere tutte le risposte indispensabili riguardo la sua più autentica natura: un lungo e tortuoso percorso verso la piena conoscenza di sé, agevolato dagli incontri con il (fiabesco) Baldassarre in una misteriosa fortezza di roccia nell’attuale Afghanistan, complice un manipolo di sensuali cortigiane dagli occhi a mandorla e i nomi chilometrici, con il rigorosissimo Gaspare in un monastero sulle alture cinesi, e con lo svitato Melchiorre, maestro di meditazioni, in India. Solo al termine di questa pirotecnica sfilza di peripezie – dallo scontro con divinità degli inferi all’incredibile amicizia con uno yeti, e dai sanguinosi sacrifici di innocenti alla dea Kali all’abecedario tantrico del Kamasutra – Gesù potrà tornare a casa con l’irriducibile consapevolezza del Cristo e potrà dare forma al suo breve ministero in terra così come ci è sempre stato tramandato, diretto a velocità supersonica verso un destino già scritto.


E’ in queste parole del vangelo di Giovanni, citate nella postfazione, che va ricercata la scintilla da cui è scaturita questa nuova, ardita esplorazione narrativa di Christopher Moore. Ancora una volta lo scrittore dell’Ohio si cimenta con virtuosismo e spirito ironico con una parodia, anche se il risultato appare assai più misurato e decisamente meno farsesco di quanto non raccontino gli entusiasti estimatori – numerosissimi – che hanno aiutato “Il Vangelo Secondo Biff” a raggiungere l’agognato status di cult book. Non ci sono dubbi che il romanzo sia effettivamente brillante e spesso divertente, merito di un narratore guascone e di un eroe tenerissimo e per ampi tratti distante anni luce dal canone dell’agiografia universale. Non mancano, stando al tenore di alcuni tra i commenti su Anobii, le anime candide che puntualmente si indignano e parlano magari di lesa maestà, trincerate in maniera patetica dentro le quattro mura fasulle di tanto cattivo catechismo. Allo stesso modo non sono mosche bianche quelli che sottolineano – come un merito o una colpa, fa lo stesso – l’irriverenza di un testo che irriverente non è e nemmeno aspira ad essere. La verità è che il libro in questione è un’operina deliziosa e tutto sommato cauta, non la migliore dell’autore statunitense ma senz’altro una delle sue più misurate e coerenti, dove le digressioni fantastiche sono funzionali alla morale scelta e non appaiono, a dirla tutta, neanche così strampalate come potrebbe sembrare a una prima, distratta fruizione.

 

Gli insegnamenti del Budda, di Lao Tzu e Confucio, i precetti dell’induismo, persino l’ecumenico invito all’amore fraterno nel testamento spirituale di un improbabile profeta come l’uomo delle nevi (per nulla abominevole), si incastrano alla perfezione nel quadro di un addestramento alla tolleranza e alla non violenza che copre come per magia il lungo iato nella vita del Messia. Così “Il Vangelo Secondo Biff” può essere letto come il libro che, con ogni probabilità, doveva essere nelle intenzioni di Moore: un anomalo romanzo di formazione. E la storia di un’educazione sentimentale anche, con il contributo indispensabile dell’eroina – riscattata dalla fama ingiusta di meretrice – Maria Maddalena, anzi, Maddi. C’è qua e là, è vero, quel tocco satirico gentile e un po’ dada à la Brian di Nazareth, ma resta disciplinato, non straborda mai nella burla fine a se stessa e può vantare una solida ricerca e documentazione a monte. Queste le maggiori note di merito di un testo piacevolissimo ma solo a tratti davvero esplosivo (su tutte, le pagine dedicate alla prima avventura in oriente, quella nella fortezza di Baldassarre) che nelle battute conclusive praticamente dimentica gli inserti grotteschi con l’angelo teledipendente Raziel e si fa persino serioso, attento a ricalcare quasi mimeticamente le vicende più note del ministero di Cristo (dal battesimo per mano del cugino Giovanni alle nozze di Cana, dal discorso della montagna all’exploit nel tempio e la Passione) così da guadagnare punti in chiave programmatica ma perdendo parte del suo fascino.

 

Mezza stella in più per le fantastiche citazioni, anche inventate, piazzate per introdurre ogni svolta significativa nel racconto. La migliore a mani basse (“Gesù era un bravo ragazzo, non meritava questa merda”) viene da una canzone di John Prine dal titolo illuminante, “Jesus The Missing Years”.

7.6/10

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Il Maestro e Margherita _Letture

       

Finalmente è l’ora di Woland, di Behemot, Korov’ev, Azazello e compagnia cantante. Affrontato un paio di anni fa, devo ammettere che del caos vertiginoso ma anche del rigore morale di questo superclassico ricordo ben poco, al di là del colorato corteggio di figurine diaboliche e di qualche vaga reminescenza sulla figura di Pilato. Un bel guaio per la mia memoria zoppicante, non necessariamente un male però: quando dovessi riprendere in mano il bel volume dei Supercoralli, potrei sempre regalarmi una nuova “prima visione”…

 

Mosca, primi anni trenta. Sotto le spoglie del gentiluomo, esperto di magia nera e grande artista straniero Woland, presso gli stagni Patriaršie Satana fa la sua comparsa in città una sera di primavera. Si intromette garbatamente in una discussione all’insegna dell’ateismo tra Michail Aleksandrovic Berlioz, presidente del Massolit (una delle più prestigiose associazioni letterarie locali) e l’acerbo poeta Ivan Nikolaevič Ponyrëv, detto Bezdomnyj, sostenendo senza la minima esitazione di aver conosciuto Gesù Cristo, come pure il filosofo Kant, e arrivando a vaticinare il cruento decesso del più anziano dei suoi interlocutori. Che si verifica a strettissimo giro di posta, quando l’esimio funzionario viene investito e decapitato da un tram nel tentativo non proprio lucido di denunciare il singolare personaggio come spia. Con il giovane letterato messo fuori gioco dall’apparente assurdità dei suoi resoconti e internato come schizofrenico nella casa di cura del professor Stravinskij, il (cosiddetto) maligno non ha problemi a interferire nella vita politica e culturale della capitale sovietica per smascherarne ipocrisie, iniquità e giochi di potere meschini, mettendo alla berlina tutta una serie di burocrati e intellettuali di regime, ma non disdegnando di far risaltare anche l’avidità e la vanità della ricca borghesia.

 

Accanto a lui, una piccola cerchia di pittoreschi servitori: l’enorme gatto nero Behemot, irriverente e spassoso; il grottesco illusionista Korov’ev (o Fagotto); il sicario Azazello, addetto ai lavori sporchi; la sensuale strega Hella e l’inquietante Abadonna, presago silenzioso di morte in occhiali rigorosamente scuri. Tra le numerose folli scorrerie che vedono come protagonista la cricca satanica, spiccano la farsesca rappresentazione al Teatro di Varietà, adescamento collettivo per i peggiori vizi della cittadinanza corrotta, l’incendio al magazzino alimentare Torgisin, simbolo del privilegio e dell’ingordigia delle classi abbienti, e quello al ristorante Griboedov, tempio vitaiolo dell’intellighenzia “integrata”, di quelle mediocri “anime morte” scelte da Bulgakov come bersaglio privilegiato della sua invettiva.

 

Lo smascheramento promesso da Woland come paradossale empito moralizzante non è rivolto tuttavia ad una giovane donna, la Margherita del titolo, il cui amore incondizionato e tenace per lo scrittore ormai senza nome, presentato al lettore come “Il Maestro”, rende di fatto immune dal marciume generalizzato. Colpito dalla purezza del suo sentimento, Satana le offre prima di vendicare l’infamia patita dall’autore (il cui romanzo “umanista” su Ponzio Pilato venne massacrato perché ritenuto un’intollerabile agiografia del Cristo, di fatto condannando il suo creatore alla pazzia e all’isolamento) – rendendola strega svolazzante e dandole licenza di devastare l’appartamento del più feroce dei critici letterari, Latunskij – quindi la invita a vestire i panni della “Regina” al gran ballo del plenilunio di primavera, o “Ballo dei Cento Re”, un Sabba fantasmagorico al cospetto delle più terrificanti anime nere giunte apposta dalle porte dell’inferno. Aver brillantemente superato la prova vale alla fanciulla, resa intrepida dalla speranza di riabbracciare la felicità perduta, il compimento del suo unico grande desiderio: ritrovare l’adorato Maestro e poter tornare a vivere serenamente assieme a lui, al riparo dalle infamie spicciole, dalla mediocrità imperante, dalla prevaricazione di chi non si faccia scrupoli a epurare i pensatori veramente liberi (e scomodi).

 

Il testo su Pilato e sui suoi tormenti per la condanna a morte del profeta eretico Jeshua Hanozri (Gesù Cristo, nella rilettura evidentemente apocrifa che propone Bulgakov) verrà letto e apprezzato proprio da quest’ultimo, che pregherà poi Woland per interposta persona (tramite il suo solo discepolo, Levi Matteo) di “risarcire” il Maestro e la sua Margherita con il riposo in un rifugio ultraterreno, preservandoli entrambi da un’esistenza passiva nel mezzo delle squallide miserie contemporanee. La richiesta verrà esaudita e la stessa pietà verrà riservata al dannato per eccellenza, Pilato, che avrà modo di incontrare in una sorta di lunare aldilà l’uomo che mandò a morte, per potergli finalmente prestare ascolto e placare il proprio sconfinato senso di colpa.

 

“Il Maestro e Margherita” è l’opera più intensa e celebrata di uno scrittore che amava definirsi “mistico”, evidentemente non a torto. Iniziato nel 1928, portato a compimento dalla moglie (postumo e alla quinta stesura) nel 1941, e pubblicato per la prima volta tra mille sforbiciate solo alla fine degli anni sessanta, ha risentito della tormentata gestazione che ne ha amplificato, revisione dopo revisione, i fascinosi squilibri. E’ un romanzo profondamente autobiografico che svela profonde analogie tra la parabola di Bulgakov e quella del suo protagonista, un letterato costretto dalla censura al silenzio e all’infelicità per il carattere “irregolare” delle sue parole (con tanto di manoscritto dato alle fiamme per entrambi). A metà strada tra sofisticata commedia nera e feroce satira di costume, scritto magnificamente e quanto mai fedele all’anima del grande romanzo russo dell’ottocento (per la coesistenza di realismo e slanci di natura spirituale), il testo tradisce nel contempo tutta la propria straripante modernità, affiancando con grande eleganza due piani narrativi ben distinti ma per molti versi complementari, quello della Gerusalemme raccontata dal Maestro nella sua sfortunata creazione e quello della Mosca del tutto fuori controllo trasfigurata con felice ironia da Bulgakov, un teatrino formicolante di figurine meschine e opportuniste, destinate senza più scampo alla sacrosanta dannazione.

 

Le pagine più limpide e appassionate sono quelle dedicate all’intima sofferenza del quinto procuratore della Giudea, dove i temi immortali della viltà e della scelta, del pentimento e della salvazione, sono affrontati con andatura piana ma solenne e riescono particolarmente convincenti. Non si può dire lo stesso di quelle ben più visionarie ambientate nell’attualità del grande romanziere russo, indubbiamente avvincenti, colme di un sinistro incanto, e nondimeno confusionarie, intriganti seppur smorzate nell’impatto dalla messe di allegorie che le popola, non sempre di agevole interpretazione. I personaggi principali, ad ogni modo, restano indimenticabili. Su tutti un Satana/Woland che rappresenta il male necessario in quanto legittimazione del bene (si veda anche l’epigrafe – eloquente – dal “Faust”), e appare più che altro come un giustiziere favoloso, una sorta di Krampus che ha mandato a memoria il Galateo e sa bene che l’amore, ultima vera speranza di un’umanità in ambasce, può avere davvero l’ultima parola, per fortuna.

8.7/10

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Cyberiade _Letture

       

Il sottotitolo recita “Viaggio comico, binario e libidinatorio nell’universo di due fantageni” e ben inquadra la dimensione gradevolmente farsesca di questa raccolta di brevi parabole allegoriche tra favolistico e fantascienza, che è anche e soprattutto un sofisticato e antintellettualistico divertissement sull’arte del narrare. Non Stanislaw Lem al suo meglio ma comunque un’operina graziosa e molto meno banale di quanto lasci intendere.

 

Già allievi pluridecorati della Scuola di Nullità Nientica Superiore, Trurl e Klapaucius sono costruttori geniali e un po’ folli. Ogni bizzarra invenzione dell’uno o dell’altro accende in entrambi il fuoco sacro della competizione ma finisce per mettere nei guai loro e, in qualche caso, persino la sicurezza dell’intero universo.

 

Pescando a casaccio nel mazzo delle loro avventure o “fatiche”, come ce le presenta l’autore enfatizzandone ironicamente la portata epica: una macchina ideata apposta per riprodurre in replica perfetta tutto ciò il cui nome inizia con la lettera enne impartisce ai due una sonora lezione di logica; un’altra dovrebbe essere uno smisurato automa pensante, alto la bellezza di otto piani, ma si rivela nulla più che un ammasso di acciaio incapace di risolvere i più elementari quesiti matematici e, per giunta, permaloso e violento come il più insulso degli stupidi; c’è poi un bardo cibernetico inventato per assicurare al suo creatore l’agognato trionfo in qualsivoglia certame di poesia, ma si dimostra presto una minaccia generalizzata a causa della sua eloquenza e di una inclinazione al sentimentalismo semplicemente incontenibile; un piccolo demone di seconda classe messo insieme in quattro e quattro’otto riesce invece a prosciugare la mostruosa sete di conoscenza del pirata interstellare Pugg con un torrente inarrestabile di informazioni inutili; e poi gingilli che ammansiscono eserciti, che gabbano i più esigenti cacciatori di prede, che dovrebbero riportare il senno in principini perdutamente innamorati dell’imperatrice sbagliata; e, ancora, un autentico gioiellino in forma di novella per cosmonauti, quello del giocondo e inventivo popolo dei Ferrolini, aiutato da Trurl a sconfiggere una misteriosa insidia esterna con la sola forza della burocrazia.

 

I bislacchi siparietti dei due fantageniacci si configurano in un pur ridotto numero di pagine come autentici arzigogoli concettuali, per quanto Lem non manchi di renderli miracolosamente intellegibili anche da chi è profano di questioni scientifiche, per merito di un respiro pungente e nel contempo aggraziato quasi si trattasse di una versione riveduta e corretta del “Candide”. E’ indubbio, le menti meno elastiche o un tantino più anchilosate rischiano di faticare e non poco quando il risultato pecchi maggiormente di prolissità nei ragionamenti, si faccia troppo cerebrale o sbrachi in digressioni dada sempre garbate ma eccessivamente fumose.

 

E’ vero, altresì, che se dietro questi innocui apologhi è possibile distinguere bersagli ben più concreti quali il militarismo sfrenato o l’ottusità di monarchi più o meno illuminati (Atrocitus e Ferocitus potrebbero senza problemi essere metafore, rispettivamente, di stalinismo e leninismo), tutto questo sforzo rischia talvolta di ridursi a una semplice collezione di divertissement letterari, esercizi tanto gradevoli quanto fini a se stessi e in qualche caso noiosetti. Nei passaggi meno riusciti, un’opera letteralmente infarcita di arguzia come “Cyberiade” finisce per farsi prendere la mano dalle sue stesse sottigliezze, si perde in risvolti descrittivi anche irritanti e fa del travestitismo pseudoscientifico una corazza farsesca persino controproducente perché, alla lunga, stucchevole. Questo, grazie al cielo, solo quando il testo va in debito di leggerezza, quando tende troppo al didascalico per eccesso di programmaticità.

 

Non mancano, peraltro, gli episodi realmente spassosi, come quello del re burlone Balerion e del congegno per lo scambio delle menti. Una costante di queste parabole è l’immancabile scontro dei due brillanti inventori con la grossolanità e l’arroganza del malfidato sovrano di turno, simbolo della crudeltà tiranna del potere. Il quadro, al di là dell’ironia e della vivacità delle trovate, evidenza lo sconfinato pessimismo dell’autore polacco, la sua totale assenza di fiducia in un’umanità disumana, opportunista, bieca e votata per natura alla sopraffazione. Si tratta anche, a ben vedere, di una serie di raffinate riflessioni sull’arte del narrare, un gioco di specchi e labirinti che nei frangenti più sofisticati (su tutti “Le tre macchine narratrici di Re Genius”) si articola in un complesso dispositivo di scatole cinesi, o sogni dentro sogni, regalando un senso di autentica vertigine.

 

Ma Lem si diverte anche e soprattutto a plasmare la materia linguistica secondo necessità mimetiche, mirando cioè a un’elegante imitazione del gergo scientifico ma nella prospettiva deformante della narrativa favolistica. Non mancano poi le gustose derive surrealiste, evidenti nella sistematica adozione di un lessico fantasmagorico degno di Raymond Queneau (emblematici i “degenerali”) come nel ricorso a una figurazione nonsense (gli umani arrugginiscono come pezzi di metallo), che accentuano inevitabilmente gli intenti satirici, burleschi e antintellettuali dell’intera operazione.

7.1/10

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