Month: febbraio 2013

TOY @ Spazio 211   30/11/2012

        

Secondo live report per Ondarock, dedicato questa volta ai TOY. Un evento, quello di fine stagione allo Spazio, che non rientrerà nella mia personale terna dei migliori concerti dell’anno passato, pur avendo le giuste credenziali per piazzarsi in quella degli show più attesi (dietro senza discussioni ai Flaming Lips, che mai avevo avuto la fortuna di vedere) e di quelli che potremmo definire “imperdibili”, almeno per quei forzati della musica sempre a caccia di nuove sensazioni e di suoni che *potrebbero* fare tendenza. questo è un merito che ai TOY non potrei fare il torto di non riconoscere, avendo divorato a suon di ascolti il loro album d’esordio eponimo ed essendone stato opportunamente stregato, nonostante le suggestioni della cosiddetta darkwave / coldwave non abbiano mai prima d’ora incontrato particolari favori da parte del sottoscritto. Come ho giù ampiamente avuto modo di scrivere un po’ ovunque, quelli non sono i miei suoni. Eppure… Beh, eppure questo è un disco che va a segno, inutile nasconderselo. Sarà anche di moda, per quel che vale il termine, sarà studiato nel mix scaltro di freddezza dark, ardori punk e coloriture kraut, in una miscela – va detto con fermezza – comunque straordinariamente fresca e originale. Sarà anche fighetto o atteggiato, se ci si ferma al look dandy pretenzioso del frontman Tom Dougall e al suo broncio da schiaffi, naturale per quanto sembri un atteggiamento indossato con disinvolta strafottenza. Tutte impressioni, sia chiaro, magari cercate e cavalcate eppure buone solo per qualche nota di colore nelle cronache e nelle recensioni. La sostanza se ne infischia e racconta di una band incredibilmente viva ed attuale anche nel rimestare con passione nel passato. Sul piccolo palco torinese i TOY hanno rotto il ghiaccio del loro primo tour italiano senza chiacchiere e convenevoli arruffoni, limitandosi a suonare con furore benedetto e riuscendo nell’impresa di fare ancora più casino che in studio. Hanno anche dato conferme a chi le cercava dopo i preziosi ascolti del disco: suonano bene, sono affiatati e non perdono la magia di quel sound così miracoloso. Giovani, va bene, quindi migliorabili. Ma non valutati ai tempi con eccesso d’entusiasmo. Fanno sul serio i londinesi, questo è certo, e chissà dove potranno arrivare. Con un Dougall meno leggerino a livello vocale non mi sentirei di negargli a prescindere alcun traguardo. Quello sfracello di chitarre rombanti e affilate, perse in gorghi di psichedelia mai inutilmente fine a se stessa, potrebbero diventare un marchio di fabbrica, anche grazie ai raccordi pastello del synth di Alejandra Diez, unica fanciulla in squadra e davvero indispensabile. Vedremo. Per ora il live, pure non perfetto, ha dato ulteriori importanti indicazioni. Per una risposta che si spera definitiva, c’è da attendere il fatidico sophomore. E così sia. Al solito, prima foto per accedere al report, seconda per la galleria fotografica del concerto.

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The Stars are Indifferent to Astronomy

       

E’ stato davvero curioso il 2012 dei Nada Surf. Sono tornati a gennaio dopo una lunga assenza, con una formazione più quadrata (nel vero senso della parola, arricchita cioè da un quarto componente extra-lusso, il chitarrista dei Guided By Voices Doug Gillard)  e un disco che sin dal titolo sembrava promettere veramente grandi cose. Ai tempi del precedente ‘Lucky’ non ero stato troppo tenero con loro, avendo ravvisato un certo calo di ispirazione rispetto agli ultimi lavori in studio (‘The Proximity Effect’, ‘The Weight is a Gift’ e – soprattutto – l’indimenticabile ‘Let Go’). A posteriori tocca riconoscere che, se non altro, dentro ‘Lucky’ facevano bella mostra di sé alcune delle loro più intriganti canzoni di sempre (‘See These Bones’, ‘Beautiful Beat’ e ‘The Fox’), mentre quest’ultima fatica sembra aver colpito del tutto a vuoto anche in quelli che dovevano essere i suoi pezzi forti, i singoli per i network commerciali. Qualche volta si è intravista ‘Waiting For Something’ col suo bel video newyorkese, ma i paragoni con il passato anche recente sono parsi impietosi. Pochi slanci, poco nerbo, un’adagiarsi sostanziale ai canoni di un college-rock garbato ma anonimo, tiepido e inutilmente calligrafico. Potrei passare per un mostro senza pietà nei loro confronti, anche perché sono in tanti ad aver espresso giudizi ben diversi dai miei sia su questo che sul precedente lavoro della band. Invece no. Lo dimostra l’entusiasmo che il gruppo statunitense ha saputo regalarmi nello splendido concerto a Mezzago un annetto fa, già raccontato a suo tempo su queste pagine. Nel pezzo su Monthlymusic non ho nascosto i limiti di un album che ricorderò tra le più cocenti delusioni dell’anno da poco archiviato, proprio perché mi aspettavo – o speravo in – qualcosa in più (per la cronaca, le altre sono ‘Love at the Bottom of the Sea’ dei Magnetic Fields e ‘To The Soul’ di Frida Hyvonen, tutti da sufficienza davvero molto risicata). Non ho affondato il colpo perché adoro questi ragazzi. Li ho raccontati con la benevolenza del fan che ha ormai capito che tutto il meglio è già stato, ed ora si vive di repliche generose e meritate. Basta che i tre Nada Surf (più la chitarra di Doug, vabbé) riescano ancora a tirare fuori quelle piacevoli sortite di tanto in tanto, per far festa con gli aficionados convocati a raccolta, e possibilmente non li illudano di nuovo con specchietti per allodole come il bel titolo di questo disco. A conti fatti, la sua dote migliore.

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Da dove sto chiamando  _Letture

      

Ho qualche problema con i racconti. La loro natura di istantanee brucianti è qualità che apprezzo, specie quando la sintesi diventa arte della parola esatta, selezionata e pesata attentamente. Tuttavia, oggi come oggi, da lettore non mi ci ritrovo. Discontinuità, precarietà, finali magari eccelsi ma che irrompono brutali schiantando quel poco che si era faticosamente costruito. Il mio presente di fruitore è fatto di romanzi, lunghi o corti non ha importanza. I racconti invece li evito come la peste. Ho riportato indietro (in biblioteca) più di un volume quando mi sono accorto che era in questo che mi ero imbattuto, tradito magari da una copertina particolarmente invitante. Con Carver però non l’ho fatto. Ho preso questo libro con piena consapevolezza, una volta che non mi era riuscito di trovare di meglio. Mi son detto: “OK. Proviamoci lo stesso”. Non è stato un male, considerato il livello pregevole della scrittura. Ma ho fatto fatica.                                                                         Una volta era tutto diverso. Da bambino divorai i racconti di Kipling, di Wilde e Gogol’, per dire, alle medie feci lo stesso con quelli di Buzzati mentre a diciotto anni ho avuto un’autentica folgorazione per ‘Le botteghe color cannella’ di Bruno Schulz (tre lunghi racconti in pratica) e per il ‘Ritratto dell’artista da cucciolo’ di Dylan Thomas, indimenticabile. Poi un lungo oblio. La ricchissima selezione carveriana è stata come uno di quei farmaci da assumere in dosi omeopatiche e solo ogni morte di papa. Un talento strepitoso negli episodi migliori, unito al mestiere notevole nei momenti meno esaltanti. Nel complesso non un capolavoro, secondo me: potrebbe diventarlo scremando i riempitivi. Comunque un corpus organico – e qui sta la sorpresa – per come ha saputo delineare anche trenta/quaranta anni fa un’umanità che è attuale oggi come non mai. Detto questo, non intendo leggere un racconto che sia uno per i prossimi dieci anni.

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“Le cose cambiano, e senza che uno se ne accorga o lo voglia”                                                                                       E’ un universo desolato e desolante quello che affiora dai trentasette racconti che Carver in persona selezionò e raccolse in quella che considerava, evidentemente, la migliore delle sue antologie. Desolante ma mai eclatante, visto che i piccoli drammi quotidiani dei suoi protagonisti si consumano sempre per accumulo, lentamente, come per via di un logorio silenzioso ma implacabile che lascia solchi profondi nel loro vissuto senza tramutarli per questo in caricature grottesche. 

<<Siamo tutti gente per bene, tutti noi, ma solo fino ad un certo punto>>confessa con una certa stanchezza la voce narrante di ‘Menudo’, alla stregua di un rappresentante eletto per tutte le altre figurine carveriane. Una folla di individui comuni, quindi, mediocri ma accettabili nella loro ordinarietà, come quelli che popolavano i film di Altman ieri (non solo il pluricitato ‘Short Cuts’) e di Todd Solondz o dei fratelli Coen oggi. Personaggi normali annientati da un senso di precarietà dilatato ad oltranza, sospesi di fronte all’incognita di un futuro non nominato ma facilmente pronosticabile. Uomini e donne i cui scheletri negli armadi, dentro i cassetti nascosti del formalismo più bieco, davvero non si contano, rendendo per forza di cose esseri speciali i vicini del villino accanto, quelli che non tradiscono il coniuge e rincasano ogni sera alla stessa ora.

L’umanità di Carver è angosciante per come ci somiglia, ed è angosciata. Trascorre notti insonni e si apre a “terribili” albe come ‘La moglie dello studente’, persa tra ricordi ormai inutili ed il sogno irrealizzabile di “una buona vita onesta”, senza preoccupazioni economiche di sorta e senza errori nel percorso. A ritagliarsi spazio sono soprattutto i padri ed i mariti logorati nei loro affetti più profondi, umiliati da forme di dipendenza sempre più degradanti e traditi da eccessivo infantilismo per l’ostinazione nel negare di aver perso ogni ruolo nella vita dei propri cari. Uno stuolo di maschi adulti in fotocopia, incapaci dell’ultima parola ed inadatti a sostenere con la minima forza le proprie ragioni: svuotati, schiavi dell’alcool in ogni frangente decisivo e in fondo condannati ad una “lunga serie di tragedie da quattro soldi”. Quelli tratteggiati ad esempio nel formidabile ‘Vitamine’, in un quadro di sfiducia ed insoddisfazione assoluti, sono antieroi che letteralmente si lasciano vivere oppure fuggono da tutto e tutti, dando forma al più sconfortante dei controcanti per il caro, vecchio, guasto Sogno Americano.

Tra le critiche più comuni ai racconti di Carver c’è la tendenza a contestare che i suoi personaggi non “sanguinano” abbastanza, che manca il pathos, sacrificato per lasciare spazio al vero: noia, depressione, apatia, risentimenti pallidi e senza bersagli veri e propri. L’osservazione è corretta ma è sbagliato il presupposto, ovvero che questo presunto limite non sia il frutto di una consapevole scelta. Forse proprio per questo Carver è amatissimo più da chi scrive che non dai soli lettori, specie se assuefatti alle forzature fasulle della fiction.
I temi più cari allo scrittore statunitense non sono cambiati con il tempo. Parabole di piccola grettezza quotidiana, un certo talento nel rendere l’amore sfiorito o la magia dei sentimenti perduta per sempre e poi, beh, quell’occhio straordinario nel cogliere le velature sottili, il repertorio sterminato di allusioni e non detti nella vita coniugale non così esaltante della middle-class, tra perversioni spicciole e sesso consumato più per tedio o abitudine che per passione. La coppia è, giocoforza, quasi sempre protagonista assoluta: riassemblata dopo uno o più fallimenti e destinata allo stesso pantano di stanchezze e incomprensioni, immancabilmente. A cambiare è solo il particolare momento in cui Raymond decide di sottoporla al giudizio impietoso della sua ideale macchina fotografica, per cui l’amore ora sembra un’energia che può tutto, ora è un coacervo di dubbi e preoccupazioni, ora un grumo di catarro che finirà col soffocarci.

Affrontare questi racconti rimane un’esperienza impegnativa e vincolante, visto che le pause per riflettere tra un segmento e l’altro sono elemento pressoché indispensabile e la spensieratezza non è concessa. La scrittura è piana, sobria, toccante ma lenta, come la presa di coscienza del padre nell’eccezionale ‘Febbre’, tra frustrazione, incomprensione e dignità. L’essenzialità del tratto è necessariamente funzionale. Ogni parola ha il peso corretto ed è sistemata al posto giusto, in armonia tra le altre. Uno stile minimale ed evocativo in maniera mirabile. L’unica cosa davvero superflua è l’aspettativa, in chi legge, che debba capitare per forza qualcosa di memorabile. E forse la vera grandezza di Carver risiede proprio nell’onestà di questo orientamento, nell’understatement, nelle parole in meno, nell’implicita significanza che lascia naufragare senza clamori le illusioni mal alimentate dei protagonisti.

A interessare il narratore dell’Oregon era in fin dei conti la persona, nuda e cruda, miscela non esplosiva di emozioni, tic, manie, timori ed umori, in ampia gamma di sfumature. La resa delle psicologie – meglio, delle condizioni psichiche – di queste pallide figure alla deriva è spesso eccezionale: dai preconcetti, la gelosia e le misere cattiverie del marito in ‘Cattedrale’(ribaltati nella scoperta di un’intesa umanissima e sorprendente) al fortino di solitudine ed indignazione in cui si barrica la moglie de ‘Con tanta di quell’acqua a due passi da casa’, dalla frustrazione macerante di ‘I Chilometri sono effettivi?’ alla delicata disperazione di chi non ha più nulla (‘Perché non ballate?’) o l’ossessione cieca che consuma il vecchio Dummy in ‘La terza cosa che ha ucciso mio padre’. Tutti aspetti lasciati per lo più all’intuizione del lettore, osservati da una comoda distanza, non esasperati. Come l’amore evocato nel racconto forse più celebre del lotto, materia che comunque la si guardi rimane indefinibile, irriducibile ad ogni logica spiegazione. Come la normalità, la banalità del dolore per una perdita senza alcun senso, affrontata in ‘Una cosa piccola ma buona’ evitando ogni tentazione retorica o la comodità ruffiana del sentimentalismo.

In questi racconti non c’è alcuna pretesa di insegnamento, nessuna morale nascosta, solo lampi di verità dietro gli schermi incolori del quotidiano, in una routine di intime labili passioni descritta sempre sottotraccia, di battiti e pensieri che nascono e muoiono senza mai tradursi in azioni o cambiamenti autentici. Gli antieroi di ‘Da dove sto chiamando’ sono infatti individualisti per lo più immobili, impassibili mentre tutto cambia sullo sfondo, solitudini fatte di rancore latente, felicità impalpabili o solo apparenti e crolli di nervi mai fragorosi, soffocati quasi. Parlerei di capolavoro, non fosse che non tutto è veramente indispensabile, non tutto è all’altezza di una media comunque invidiabile. Gli scampoli di amara meraviglia dell’apertura (‘Nessuno diceva niente’, magico) e di tanti altri passaggi sono purtroppo bilanciati da qualche divertissement di troppo, dove l’atmosfera o la tensione prevalgono su storie di fatto assenti o un taglio meno impressionista (e più convenzionale, come il simil-reportage televisivo di ‘Che si fa a San Francisco?’ o la lettera della madre in ‘Perché, tesoro mio?’) non può che far storcere il naso. Anche per chi non ama i racconti brevi, comunque, l’occasione per una lettura importante.

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