Una Catena di Rose _Letture

      

Promettono sicuramente bene i titoli dei romanzi di Jeffrey Moore che ancora non ho letto: “La Società degli Animali Estinti” e “Gli Artisti della Memoria”. Chissà che non li trovi prima o poi sulla mia strada, a metà prezzo o meno. Potrebbe valerne la pena, anche se, stando al clamore suscitato, potrebbe essere considerato superfluo aggiungere una nuova frequentazione con l’autore canadese se si è già fatta la sua conoscenza attraverso questo “Una Catena di Rose”. Che, l’ho scritto in fondo al mio pezzo su Anobii, non è certo uno di quei romanzi che cambiano la vita, anche se, nel suo piccolo, può essere tra quelli che contribuiscono a renderla un pochino migliore. Lettura agile, brillante, tutto sommato soddisfacente, visto che Moore conosce il suo mestiere e non è (quasi) mai banale. Consigliato come cuscinetto di qualità quando di intenda ammortizzare prove letterarie ben più impegnative senza sbracare nel frivolo da due soldi. Leggero, intrigante, veloce, e da moderate aspettative. A volte sono proprio questi i libri che gratificano di più.

Jeremy Davenant è un ragazzo perbene, forse anche troppo. E’ appena stato mollato da una fidanzata non proprio fedele e ha deciso di cambiare dimora, affittando uno squallido appartamento nel quartiere meno esclusivo di tutta Montreal, per ripartire anche letteralmente dal gradino più basso. E’ un tipo romantico, impacciato, cordiale e sobriamente idealista. Intelligente e ironico appena sopra la media, insegna senza troppo entusiasmo all’ateneo cittadino e pare incapace di liberarsi di certi fantasmi del passato: una madre molto amata, morta troppo presto a causa di un incidente stradale, e un’infanzia brevissima trascorsa senza padre ma con ben due patrigni – Gerard nella natia York, Ralph nella metropoli canadese – assai diversi l’uno dall’altro. A scompaginare la fin troppo tranquilla routine dei suoi giorni irrompe una giovane donna misteriosa, Milena, che gli appare a più riprese nelle più disparate circostanze e sembra corrispondere fino al più insignificante dei dettagli alla donna del destino profetizzatagli in tenera età dalla “pagina magica”, un frammento dell’enciclopedia selezionato durante una cruciale seduta a mosca cieca e regalatogli dallo “zio” Gerard per guidarne le future passioni lontano dall’Inghilterra. Tra tediosissime cene accademiche, colazioni a due nei più improbabili bar del boulevard, passeggiate o pedinamenti nel parco e grottesche serate al Café Noctambule o al Dame de pique, tra sciami di pseudo intellettuali falliti e boriosi artisti d’accatto, siamo invitati a seguire con sempre maggior partecipazione le tragicomiche vicende sentimentali del protagonista nella sua disperata caccia a una bella oltremodo bizzosa, inframmezzate a flashback rivelatori dai suoi trascorsi giovanili nello Yorkshire, tra precoci epifanie amorose e leggende attorno alla figura del suo unico, vero, grande nume: William Shakespeare.
Il senso di “Una Catena di Rose”, in fondo, è già tutto racchiuso nel suo titolo azzeccatissimo: c’è un legame vincolante che parrebbe predestinato e che la ragione non è in grado di spezzare; e ci sono le rose, bellezza inarrivabile e spine dolorose, in egual misura. Questo primo romanzo di Jeffrey Moore sembra un libro senza troppe pretese: l’ennesima effervescente storia d’amore e tormenti, qualcosa di estremamente trito insomma. Non sarebbe in effetti molto più che questo, ma la caratterizzazione dei personaggi, l’autenticità di un io narrante pieno di falle e di dubbi, l’andamento rilassato e i piacevoli aromi di fondo – tra disincanto che non cede mai alla disperazione e quel tono da moderna favoletta scanzonata – lo rendono un’opera particolarmente gradevole, di agile lettura e brillante inventiva. Lo scrittore canadese non promette la luna, non spaccia fastidiose pseudofilosofie e non indugia in eccessivo autocompiacimento. In compenso scrive molto bene, forbito ma senza spocchie o snobismi, e riesce a intrattenere il lettore divertendolo senza stancarlo. La carta vincente, come detto, sono gli attori in scena. Jeremy in primo luogo, apparente baluardo del razionale nelle sue lucide riflessioni a tutto campo, eppure pronto a smentirsi alla velocità della luce in compagnia dell’oggetto dei suoi desideri idilliaci, ossessionato dalla superstizione e da impulsi infantili nella tendenza a drammatizzare e a ritualizzare ogni evento, anche il più insignificante. Accanto a lui, Milena è una femme fatale (o, meglio, “feministe fatale”) che non si dimentica: bellissima e sensuale anche senza trucco, affilata come una lama, crudele nell’indifferenza ostentata senza troppi riguardi, eppure incapace di reggere decentemente gli alcolici e abituata ad “affogare il caffè nello zucchero”.
Il loro rapporto squinternato diviene da subito una sorta di paradigma: “puntualità compulsiva che incontra sregolatezza senza scrupoli”, “fante di cuori e donna di picche”, “l’oro dei poveri, l’oro dell’alchimista, la sfolgorante zingara-sirena” nello scontro fatale con “l’ingenuo, il burattino, il ragazzo pazzo che sbaglia, sbanda, sbarella”. Per i giovani lettori di sesso maschile è assai difficile sottrarsi a un principio d’immedesimazione: chi di noi non ha avuto a che fare almeno una volta nella vita con la sua Milena? Lo ribadisce Jeremy, tirando in ballo il Platone del Simposio (“in amore l’imperfezione aspira alla perfezione”) e ricordando l’infallibilità del “rifiuto come afrodisiaco”: è più desiderabile la donna che ti respinge, tanto più se passa per lesbica (e in fondo non lo è). Peccato solo che nelle battute conclusive questo magistrale squilibrio sembri destinato ad annacquarsi, a ricomporsi nel meno plausibile dei lieti fine (solo suggerito però, in realtà negato per il rotto della cuffia dalle ultime due pagine, e meno male). Particolarmente riuscite, in ogni caso, anche le numerose figure di contorno: dalla gioviale Ariette alla depravata Violet, sorella di Milena; dall’amico fidato Jacques, esteta pretenzioso e inconcludente dedito a ogni sorta di stravizio, alla bella galleria di antagonisti, più presunti che effettivi (il fastidioso rivale Victor Toddley, l’insopportabile collega saccente e impiccione Clyde Haxby, il corpulento e pericoloso padre di Milena). E infine Gerard, soprattutto: padre putativo, uomo coltissimo, spassoso e un po’ folle, millantatore sfrenato e avventuriero dal cuore d’oro, col vizio del gioco d’azzardo e dei giochi di parole. E’ lui a orientare il protagonista verso Shakespeare e l’amore sconfinato per la letteratura (che traspare in ogni pagina ed è un innegabile valore aggiunto del romanzo), a trovargli un posto in università coniando false referenze, e a spronarlo continuamente affinché finga di essere un uomo diverso, per realizzarsi: “siamo tutti impostori, tutti attori e bugiardi”. Moore lascia intendere di pensarla evidentemente in maniera simile, pur adottando l’irrinunciabile distacco offerto da un’ironia a tratti efficacissima. Questi i dettami affidati ai suoi personaggi come unica consegna narrativa, esemplari proprio per il modo magistrale in cui recitano parti non (del tutto) loro.
Una sorpresa molto gradevole questo “Una Catena di Rose”: non certo tra i libri che cambiano la vita, ma senz’altro tra quelli che la migliorano, nel loro piccolo.

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