Shellac @ Spazio211
06/10/2010 _ Il nostro (altro) concerto

 

Ecco un altro degli show da top five dello scorso anno. Troppo facile, penserà qualcuno, vista la fama live della band in questione, praticamente una delle poche leggende del rock alternativo recente capaci di fare genere a sé. Ebbene sì, gli Shellac vanno effettivamente considerati un caso a parte. Un'attività discografica esigua e frammentaria, con appena quattro LP in quasi vent'anni di vita. Tour sporadici e generalmente senza fini promozionali, come questo messo in piedi a più di tre anni dall'ultima uscita e quindi col solo scopo di divertirsi un po' e tenere accesi i motori del gruppo. Anche soltanto seguendo questo criterio non ci sarebbero state scuse per evitare di assicurarsi un biglietto per una delle tre date italiane, la prima delle quali proprio nella città di cui sono originari entrambi i genitori del leader, Steve Albini. Albini che è ormai considerato un vero e proprio guru per l'intera scena indipendente, non solo per aver prodotto album e band leggendari dai suoi esordi con i Big Black, ma anche per la posizione di critica scoperta e radicale all'industria discografica e a tutte le voci collaterali del music business. Un piccolo assaggio di questa coerente e più che condivisibile intransigenza l'ho avuto anche io, sprovveduto nel richiedere come faccio ogni tanto il mio bravo accredito in cambio di un live report corredato di fotografie. La risposta di quelli del locale è stato un comunicato della band stessa, durissimo nei toni ma sinceramente apprezzabile, di rifiuto verso ogni scappatoia promozionale per chicchessia, giornalisti o pseudotali compresi ("No Guest List", yeah!). Interessanti nella stessa mail la libertà – quasi l'invito ad agire – per fotografi professionisti e dilettanti, ma soprattutto le voci "No barrier/barricade", "Do not kick the audience out of the venue after the band finishes" e "No bouncers between the band and audience", tutti segni di grande affetto nei confronti dei propri fan a discapito magari della perfezione assoluta in fatto di sicurezza. Un peccato veniale, comunque, come si vedrà. E venendo alla sera del concerto, beh, non c'é voluto molto per accorgersi che sarebbe stato un sold out coi fiocchi, bastava la coda fuori da Spazio. Per l'ultima serata di Gianluca Gozzi nelle vesti di gestore, 770 paganti in un locale che non si sarebbe mai detto capace di contenere così tanta gente, oltre ai ringraziamenti calorosi dal palco di una Giovanna Cacciola entusiasta di esserci. Sì, proprio quella Giovanna Cacciola, la cantante che con gli Uzeda ottenne fama internazionale, un contratto con la Touch & Go e la prima produzione proprio di Albini per una formazione italiana. Giovanna che nel frattempo si è fatta apprezzare in numerose altre iniziative a livello internazionale (ancora ricordo la sua voce in un disco dei Rachel's, bei tempi) e ha poi dato vita col marito Agostino Tilotta a questo ulteriore progetto sempre curato da Albini, intitolato Bellini come i celeberrimi drink e compositore, opening act assai pertinente in questa fetta di tour degli amici Shellac. Duri e puri per davvero questi maturi coniugi siciliani, sacerdoti pressoché indiscussi dello spigolo all'italiana (ci sarebbero anche i Three Second Kiss, ma restano distanti) abili a circondarsi occasionalmente di pochi (ma buoni) amici stranieri: nell'occasione, ed ormai da qualche anno, il bassista dei Romulans Matthew Taylor e l'ottimo batterista dei Girls Against Boys Alex Fleisig, già rimpiazzo peraltro di un assurdo mattacchione come il leader dei Don Caballero Damon Che. Don Caballero citati non a caso, visto che la predisposizione verso il rock matematico sembra essere rimasta intatta nel gruppo italiano dopo l'abbandono dell'ingombrante stella americana del genere: il suono granitico si è rivelato una costante nella porzione di show riservata ai Bellini, confermandosi poi come elemento di continuità anche quando il piatto forte della serata è stato servito. Pigiati come sardine abbiamo dovuto attendere ancora un po' prima di veder comparire gli antidivi statunitensi sul palco per preparare gli ultimi dettagli e dare fuoco alle polveri. Fenomenale l'ingresso in scena di un Albini a dir poco estemporaneo, passo flemmatico e mise incredibile composta da tuta da metalmeccanico anni settanta, bandana, orologio Casio con agenda e calcolatrice (ne comprai uno identico in seconda media) oltre agli immancabili occhialini tondi da professore di applicazioni tecniche.

 

Spogliatosi con tutta calma dell'ingombrante abito ha dato l'OK al resto della ditta: un Bob Weston da subito in effusioni con i più scapestrati tra gli spettatori delle prime file e "quella cosa misteriosa che vive dietro la grancassa", Todd Trainer, incrocio incomprensibile tra Gianluigi Buffon ed un orecchione. Incauti – ad esser buoni – io e la mia ragazza. Piazzati in prima fila centralissima, piedi sul gradino. Due pazzi. Lei ha retto un paio di minuti al pogo furibondo della subito devastante 'My Black Ass', per poi ripiegare nelle retrovie. Io sono rimasto là per cinque interminabili canzoni, impossibilitato a fare foto e quindi intento più che altro a non prenderle. Non sarebbe stato nulla di veramente atroce non fosse stato per un terzetto di tizi veramente poco raccomandabili e la loro mignotta, squatter strafatti fino alla punta dei capelli e presenti allo Spazio solo per il gusto di rompere le scatole a chi era là per vedere gli Shellac. Arrivati a 'Squirrel Song' la situazione è degenerata e ho dovuto riparare in un posto a dire il vero comodissimo (per godermi la sezione ritmica senza rimetterci le orecchie e per respingere ogni offensiva dal fronte sinistro), incastonato tra la cassa gigante laterale e l'angolo esterno del gradino che va al palco. Lì sono rimasto ed ho scattato di fatto la totalità delle immagini che compongono la galleria fotografica di quella sera. Una goduria di muscoli e vetriolo. Albini cattivissimo a tirar di cartavetro, Weston pestone più che mai ed occasionalmente cantante (nella meno esasperata 'Compliant'), Trainer fuori come un balcone ma impeccabile. E' stata un'autentica festa post-hardcore, inevitabile visto che i padrini di quell'universo erano i principali invitati. Difficile indicare i momenti di maggior entusiasmo, visto che la serata ha avuto solo alti: dall'estasi fugaziana di 'Boycott', alla solennità gracchiante e i fendenti di 'Gary, Indiana', dal reattore nucleare (si può ancora usare la metafora?) di 'Dog & Pony Show' alla grattugia perpetua di 'Steady As She Goes'. Dalla mia comodissima posizione ho visto veramente di tutto, data la prospettiva ampia su palco e file "calde": stage diving come nella Seattle di venti anni fa, tsunami umani (si può ancora usare la metafora?) schiantati sul rialzo della pedana, individui sparati come (mezze) cartucce addosso ai musicisti incuranti. E poi ancora: Trainer che passeggia rullante alla mano sul palco con aria spiritata suonando in posa perfetta; Albini stravolto aggrappato all'asta del microfono come un vecchio nostromo; Weston feroce che tira due calci in faccia al povero buttafuori del locale, colpevole di aver avuto l'ardore di spostare (con garbo) un paio di monelli piovuti sul palco come chicchi di grandine. Ecco, quello è stato il momento in cui ho temuto davvero il peggio. Il musicista incarognito, attaccato al suo credo intransigente più per stupidità che per altro, ha rischiato di mandare tutto a puttane e far finalmente arrivare un report su Spazio211 in cronaca cittadina. Allibito (ma anche spaventato), l'amico buttafuori ha avuto un sangue freddo semplicemente encomiabile, aiutato a non reagire all'insulsa provocazione anche dagli stessi ragazzini che erano stati all'origine del fattaccio e che a gesti lo hanno calmato, facendogli intendere che era tutto OK. Richiamato dal responsabile della sicurezza prima che quel toro paonazzo del bassista potesse sferrare l'attacco finale, il tranquillo bodyguard è scomparso nel nulla così come dal nulla era apparso, lasciando che l'anarchia festosa facesse il suo corso accompagnando le schegge elettriche della band statunitense. Dopo questo siparietto da brividi, andato in scena a non più di due metri della nicchia in cui mi ero rifugiato, il concerto è andato avanti senza ulteriori scosse e senza che nessuno si facesse male, fino al doppio finale epico: il carburatore intermittente di 'The End of Radio', con il ruggito memorabile di un Albini padrone assoluto ("Can you hear me now?") e il certame di duetti isterici di 'Spoke', che ha fatto calare il definitivo sipario prima di un'appendice di chiacchiere ed autografi generosissimi con i due Shellac più vivaci. E Todd Trainer? Volato via nella notte, forse, come un pipistrello. 

SETLIST BELLINI: 'Wake up Under a Truck', 'Numbers', 'Tiger's Milk', 'Save the Greyhounds', 'Room Number Five', 'Chaser', 'Daughter Leaving', 'Susie', 'The Buffalo Song', 'Agatha'. SETLIST SHELLAC: 'My Black Ass', 'Copper', 'Canada', 'Compliant', 'Squirrel Song', 'Boycott', 'Gary, Indiana', 'Steady As She Goes', 'Prayer To God', 'Dog and Pony Show', 'Killers', 'The End of Radio'; ENCORE: 'A Minute', '?', 'Spoke'.

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