Folk Songs

 

Paradossi del mercato discografico. Quando una delle più grosse tra le etichette indipendenti sceglie il catalogo con le uscite per il mese di agosto, è fin troppo facile pensare che si limiti a trovare una collocazione temporale per qualche rimasuglio della precedente stagione, giusto per risultare in piena attività nel computo delle pubblicazioni e dare una pallidissima soddisfazione a chi si ostina a cercare validi prodotti musicali anche nei periodi più improbabili. Con i film non è cosi raro che, in mezzo alle tante nefandezze programmate in sala nelle settimane più calde dell'anno per la gioia del becero pubblico vacanziero, trovi un posticino in transito anche qualche pellicola meritevole, in ritardo magari di un paio di anni rispetto a paesi un po' più accorti del nostro. Questo capita naturalmente anche in ambito musicale, lo rileviamo spessissimo. Certo nel caso di 'Folk Songs', quinto album di studio (se si esclude una raccolta di B-side e rarità varie) per il promettente cantautore scozzese James Yorkston, la piena sincronia nella programmazione dell'uscita sulle due sponde dell'Atlantico alimenta proprio quella fastidiosa sensazione di scarto pianificato. La Domino tira a lustro la sua maschera più alternativa, gli artisti interessati non rompono le scatole e gli sfigati che ascoltano ancora generi come il folk non hanno motivi per lamentarsi. Fa un po' ridere solo il fatto che queste canzoni siano per molti versi quanto di più lontano si possa concepire rispetto all'immaginario agostano che ogni anno trova la più puntuale delle conferme nei tormentoni cialtroni che ci vengono propinati ad ogni livello. Ad agosto si deve fare casino, ci si deve divertire, occorre la colonna sonora giusta: pochi pezzi che imbambolino o spacchino, fino alla nausea. In questo quadro il disco di Yorkston è tutto un altro pianeta, refrattario alle mode, indifferente ai cliché commerciali e tenacemente fedele alla sua stessa denominazione, etichetta poco fantasiosa ma a marchio di qualità artigiana protetta. Nel pezzo su Monthlymusic ho inteso affrontare con ironia la (giocoforza) scarsa aderenza di questo lavoro agli stereotipi più raffermi nella sottocultura di riferimento per la stagione estiva, ma l'ho fatto rovesciando la prospettiva e promuovendo questa snobbatissima proposta come il più ideale dei rimedi contro la canicola, specie per gli sventurati che a Ferragosto non si godono l'anguria in spiaggia bensì l'afa cittadina. Io l'ho vissuto così ovviamente, e posso assicurare che questa rivisitazione ad ampio raggio dei più svariati traditional folk si è rivelata una gradevole quanto insperata via di fuga. Non immaginavo di poter tollerare così bene materiale fermo nel suo rigore di genere e nella sua conformazione espressiva in fondo assai limitata, quella degli esercizi di stile pure non accademici. Il merito è tutto di questo quasi quarantenne scozzese, uno cresciuto a strettissimo contatto con alcuni dei più validi artisti emergenti della sua generazione nel medesimo contesto musicale: Kenny Anderson aka King Kreosote, che l'ha lanciato all'interno del ristretto collettivo della Fence Records, ma anche Alasdair Roberts, forse il miglior folksinger "giovane" di tutta la scena britannica. L'aver lavorato a vario titolo (o anche solo l'aver condiviso il palco) con gente come Lambchop, Tindersticks, Beth Orton e Cathal Coughland (sì, proprio il mitico cantante degli indimenticati Microdisney), ha fatto il resto e non può che aumentare i pregi d'esperienza per un songwriter di nicchia ma anche di indubbio spessore, confermati da una lunghissima militanza nella scuderia Domino e da una serie di album molto belli (da segnalare almeno 'The year of The Leopard' e 'When The Haar Rolls In', tra i più recenti). Questo 'Folk Songs' è un capitolo a parte e merita un discorso a parte, per il quale rimando alla recensione e all'ascolto, naturalmente. Se il genere, le sonorità e gli standard in questione non vi urtano, questo album può rappresentare per voi una piacevole immersione in territori oggi così poco battuti anche nella scena alternativa. Un bignami che guarda più al folk british dei bei tempi andati (ma non solo a quello, è importante ribadirlo) che alle rivisitazioni yankee à la Fleet Foxes. Un bel diversivo dunque, oltre che una sorta di ricco ed affascinate compendio. Canzoni che non approdano quasi mai ma pulsano, si dispiegano in progressione incidendo poco per volta, nella ripetizione come nelle variazioni minime. Dentro si apprezzano l'incanto, un respiro antico, la pulizia scarna del taglio intimista ma anche una freschezza quasi floreale, spaziando tra un'ampia gamma di soluzioni come a voler smentire il luogo comune della musica folk come universo angusto e noiosissimo. Come comune denominatore la disciplinata purezza dello sguardo del cantautore, oltre alla pregevole fattura di arrangiamenti affidati in buona parte alla band dei Big Eyes Family Players, compagnia in cui suona tra gli altri (l'ho scoperto da non molto) anche l'eccellente Nancy Elizabeth Cunliffe.

0 comment