Questa terra è la mia terra _Letture

      

Mi fa davvero piacere che sia la volta di Woody Guthrie. Mi fa davvero piacere che sia la volta di questo libro in particolare, uno dei più belli che ho letto negli ultimi anni. “Bello e importante”, l’ho definito su Anobii, perché questa non è solo la voce del padre della canzone di protesta, di colui senza il quale non avremmo avuto Bob Dylan (non come lo conosciamo, almeno), ma anche di un’America emarginata e dimenticata, di una nazione giovane e brutale negli anni difficili tra le due guerre. La storia (con la minuscola) di una vita errabonda ma non priva di radici, in un’autobiografia magnificamente romanzata senza sembrare (solo) un romanzo. E la Storia (con la maiuscola) di un paese ugualmente in viaggio, alla ricerca di se stesso e di un sentimento condiviso, capace di trascendere le limitanti formule del puro patriottismo per guardare con fiducia a un’umanità nuova. Una lettura avvincente e insieme commovente, di quelle che non si dimenticano. E un capolavoro, anche, per come Woody vi ha saputo fondere asprezza e delicatezza, senza mai scadere nel cinismo né, per converso, nel sentimentalismo.

Il romanzo ha il profumo della grande traversata e inizia catapultandoci sul “vagone rompiculo” di un treno diretto verso la gloria. Woody Guthrie è il testimone, la nostra guida, e accanto a lui viaggia e si anima un plotone di poveri diavoli miserabili, “soldati nella polvere” sporchi e abbruttiti, groviglio di guai e sofferenze, gente ruvida, sbandata e confusa che da tempo batte le strade della povertà più feroce. Il menestrello si offre di cantare per loro quella che sarà solo la prima delle sue improvvisate e pungenti ballate affidate alla custodia preziosa di questo libro: non uno degli “ultimi successi da jukebox” perché “ci vuole qualcosa di più di quattro canzonette spiritose da rammolliti per vincere questa guerra. Ci vuole gente che lavora!”.
La guerra e il lavoro. Parole chiave nello schietto universo guthrieano, soprattutto la seconda, cruciale. Sul tetto del convoglio funestato dal vento e dalla pioggia, il cantastorie vagabondo si interroga con qualche compagno di sventura sull’effettiva destinazione di un viaggio aspro e penoso come la perdurante mancanza di un impiego, e dell’ampio corollario di rispetto, benessere e regole civiche che esso comporta in seno a una comunità di individui. “Difficile dirlo, se in fondo nemmeno ci si ricorda da dove si provenga”, chiosa lui prima di tuffarci tutti con sé in un lungo e appassionante flashback a base di ricordi e suggestioni, un tortuoso flusso di coscienza con la drammaticità della vita vissuta e la consistenza vaporosa di un sogno avvincente.

E’ molto bello, ad esempio, il secondo tassello, intitolato “Scatole di tabacco” e caratterizzato da tutt’altro clima, la meraviglia di un filtro magico come l’infanzia spensierata, tra giochi, piccole rivelazioni e ingenuità a tutto campo. Sullo sfondo scorrono senza soluzione di continuità disgrazie private (l’incendio che precipita i Guthrie sulla terra, direttamente dalla torre d’avorio dell’agiatezza in cui vivevano beatamente) e stravolgimenti collettivi (la corsa all’oro nero, il primo conflitto mondiale, il proibizionismo), avvenimenti domestici e fratture sociali, passati tutti assieme al vaglio degli occhi di un bimbetto particolarmente sveglio nella sterminata provincia americana. E’ davvero frenetica e coinvolgente la descrizione della brulicante umanità in transito a Okemah, Oklahoma, negli anni febbrili della scoperta dei primi giacimenti. “La religione del petrolio era: arraffa tutto quello che puoi, spendilo più in fretta che puoi e buttati in un bidone della spazzatura finché puoi”: questa la cronaca amara e impietosa nello sguardo curioso ed entusiasta di un ragazzino desideroso di rendersi utile e nel contempo incapace di registrare fino in fondo come la sua città si stesse svendendo l’anima, tra paesaggi e natura deturpati e un galoppante imbarbarimento del vivere civile. Sono gli anni di “Furore” di Steinbeck e lo scenario è il medesimo, di sconfinata desolazione anche morale. Il protagonista si muove in questo sconfortante teatro con il piglio e la disarmante intelligenza di un Huckleberry Finn. Non è un caso, visto che qualche capitolo più tardi ci riserverà la grande sorpresa di un doppio rifiuto della comodità borghese, negli agi materiali come nell’arte fasulla ed epidermica da spacciare a un pubblico sazio e benestante tra le abbaglianti luci di New York.
La quotidianità del Woody ragazzino trascorre tra scazzottate imbastite a mo’ di recita, più che altro per l’altrui diletto, e guerriglie o schermaglie tra bande di fanciulli, fondamentali come tappe di un più articolato romanzo di formazione per comprendere il significato e l’importanza dell’amicizia, della solidarietà e dell’uguaglianza, da provare a promuovere poi tra i coetanei servendosi del proprio innato carisma. Pagine davvero belle queste, quasi un edificante libro (per ragazzi) nel libro, appassionate e divertenti.

Quelle più dure seguono invece a ruota e raccontano il disgregarsi repentino ma inesorabile dei Guthrie sotto i colpi di una sorte beffarda: la sorella Clara perita a causa di un nuovo incidente tra le mura domestiche, la madre Nora minata da depressione e epilessia (e destinata a morirne), il padre Charlie ridotto sul lastrico dagli speculatori, provato nel fisico e bastonato dalla scalogna più nera a ogni tentativo di rialzare la testa per tenere assieme i cocci della propria famiglia. C’è tanta violenza in questi passaggi: non fisica ma subita dal destino e da una società avida, opportunista e profondamente sbagliata (qualcuno ricorda “Greed”, il capolavoro di Von Stroheim? Siamo da quelle parti). Così Woody soccombe a contatto con la realtà. Vede andare in fumo molto presto il sogno americano, ma non si arrende.
E poi è la volta della miseria, vissuta e narrata però sempre con grandissima dignità, non come un demone che soffochi l’anima bensì come condizione materiale cui sono costrette le classi più sfortunate quando una società sia minata a monte da troppi squilibri. Il giovane Woody la affronta con spirito aperto e tollerante, gran voglia di lavorare e, se possibile, di aiutare il prossimo. Tra i momenti più significativi, il capitolo dedicato al ritorno a Okemah dopo un solo anno a Oklahoma City, con la scoperta di una città stravolta in fretta dalla fine del boom del petrolio, spremuta, svuotata, abbandonata a se stessa.

L’inizio dell’amore per la canzone e per la chitarra è citato quasi distrattamente, tra le pieghe di un periodo trascorso in Texas a diciassette anni accanto al padre. Il quadro è quello di un paese depresso nel bel mezzo di una crisi economica devastante che vede Woody intuire presto come ci sia “materia per scrivere un sacco di canzoni” e mantenercisi. “Decisi che le canzoni erano la musica e il linguaggio di tutti”. Ecco la sua prospettiva: “Non composi mai molte canzoni sulle piste delle mandrie o sulla luna che procede a balzelloni per la volta celeste”. Non musica country né brani futilmente romantici o frivoli, bensì pezzi che dicessero “quel che tutti pensavano in questo nostro paese”. Così il giovane Guthrie prende coraggio, prova a fissare con la sua musica ciò che ritiene esser storto, proponendo al tempo stesso alternative utili ad aggiustarlo. Cambia profondamente, nasce dentro di lui un artista vero per quanto anomalo e tira dritto per la sua strada, che è sempre illuminata dal sole della condivisione e della collaborazione: “Forse avevo solo capito che la medicina migliore è la verità. Forse il mio segreto era solo quello di saper parlare alla gente”.

“Questa terra è la mia terra” è molto più di una splendida biografia. E’ una raccolta di quadretti, aneddoti anche favolosi che si intrecciano alle vicende del protagonista-narratore come tasselli di una più articolata storia della nazione. Sono memorabili quelle risalenti alla sua fase di presunto indovino, o quelle registrate da impeccabile “fotografo senza macchina fotografica” nella sua permanenza in Texas, come gestore di una squallida pensione. Per non dimenticare poi, soprattutto, il resoconto di un avventuroso viaggio senza un solo dollaro in tasca verso la California e i parenti benestanti, reso vano proprio sul traguardo dalla persuasione della propria inadeguatezza in un mondo ovattato e in fondo privo di aria. Il cuore di tutta questa palpitante esperienza di vita è la presa di coscienza della necessità di un vivere fatto di concreta solidarietà e spirito di fratellanza, così come annunciato quasi con solennità da un anziano compagno di viaggio occasionale, poco più che una comparsa nel romanzo: “L’unica difesa per gli uomini è avere più fede gli uni negli altri, credere gli uni negli altri. C’è uno spirito che è parte di tutti noi. Quello ci deve tenere uniti”. Se queste pagine possono suonarci oggi datate o intrise di un sentimentalismo patetico, sarà solo perché siamo avvelenati quasi a nostra insaputa dal cinismo imperante dei nostri giorni e abbiamo perso il potere di meravigliarci e commuoverci.

Woody amava e rispettava senza riserve la gente e in questo libro la gente è protagonista indiscussa, accanto a lui: non soltanto i vagabondi sui convogli ferroviari ma anche i marinai che bevono nelle bettole in attesa di imbarcarsi, i commercianti stranieri smaniosi di integrarsi per sentirsi, come tutti, parte di qualcosa di grande, e le famiglie dei lavoratori stagionali impiegati per la raccolta della frutta o la costruzione di grandi dighe, ostaggio in entrambi i casi dei capricci dei ricchi possidenti o di una burocrazia impietosa. E ancora, tutta una sterminata varietà di facce e provenienze, spesso senza documenti d’identità ad accompagnarle, affogate nel flusso della sua ricchissima umanità yankee perennemente in viaggio alla ricerca di una piccola fetta di benessere, inseguita con dignità, ostinazione e incrollabile fiducia nel prossimo.
Un libro bello e importante.

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