Laetitia Sadier

Not Music

         

Mentre il loro indefinite hiatus procede da più di due anni senza che alcuna novità significativa sia giunta a scalfirne la granitica fermezza, mi tocca tirare fuori l’impolverata (e non troppo entusiastica) recensione del loro ultimo passaggio discografico ufficiale. ‘Not Music’, che era poi solo una raccolta di avanzi dalle session di ‘Chemical Chords’ e che quando ruppe all’improvviso il silenzio non sorprese in verità nessuno, non me quantomeno. Sto parlando degli Stereolab, ovviamente, una band la cui mancanza comincia a farsi sentire. Certo l’onestà con la quale quest’ultimo lavoro era stato presentato aveva in fondo già allora chiarito come di un gruppo in pausa di riflessione si trattasse. Materiale di seconda scelta quello di ‘Not Music’, frammentario e marginale, plasmato con la consueta cura per l’arrangiamento eccentrico ma fondamentalmente privo di spunti degni di nota. Che l’ispirazione del gruppo anglo-francese avesse iniziato a mostrare la corda ce ne eravamo accorti da un po’, diciamo dai tempi di ‘Margerine Eclipse’, anche se lo straordinario mestiere e l’instancabile ricerca stilistica avevano saputo in più occasioni piazzare le giuste toppe in lavori minori per quanto sempre molto gradevoli. A ‘Not Music’ questo miracolo non è riuscito, e non poteva che essere così in fin dei conti: è una collezione di esercizi sonori, di bozzetti e di divertissement, non di canzoni, e come tale non può che lasciare freddini gli ascoltatori di passaggio immalinconendo i fan più accaniti. Mentre Laetitia e ancora in giro per il mondo a promuovere il suo (piacevole ma non indimenticabile) esordio solista e Tim è senza dubbio impelagato in qualche nuovo progetto, spiacerebbe dover registrare che questa pallida raccolta sia a tutti gli effetti l’ultimo capitolo di un’avventura formidabile e rivoluzionaria come quella degli Stereolab. Certo da loro non ha senso attendersi ancora un colpo di coda degno di ‘Transient Random-Noise Bursts With Announcements’ né un fantomatico secondo capitolo di ‘Dots and Loops’ (la cui cifra minimalista sembrerebbe tornata in auge proprio in queste più recenti registrazioni) ma la speranza che la carriera possa riservare ancora qualche sorpresa e qualche bella canzone è più che legittima. Restiamo in attesa allora. Con le reunion tornate prepotentemente di moda, gli hiatus sono quanto di meno quotato al momento. Anche le Sleater Kinney e le Electrelane sono avvertite…

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Laetitia Sadier + Silje Nes + Mice Parade @Spazio211 21/10/2010 _Il nostro (altro) concerto

    

Ventuno di ottobre del 2010, un anno fa su per giù, momento propizio per una piccola toppa nel mio curriculum di affamato spettatore di concerti. Finalmente Laetitia Sadier a portata di occhi, anche se solo per un piccolo live solista. La parola “toppa” non l’ho usata per caso, essendosi manifestati ben due strapponi in un passato ormai remoto (ma nemmeno troppo) cui porre rimedio oggi con la pur insoddisfacente riparazione raccontata nelle poche righe che seguono. Non si trattava infatti dell’esordio cittadino per la cantante francese, passata da queste parti assieme a Tim Gane ed al resto della favolosa pattuglia Stereolab (c’era anche la compianta Mary Hansen) in due distinte occasioni, entrambe nel mitico (compianto anch’esso) Barrumba di via San Massimo e curiosamente nello stesso periodo dell’anno in cui è andato in scena questo ritorno un po’ misero: 22 ottobre del ’95 e 20 ottobre del ’97, per la precisione. Dove mi trovassi in quelle due serate autunnali, non ho modo di saperlo. A casa, probabilmente, oppure in giro con amici ma non certo ad un concerto. Gli Stereolab li avrei conosciuti di lì a breve, nel 1998 se non sbaglio (primo anno di università), per poi aspettarli invano una dozzina di anni fino alla relativa sospensione delle attività. L’occasione di questo insperato rendez-vous si è rivelata ghiotta più per il contorno che non per la portata attesa con trepidazione, visto che il set della Sadier è stato compresso a sandwich tra l’esibizione della sconosciuta nordica Silje Nes e quella dell’arrembante truppa Mice Parade: tre artisti internazionali al modico prezzo di euro 8, roba da saldi di fine stagione. A conti fatti, sorprendentemente, proprio il ridotto show della cantante degli Stereolab ha finito col rappresentare il momento più debole dell’intera serata. Otto canzoni appena, tra pezzi nuovi dell’album solista ‘The Trip’ e qualche cover non proprio indimenticabile, con il solo accompagnamento della propria chitarra elettrica. Brava ed incantevole come da previsioni, per carità, ma da una cantante con il suo repertorio era lecito attendersi qualcosa di più (e soprattutto di più movimentato). Da rivedere quindi, sperando che la sbornia solista passi presto e torni la voglia di esibirsi con il gruppo: dando un’occhiata alla scaletta dello show torinese del ’95 (‘Transona Five’‘Ping Pong’‘Percolator’ e ‘Metronomic Underground’, tra le altre) c’é da star male, ogni possibile confronto con le tristi e spoglie canzoni fatte allo Spazio è semplicemente impietoso. Davvero niente male invece l’apertura “atmosferica” dell’amena folksinger norvegese Silje Nes, venuta in Italia quasi sotto traccia a presentare i brani del suo secondo disco, ‘Opticks’ (uscito per Fat Cat giusto un anno fa), ed abilissima a stregare un pubblico che di certo non si trovava lì allo Spazio per lei. Trame notturne, sofisticate quanto eteree, jazzate e screziate elegantemente di elettronica e rumorismi vari in una miscela decisamente convincente. Una vera bomba, infine, il calorosissimo set degli statunitensi Mice Parade, capaci di riscaldare un pubblico prossimo all’assideramento con le versioni rock oriented dei titoli della loro più recente fatica, ‘What It Means To Be Left-Handed’. Se il disco mi aveva lasciato alquanto perplesso per l’uso spregiudicato e ridondante di pop progressivo, contaminazioni elettroniche ed esotismi vari, le versioni più tirate e rumorose suonate allo spazio mi hanno strappato più di un applauso convinto. Energia senza cali, una presenza ritmica straordinaria, virtuosismi a profusione senza ombra di autocompiacimento ed un ospite extralusso (nelle morbide decorazioni glitch) come Gunnar dei Mùm. E poi, beh, una vocalist potente e delicata come Caroline Lufkin, che da sola ha conquistato la mia attenzione quasi per l’intera durata del concerto. Nel mio vocabolario la sua fotografia non potrebbe che stare accanto alla voce “bellezza”.

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