Indie-Rock colorato

 

Ecco un paio di album freschi freschi ed ascrivibili senza particolari problemi al genere ‘indie-rock’ tout court, quello sbrigativo e rumoroso che in questi casi è pure alquanto colorato (le copertine sono entrambe azzeccate). Il primo gruppo viene da Seattle, si presenta sotto l’improponibile ragione sociale di Mt. St. Helens Vietnam Band ed è un esperimento sonoro quantomeno curioso. Paragonati in patria ai Wolf Parade, giunti a questo omonimo esordio sulla lunga distanza dopo un EP prodotto da Scott Colburn (Animal Collective, Arcade Fire), si presentano con una fisionomia ed un suono tra i più bislacchi del momento. Per dare un’idea, dirò soltanto che il batterista è un ragazzino tredicenne di colore adottato dal cantante e da sua moglie. Se intercettate una loro foto potreste capire perché non è fuori luogo parlare di progetto folle a proposito di questo gruppo. Musicalmente suonano come lo strano punto d’incontro tra i Les Savy Fav più inviperiti e le cosiddette band Nu Rave alla Klaxons, per quanto nel guazzabuglio sonoro da loro proposto in questo disco entri molto altro con effetti a tratti godibili e a tratti frastornanti. Chitarre alquanto velenose, cambi di tempo continui, piacevoli digressioni su piani più soft e zuccherini, scorribande corali. ‘Who’s Asking’ è un’ottima premessa, anche se non tutto il resto del corredo funziona proprio a dovere. Non siamo certo al cospetto di un nuovo gruppo clamoroso, i difetti non mancano e sono palesi, si intuiscono alcune pesanti ingenuità e più di una canzone risulta ben presto noiosetta. Eppure non si può negare ai Mt. St. Helens Vietnam Band di provarci e meritare almeno un ascolto. Veloci e vivacissimi, non sono mostri di originalità ma mescolano molto umori ed influenze, compresi certi echi hard rock (‘Masquerade’), che ne decretano sostanzialmente il carattere peculiare. Leggeri ma abbastanza teatrali e pestoni, sono di fatto una kitsch band fracassona che a volte rallenta (‘On the Collar’, ‘Cheer for Fate’, ‘A Year or Two’) ma ha anche in serbo qualche bizzarro numero a sorpresa (‘Anchors Dropped’) e si offre in un autentico tripudio senza soste. Non male la sfuriata adrenalinica di ‘Albatross, Albatross, Albatross’, credibile e sanguinante il giusto.

Più rodati e intriganti sono invece i gallesi El Goodo, affini per attitudine e gusto onnivoro ai connazionali Super Furry Animals, loro più accaniti sostenitori e sponsor. ‘Coyote’, loro secondo album dopo la prova omonima di quattro anni fa, parte con le chitarre taglienti e il buon rumore elettrico di sottofondo di ‘Feels So Fine’, un’escursione tutto sommato fuorviante considerando il seguito. Già col brano successivo, l’irresistibile ‘Aren’t You Grand’, si delineano in modo chiaro quelli che sono i tratti distintivi di questa promettente band. Una bella sicurezza nel fare propri alcuni dei più strepitosi stilemi del rock’n’roll dei sixties, con predilezione per i gruppi che meglio si confrontarono con la rivoluzione della psichedelia in ambito musicale, dai Byrds (ben più che un semplice riferimento) ai Love. Le divertenti ballate degli El Goodo, talvolta sferraglianti e sbalestrate, più spesso contaminate dal blues o infettate dalla vitalità western (armonica e trombe sanno di Messico), sono spigliate e sufficientemente muscolari. Inanellate una dopo l’altra, confezionano un disco assolutamente godibile, che ha uno dei suoi pregi maggiori nell’ottima qualità delle parti vocali: se ‘Information Overload’ e soprattutto ‘Oh, To Sleep’ evocano decisamente la voce di Colin Blunstone degli indimenticabili Zombies, la funerea ‘I Only Dream’ e ‘Talking to the Birds’ riportano inequivocabilmente alle armonie dei più celebri fratelli Wilson della storia. Avvolgenti, gradevoli, forti di una sensibilità melodica non proprio comune, gli El Goodo confermano di essere un gruppo innamorato (e rispettoso) della miglior tradizione ma anche al passo coi tempi: oltre ai pesanti debiti verso i già citati Animali Superpelosi, certe parentesi freak (‘I Can’t Make It’) li avvicinano anche ai primi Gorky’s Zygotic Mynci, quelli più goliardici, mentre in ‘Be My Girl’ si guarda più che altro al pop-rock britannico anni ’90 à la Supergrass. Consigliati.

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