Quando il Black Power era anche Black Merda

Troppo belli per essere veri. Nella mia profonda ed assoluta ignoranza non li avevo mai nemmeno sentiti nominare. Poi qualche mese fa mi imbatto sul Mucchio in una devota recensione di un loro album recente e casco dal pero. Non vi nascondo che, senza quel nome strepitoso, avrei saltato la pagina a pie pari, ché tanto si era nella solita sezione delle riedizioni o della muffa da collezionista chiamata ‘Classic Rock’. Però quella ragione sociale non poteva lasciarmi indifferente e ho deciso di approfondire. Gesù benedetto! Ma un gruppo del genere nell’oblio cosa lo hanno lasciato a fare, si può sapere? Qualche semplice nota biografica: originari del sud ma stabilitisi a Detroit per motivi sin troppo ovvi, considerati il periodo e la professione, questi quattro sconosciuti afroamericani hanno iniziato a lavorare a metà anni ’60 come preziosissima backing band, collaborando con Wilson Pickett e numerosi artisti della storica Motown. Orientamento soul come da etichetta e nome di battaglia assolutamente in linea con queste onorevoli (ma non memorabili) premesse. Sembravano destinati ad esaurirsi come ottimi turnisti in quella eccellente scuderia ma accadde qualcosa che li cambiò. Su una rivista lessero delle mirabolanti imprese di un giovane scapestrato chitarrista di Seattle, uno ancora poco noto eppure destinato a tramutarsi in leggenda nel giro di tre o quattro anni. Jimi si schiantò su questi bravi ragazzi con un impatto micidiale: era quello che loro sentivano di poter e voler diventare. Ancora sotto le spoglie di Soul Agent furono il primo gruppo al mondo ad incidere una cover di Hendrix (‘Foxy Lady’), non tanto per un ammirevole senso dell’intuizione nel precorrere i tempi ma proprio per più nobili ragioni legate all’identificazione culturale e spirituale con un grandissimo artista di quegli anni, forse il più grande. Continuarono a prestarsi per incarichi di alta manovalanza musicale, mettendosi al servizio dei Temptations, ma i tempi erano maturi per una svolta facendo proprie le ragioni di quel fuoco e di quel suono appena scoperti. Cambiarono il nome in Black Murder, con un chiarissimo intento di denuncia verso quanto di più odioso capitava negli States in quel periodo di cambiamenti non ancora generalizzati. Lo smussarono in Black Merda per attenuare la durezza della polemica, ignorando completamente il significato di quella seconda parola nella nostra lingua. Uscirono in rapida successione due ottimi dischi, ‘Black Merda’ e ‘Long Burn The Fire’ che rimasero pressoché ignorati. L’insuccesso li convinse a proseguire come semplici musicisti "a servizio" fino ad una manciata di anni fa, quando vecchietti hanno riscoperto il piacere di suonare come gli andava. Ascoltate oggi, con la musica nera trasformata in una volgare caricatura del "potere" bianco, le loro vecchie canzoni fanno una certa tenerezza, ma non suonano affatto patetiche o antiquate, anzi. Emanano uno splendore autenticamente vintage che le rende quantomai attuali, nell’accezione buona del termine considerato quanto scritto poc’anzi.

Recuperata la preziosissima raccolta di quei primi due lavori, intitolata  ‘The Folks From Mother’s Mixer’, posso affermare senza timore d’essere smentito che i Black Merda erano dei grandi, anche se magari furono persuasi del contrario da chi non era preparato al funk-rock suonato da un gruppo di soli afroamericani. Bene come camerieri per le magiche voci della Motown, meno se intendevano togliere il lavoro ai giovani e arrabbiati figli della buona borghesia americana. Hendrix era molto più di un modello per loro. Nella scarna ma aromatica ‘Prophet’ se ne sente l’ammirazione profonda, sin dal titolo. Così in ‘Cynthy-Ruth’, dove non manca una certa propensione alla solennità corale. Canzoni come inni, con una loro forte epicità. In ‘Ashamed’ c’è tutta la purezza del rock americano di fine anni sessanta, caotico ma sincero alla Easy Rider. Anche in ‘Lying’, pur se più austera, anche nell’ottima chiusa di ‘We Made Up’. E’ musica che oggi non si suona più, al massimo la si imita con maldestra e ruffiana spavalderia. La ribollente e crepuscolare ‘Long Burn The Fire’ descrive un fuoco di cui non esiste che il ricordo ma rimane una delle migliori cartoline di quella band e della sua marginalità favolosa. Stesso incredibile senso di libertà in ‘I Got A Woman’, stessa incendiarietà trattenuta in ‘Sometimes I Wish’. Gruppi come i Make-Up del mitico Ian Svenonius avrebbero battuto le stesse piste solo molti anni più tardi, senza freni. Ascoltata con quasi quattro decenni di ritardo ‘Over And Over’ è ancora uno spettacolo, con quei corridoi disegnati da assoli luminosissimi, con fragranze psichedeliche inattese e groove sbalorditivi, istrionici ma senza barocchismi da virtuosi dell’hard rock. Il brano che da il titolo alla raccolta è un vero gioiello, esprime al meglio le qualità di una formazione tranquilla ma efficace nell’incedere, resta ben impressa anche senza fiammate. Insinuante, intrigante, personalissima. Strepitosi Black Merda, anche alle prese con registri più orientati al folk cantautoriale e intimista. Tra le pieghe di ‘My Mistake’ si riconosce un tono incerto ma ispirato, solo apparentemente fragile, all’avanguardia anche nell’impiego sapiente dei violini. Romantici ma non banali. Quello di ‘Think Of Me’ è folk appena sussurrato, con dentro quella sacralità del respiro black e sottili pennellate soul. Poche le eccezioni a questa formula, tutte peraltro pregevolissime: ‘Reality’ è un frammento pop che riporta in casa Motown con stupefacenti coloriture a livello vocale; ‘For You’ anticipa i lustrini seventies imbastardendo poi quell’atmosfera da lento sofisticato grazie ad una chitarra sempre puntuale. Sarei pronto a scommettere belle somme sul fatto che Chris Robinson conosca a menadito una canzone che, da ‘Amorica’ in poi, i suoi Crowes sembrano non aver mai smesso di far propria. Solo ‘Windsong’ può lasciare perplessi, a conti fatti: più lento, sperimentale, pinkfloydiano, è forse il pezzo invecchiato meno bene tra quelli del ricchissimo lotto, per quanto non privo di suggestioni. Comunque sia, buon ascolto a voi!

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