Month: settembre 2009

Wilson in acido

 

La notizia è più che altro la conferma di un’impressione andata via via consolidandosi: la Woodsist si sta progressivamente affermando come la più autorevole fucina in fatto di lo-fi scalcagnato nel sempre più ricco panorama rock alternativo statunitense. Se ne aveva avuto il sentore con i Woods prima e i Wavves poi, rafforzando l’idea con qualche lampo di spleen autoriale più (Crystal Stilts) o meno (Kurt Vile, comunque in crescita) valido. Se quattro nomi possono costituire un più che discreto patrimonio indiziario, aggiungendone un quinto dovremmo essere in presenza di una prova fatta. Il quinto nome ci è stato servito da poco ed è quello dei Ganglians, quartetto di Sacramento la cui mappatura genetica pare essere perfettamente in linea con quella della label newyorkese. Il relativo coefficiente di aderenza è in effetti paurosamente elevato, ma questo non deve in alcun modo allarmare chi potrebbe temere un appiattimento del gusto e dei suoni proposti dalla coraggiosa etichetta (coraggiosa sì, perché è da temerari lanciare le Vivian Girls). Al di là di questa significativa navigazione nel flusso sonoro riconoscibile in casa Woodsist come un marchio di fabbrica, i Ganglians giocano anche la carta del ri-flusso, del riciclo, della vivificazione di stilemi musicalmente morti e sepolti. Lo fanno con piglio ed inventiva, portando a casa un risultato apprezzabile anche a livello di canzoni: volendo spostare l’asse dell’attenzione su un piano non meramente formale, bisogna riconoscere che questo ‘Monster Head Room’ è comunque un buon disco, un lavoro stimolante per l’ascoltatore più smaliziato e assai curioso per tutti gli altri. Se si ha una qualche familiarità con le sonorità gracchianti, sfacciatamente rozze ed enfaticamente votate al pop dei Thee Oh Sees, si perderà qualcosa in termini di sorpresa per recuperarlo presto amplificato in chiave di gradimento fidelizzato. Un nome, quello appena proposto, che è molto meno casuale di quel che si potrebbe pensare, dato che anche quell’altra coloratissima brigata californiana è uscita da pochissimo con un singolo proprio su Woodsist. Tornando alla vena passatista di Ryan Grubbs e soci, soltanto due parole si possono riportare in una recensione sull’argomento che voglia definirsi tale, ma sono alquanto pesanti parlando di musica: “Beach” e “Boys”. Non si scappa, è un gioco a carte volutamente scoperte. Dopo l’intro stringata di ‘Something Should Be Said’, ci si trova infatti subito a mollo in una guazza lo-fi a rimirare l’estasi wilsoniana di ‘Voodoo’. E’ straniante il contrasto tra gli impasti corali così smaccatamente retrò ed un armamentario di registrazione tanto approssimativo, in confezione extra-economica. Nella fanghiglia sonora offerta dalla ditta, melodie e svenevolezze vocali sono tradotte in una parossistica fioritura, ribadendo istante dopo istante quel senso di “fuori contesto” che è forse la più piacevole delle sorprese approntate per l’ascoltatore. Non c’è buonismo però. Le trame sono amabilmente in acido, gli umori psichedelici fermentano, si sublimano nell’incontro con i ritmi alquanto grossolani della proposta, e pare che anche il mitico mogwai Gizmo dia il suo contributo in un paio di cori. Eppure il miscuglio funziona, così improponibile, così credibile.

 

La successiva ‘Lost Words’ replica il medesimo meccanismo ma suona se possibile anche più sbiellata. Con l’incrocio di elettracustico ed elettricità fané, un refrain che puzza di Zombies e di nostalgia sixties densa di suggestioni decotte, si perpetuano i canoni naïf della scoppiatissima banda californiana. Il punto d’incontro perfetto tra i due estremi estetici del gruppo – pop di matrice beachboysiana e sporcature in bassa fedeltà – si concretizza con il quarto brano in scaletta, ‘Candy Girl’: che sia questo il modo migliore per preservare i sogni di Brian Wilson dal rischio di tramutarsi nell’incubo di una senile maniera? La risposta resta sospesa anche perché arrivati a questo punto i Ganglians cambiano sostanzialmente direzione adottando un atteggiamento furbescamente elusivo. Con ‘Crying smoke’ e ‘Modern African Queen’ si abbozza un senso di fumosa e languida meraviglia comunque disinnescato (o scongiurato) dalla produzione sempre decisamente (fortunatamente) schietta e deficitaria. Verrebbe da dire che per i Ganglians l’attitudine conti più di qualsiasi altra medaglia. Restando fedeli unicamente alla propria libertà espressiva, i quattro di Sacramento confondono le idee e tagliano i già labili riferimenti a disposizione dei fruitori, offrendosi nelle fogge più imponderabili ed inattese. Una cruda ‘Valient Brave’ lascia più spazio alle increspature rumoristiche e ai suoni tanto cari al marchio Woodsist, tra accenni western, schizzi elettrici e qualche lampo di ordinata lucidità. Ben più sorprendente ‘The Void’, quasi un passaggio folk sepolcrale cui la profondità dei cori conferisce un bel tono barocco à la Greg Weeks: cupa e sbiadita, si rivela capace di spettrali tentazioni come quando si apre in una selva aliena di riverberi e isteria. Sviluppando quanto proposto negli ultimi due pezzi citati, ‘To June’ sfrutta gli aromi folk obliqui e minimali accompagnandoli con una voce chamber pop, ad assicurare un maggior trasporto. Su tutto un gradevolissimo clima di radicale disimpegno, di lentezza, di svacco trasandato e pacifico, di abbandono e beatitudine campestre (si sente anche gracidare). La vetta, in tal senso, è raggiunta con un titolo che spinge alle estreme conseguenze quell’impostazione, ‘100 Years’: il gran pasticcio, tra i grovigli elettrici ed un incedere senza meta alcuna, incurante e festoso nella sua felice e sovraccarica indifferenza. In prossimità della conclusione di questo rapido viaggio, i Ganglians ci hanno condotto nel punto di massima distanza rispetto alle promesse favolose dell’inizio. Era tutta una finta però. In un sol colpo si palesa nuovamente nella forma del manifesto quello che potremmo agilmente definire psych-pop inacidito (con punte rancide ma non fastidiose). ‘Try To Understand’ è il finale brillante e ruspante che ci si aspetta da un disco folle e positivamente ai margini, quale è a tutti gli effetti ‘Monster Head Room’. Insegue come Icaro l’illusione di certe vette auliche, il sublime del proprio modello (o meglio, pretesto), e proprio la scelta fatta a livello formale consente ai suoi quattro autori di giungere a destinazione immacolati, con le ali a posto e con un’opera assolutamente originale a referto. Cercavano il colpo grosso e l’hanno trovato. Noi ci accontentiamo di una conferma, a patto che venga presto.

 

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How Will You?

 

Azita Youssefi ama recitare nei panni della trasformista. Forse meno schizofrenica di un tempo nell’orientare nuovi cambi di direzione, la cantautrice e musicista chicagoana di origini iraniane continua a stupire con l’ennesima svolta di una carriera già corposa e si fa apprezzare per la "giustezza" del cambio d’abito e di stile approntato anche in questa occasione, particolarmente adatto ai suoi trentotto anni. Non tenessimo conto dello spessore autoriale che pure si fa sentire, potremmo immaginarla come esordiente disinvolta ed appassionata, appena diplomata al conservatorio. All’inizio, in effetti, Azita era così: disciplinata e personale, classica ma intraprendente. Dai primi passi al maturo ‘How Will You?’, uscito da appena qualche mese, è passata però tanta di quell’acqua sotto i ponti da far pensare che siano esistite almeno tre artiste col suo nome in momenti ben diversi di questi ultimi vent’anni (!). E’ stata una scapestrata freak alla guida di improbabili band no-wave in una fase in cui queste devianze artistiche erano decisamente sensate: suonava conciata come una mummia nelle Scissors Girls e agghindata con burqa bianchissimi nelle Bride of No-No. Erano gli anni in cui a Chicago gli Smashing Pumpkins suonavano in locali malfamati insieme ad una drum machine: una vita fa, evidentemente. Poi ha scoperto il fascino un po’ sbracato delle sperimentazioni pop, con album magari zoppicanti ma non privi di luce (preziosissimo ‘Life on the Fly’). Oggi la chiusura del cerchio si concretizza con questo ammaliante e intensissimo lavoro, uno scrigno che la premia soprattutto come cantante adulta e convincente, sorta di incrocio di mille umori vocali al femminile: Patti Smith nella sua accezione più rock, Nico per le inquietudini notturne, Thalia Zedek in quanto a taglio sensuale e Carla Bozulich (ma anche Tori Amos) come inclinazione artistica. Veramente notevole, peccato che da noi non se la sia mai filata nessuno.

 

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Notare Notari

 




Di lui non ha parlato nessuno. Non ancora, almeno. Scoprire qualcosa sul suo conto dalla rete pare impresa ardua. Di più. Al primo ascolto vi schianta con un senso di vecchio, di fuori moda, di strasentito, di così terribilmente poco cool da indurvi nella tentazione di cancellare quel suo nome in parte italiano dall’angolo più recondito dei cassetti della vostra memoria. Sbagliereste. Lo dico dando per scontato che il genere vi appassioni, perché se così non fosse sarebbe la scelta più azzeccata a vostra disposizione. Se però questo tipo di musica è nelle vostre corde ed avete allenato a dovere la vostra pazienza con pesantissimi polpettoni acustici, ‘Very Long Dream’ può fare sinceramente al caso vostro. Per quanto mi riguarda, ho faticato. Il primo ascolto in certi casi è verità sputata, in altri può trarre in inganno. Lasciando correre il disco nei miei spostamenti da e per il lavoro, mescolato con un’altra decina di opere in un certo senso affini o perlomeno non così distanti (Stephen Steinbrink, Bill Callahan, Ohtis e Felice Brothers), mi sono trovato a dare presto ragione al tizio che su Rym (utente Sodastreamer, una garanzia) lo accoglieva col pieno di stelline ed un allettante quanto definitivo “Eternal”. Per quanto lapidario in positivo e striminzito, il giudizio potrà apparire un’esagerazione ma credo non lo sia affatto. Trovo che abbia colto nel segno, catturando la maggiore qualità di un album e di un songwriter che sanno porsi magicamente fuori dal tempo. Mi chiedo se, nel corso di un’annata che verrà ricordata dagli estimatori come la più significativa degli ultimi venti o più anni per l’universo folk, il piccolo Huck Notari avrà modo di dire la sua. La mia convinzione è che, per quanto in pochi abbiano avuto modo di fare la sua conoscenza, questo sia già avvenuto. La santa triade Oldham – Callahan – Molina, tutto un corredo di altri attisti affermati come Chesnutt o Bird e di cantautori europei apprezzabilissimi (Alasdair Roberts, King Creosote e James Yorkston i primi che mi vengono in mente), puntualmente a referto con album ottimi o molto buoni. In questo quadro di esaltante, febbrile e non preventivata messe produttiva, Huck sembrerebbe destinato a recitare il ruolo del pulviscolo, della pulce, della comparsa di terz’ordine. A dargli credito si riconoscerà che certe fragranze restano inestimabili se autentiche. Il rompighiaccio ‘Save The Day’ parla questa lingua, vive di classicità sobria e corale spaziando a ritroso dall’alt-country dei ’90 a Dylan, un segmento che pare un semplice punto nelle sue canzoni. Datato ed attuale si confondono sulle facce contrapposte di una stessa moneta che rotola a terra. In ‘Play Them All’ i rimandi al più noto dei menestrelli si impongono con prepotenza, come l’immancabile armonica in stile country. L’ortodossia da folksinger d’impronta classica è rispettata con una certa dovizia ma anche con l’amore filologico del cultore appassionato. Magari l’andatura si fa di tanto in tanto più schietta, magari il tocco del banjo orlato di mandolini può lasciare l’illusione di una maggior vivacità (‘Falling Too Hard’). Chi detesta certe sonorità non si farà certo trarre in inganno anche perché la veste è alquanto spoglia e non disdegna la bassa fedeltà. Gli altri, al contrario, ammiccheranno compiaciuti.

 

 

 

Non ha alcun legame col nostro Notari, Marco. Si è dedicato dapprima al vaudeville con una combriccola messa su alla buona, i Cardboard Songsters, quindi al ragtime in quel di New Orleans, con una band (Kitchen Syncopators) dal nome altrettanto improbabile ed ignoto. Trasferitosi nella sempre fertilissima Portland (Oregon, non Maine) ha iniziato a fare sul serio in proprio, non rinunciando comunque ad esperienze di gruppo come quella da pianista nei ranghi di Oz St. Fossils (altra compagine non esattamente ultrapopolare). Cosa tenere di buono in questo secondo album solista di cui parliamo? Cosa rende così speciale Huck Notari da richiedere che il suo nome vada al di là dell’infame anonimato delle misconosciute formazioni sopra citate? Beh, in ‘Very Long Dream’ non ci sono forzature, né colpi ad effetto. Come ‘Who Could Let You Go?’ dimostra, emerge un ricamo secco, un tramare paziente che attinge all’inesauribile fonte del folk statunitense con una credibilità sbalorditiva. E poi le canzoni: semplici, dirette, pacifiche, oneste. A loro modo sono impeccabili e la confezione spartana si rivela quanto mai adeguata. Anche quando paiono più introspettive ed essenziali (vedi ‘Undone’, o il dialogo voce e chitarra di ‘Wall Around Your Heart’) restano convincenti per integrità, coerenza, rigore. La disciplina country-folk non esclude i lampi, ma questi sono adottati in forma di sfumature tanto esili quanto decisive. ‘I Want To Win’, canta Notari, con l’afflato forte e chiaro dell’Americana. Certo, però, il tono tranquillo da focolare, quei violini controllatissimi e le aperture di grazia gentile portano nel contrasto all’esito inatteso di una ballata di rara dolcezza. La Title Track fa di meglio manipolando la stessa materia. Racconta molto più lei del suo autore di tutte le biografie che in rete gli devono ancora essere dedicate. Incredibile questo fraseggio serafico, questa voce che si presenta soltanto dopo più di tre minuti, non facendo mistero di guardare con sprezzante indifferenza alle più elementari regole dell’appeal canzonettaro. Ovviamente alla fine è lui che ha ragione da vendere: questo brano è meraviglioso e merita di intitolare l’intera raccolta. Il fragilissimo duetto conclusivo di ‘He Rode Off’ raggiunge dal nulla buone punte d’intensità per merito di un pregevole incastro d’ombre con la voce femminile. Lineare fino in fondo, anche emozionante se lo si sa ascoltare. Stesso discorso per il brano che lo precede, ‘Dark And Dreary Day’, più sospeso, volutamente nebuloso e con un bel sapore da canzone di viaggio. E’ uno standard che al cantastorie di stanza a Portland riesce benissimo. Per non dire dei risultati raggiunti quando è ai sixties che si guarda. ‘Nora’s Song’, il capolavoro, è un gioiellino country-folk ossequioso verso la tradizione ma forte di alcuni passaggi melodici in chiaroscuro veramente mirabili. Sempre pacato, sempre equilibrato, il piccolo cantante americano dimostra di avere i numeri giusti in questo campo. Si chiama Huck Notari, appuntatevi il suo nome.

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Beware!

 

Will Oldham non è certo un tipo che si accontenta. Del proprio lavoro, ad esempio. E poi dei propri collaboratori, sempre poco noti e sempre validissimi musicisti. Soprattutto Oldham sembra non averne mai a basta di sè e della propria inesauribile ricerca di compromessi espressivi tra tradizione e personalissima sensibilità. Ecco quindi il perché di una discografia che in poco più di quindici anni ha già raggiunto lunghezze chilometriche, sviluppandosi in una serie di uscite a strettissimo giro di posta e dai connotati qualitativi sempre ragguardevoli. Sembrava impossibile far meglio del predecessore ‘Lie Down In The Light’ ad appena un annetto di distanza e vien da ammettere che forse, effettivamente, il Nostro non è stato vincente nell’impresa. In realtà questo nuovo ‘Beware!’ è comunque tutto fuorché un passo indietro. La distinzione adottata in sede di giudizio non può che dirsi assolutamente soggettiva e mi pare limitata all’ambito delle semplici sfumature. Ancora un grande album dunque, scritto sulla falsariga di quell’altro proprio in termini di impostazione generale: bussola ben piantata sul country-folk d’impronta classica, minuzioso lavoro di contaminazione e riscrittura stilistica da maestro cesellatore, apertura a soluzioni meno crude e più corali, strepitosa varietà nei dettagli minimi (con impiego dei più disparati strumenti, dalle trombe ai mandolini, dal sax alla fisarmonica) e nelle derive espressive, con una curiosa inclinazione verso il soul ed una singolarissima puntata conclusiva in territori prog. Di tutto e di più insomma, restando sempre e comunque il solito "Principe". Fedelissimo anzi alla propria magnetica natura ed al proprio songwriting dai contrasti mirabolanti: in ‘Beware!’ fanno bella mostra un paio di istantanee che sono quanto di più personale Oldham potesse raccontare di se oggi: la confessione intima ed ironica di ‘I Don’t Belong To Anyone’, ed il rovesciamento di prospettiva emozionale calzato a pennello per noi ascoltatori entusiasti di ‘You Are Lost’. E continuando a questi ritmi e su questi livelli rischiamo seriamente di perderci. 

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