Bill Callahan

Dream River

       

Giudicare il proprio lavoro non è mai semplice e rischia spesso di rivelarsi un’attività antipatica, per un verso o per l’altro. Dei due, peggio sicuramente l’autoincensarsi a vanvera. E’ una pratica che evito come la peste, ma in rare occasioni l’eccezione è doverosa. Questa recensione “romanzata” dell’ultimo album di Bill Callahan, l’ormai remoto “Dream River” (sì, ci sarebbero i remix dub di “Have Fun With God” ma quella è arte apocrifa, compostaggio musicale), rientra nel ristretto novero di cui sopra. Così per una volta mi sbilancio e non ho problemi a dire che si tratta di una delle critiche migliori che abbia mai scritto. Forse perché non è una vera critica, bensì il ritratto di uno dei pochi personaggi degni di essere narrati tra i maestri della canzone di oggi. Chi già lo conosce dovrebbe convenire che, dietro quella vaga tonalità onirica che mima il vaporoso fascino del disco, la fotografia di Mr. Smog è esatta, e passi quella forzatura (comunque affettuosa) sulla storia d’amore sfiorita con Joanna Newsom. Ho provato a entrare nella mente di quel cantautore serioso, ma l’ho fatto con tutte le delicatezze del caso. Chi invece non conoscesse Callahan farebbe bene ad approfondire, partendo magari dal capolavoro solista di “Sometimes I Wish We Were An Eagle”, o meglio ancora dagli album a nome Smog (“Knock Knock” o “Dongs Of Sevotion”, perché no). A patto che il genere non comporti controindicazioni fastidiose, e può essere. Bill Callahan è un autore semplicemente strepitoso ma, come sempre in questi casi, proprio non è per tutti.
 
 
 

I have learned
when things are beautiful
to just keep on,
just keep on

 

E così lei ha fatto il grande passo, è notizia di questi giorni.
Dopo aver riposto in un baule l’abitino da fata silvana degli esordi, piegato con cura e corredato dalla corona di fiori colorati del ritratto di “Ys”, ha scelto di blindare la sua relazione con l’insipido attore comico Andy Samberg e il suo scintillante circo equestre televisivo. Lontane come non mai le suggestioni della New Weird America ma a un tiro di schioppo, in compenso, quella fama che le è sempre sfuggita, fuori dalla nicchia dorata degli indipendenti. Là dove con Bill Callahan avrebbe potuto vivere alla stregua di una regina per sempre giovane, addosso gli stracci belli di un’arte che può ancora permettersi d’essere povera, attorno la devozione di una corte di colleghi figuranti e l’invidia anche affettuosa del suo popolo adorante. Non deve essere comodo recitare nei panni della musa per un grande cantautore. Che non lesina quando si tratta di regalarti diamanti come pegno d’amore, ma sempre e solo in forma di canzoni. Chissà che noia per l’arpista ragazzina svezzata a pane e musica da quel professore galante e serioso, maturo per lei forse più del necessario. Chissà se almeno l’istantanea d’un pensiero, in una brutta copia appena abbozzata, si sarà soffermata sulla fiamma di ieri, in quei pochi minuti di stordimento sull’altare. E chissà quale pellicola sarà passata sullo schermo mentale di lui, distante mille miglia ma ancora sotto il tiro di un bel plotone di ricordi. Sciacquare via l’amarezza è impresa alla portata, se si viene fiancheggiati dalla tenacia e dall’igiene del tempo. La bellezza invece è tutto un altro paio di maniche. Il tipo di ferita che non si rimargina, le luci accecanti del regno che possono farti piangere, qualcosa che resta dentro e si può occultare, ma non si cancella. Il castano chiaro dei suoi capelli ha virato verso il cenere senza che il bianco e nero delle fotografie ne rendesse conto: un innocuo espediente che gli si perdona con benevolenza. Per la figura di Joanna intagliata nella memoria non si è potuto ricorrere, tuttavia, ad accorgimenti altrettanto validi. Così i diamanti hanno continuato a essere estratti dalla stessa miniera creativa e tagliati da quella sua penna essenziale nel tratto quanto aspra, maestra di disincanto, con la piena esclusiva concessa in questo caso ai soli affezionati ascoltatori.

Per registrare fedelmente il senso di vuoto e di sconforto era servito lo splendido “Sometimes I Wish We Were An Eagle”, quasi una testimonianza a caldo della propria sconfitta e insieme un gioiello di dissimulazione. “Apocalypse” si offrì a breve distanza come breviario folk disadorno, perfetto per l’ora dell’appianamento, mentre “Dream River” si presenta adesso e ha il sapore netto della rimozione. Non quella coatta e intransigente, quella che fa a cazzotti con il passato e strappa tutte le pagine andate del calendario, come fossero batteri da estirpare a forza. No, il nuovo disco di Bill conserva le prerogative dell’inessenziale cronaca di un viaggio. E di un sogno, anche, ovattato dalla bruma sdraiata a pelo dell’acqua, dal vapore mansueto di un treno sbuffante o dai fumi dell’alcol in un anonimo bar alla periferia dell’impero. Un dolce annebbiamento, le cui cadenze sono quelle di una danza che è più che altro un rilassato ciondolare. Birre e ringraziamenti come se non ci fosse un domani, con la sola rassicurazione di un’ironia sempre impeccabile al proprio posto. Come per la precedente raccolta, in bella vista risplende la pacificazione. Ma qui non nasce dall’abbraccio di una solitudine pure opportuna, da mandriano confuso nel paesaggio, bensì dall’appagamento offerto da una nuova relazione di coppia, la sola carta in grado di ricondurre la sua scrittura alla piena armonia con gli altri e con la natura. Con la vita. Anche il registro malinconico non pare poi così irrinunciabile, alla fine, e la posa può aspirare al temperamento oracolare del Leonard Cohen dei tardi capolavori, senza più timori reverenziali. Musicalmente si insiste nel solco delle migliori esplorazioni degli ultimi anni, quelli spesi evitando di nascondersi a oltranza dietro a un moniker, per confortevole che fosse. Si coltiva la medesima essenzialità nient’affatto cruda – levigatissima semmai – del secondo album a proprio nome, con le chitarre nel ruolo esatto che fu degli archi, magico cesello, senza disdegnare di tanto in tanto una sottile increspatura o un modesto fuoco bianco a base di riverberi. I lievi arabeschi di allora, quell’eleganza non pedante, sono lontani ma nemmeno troppo. In un quadro votato a una frugalità di pura sostanza, parsimoniosa e priva di spigoli, con i suoi occasionali scorci luminosi Callahan sembra voler confezionare a sorpresa una collezione di brani intensamente oldhamiani, un country anomalo e zampettante che superi proprio il Principe nel suo stesso terreno d’elezione. Gli arrangiamenti colpiscono nel segno, ancora una volta. Merito di un flauto rubato al Nick Drake di “Five Leavers Left” o “Bryter Layter” – a seconda della vivacità – capace magari di conferire un retrogusto agrodolce davvero prezioso. E merito di quelle sei corde in veste elettroacustica traviate proprio dalla vitalità dionisiaca dei fiati, ora in preda a convulsioni gentili, ora disinvolte nel dispensare sfumature finissime come i Wilco meno marziali.

Tutto questo senza indugiare nella calligrafia. Le ricognizioni di colui che si faceva chiamare Smog rimangono in prima battuta questioni squisitamente emozionali. Si spiegano così i non rari crescendo della parte strumentale, riflesso della necessità non derogabile di lasciarsi andare al cuore, alla primavera incalzante, con un pizzico di salutare negligenza. Bill vi si espone adottando un passo lento ma sicuro, come lo straordinario baritono che calza ormai come un guanto. Si mette a nudo e si confessa, trattando il sentimento invece che le cautele filosofiche di ieri. Ogni suo pezzo continua a essere una sorta di vino da meditazione, un amarone affinato in barrique. Equilibrato, morbido, da assaporare adagio. Il desiderio di potersi sottrarre al congedo dall’esistenza terrena è un’illusione appena, come una freccia scagliata in alto nel cielo e condannata a chiudere la propria parabola nella caduta, inevitabile. Nell’istante perfetto dell’apogeo, l’incontro con la più nobile aspirazione dei giorni trascorsi assieme a Joanna: quell’aquila che era stata l’emblema stesso della compiutezza e ora volteggia solitaria, il fiume come una mappa per orientarsi, prima di assecondare il capriccio onirico e sfumare in un gabbiano destinato a ben altri orizzonti. I contorni del tenue vagheggiare, agevolati dalle ombreggiature della Asat Classic, restano incerti anche quando va in scena la piena estate di un pittore di barche. Perso in una tempesta di pioggia e lampi cui farà seguito la ritrovata quiete dell’anima, il cumulo dei propri ricordi a rappresentare la sua più scintillante ricchezza. L’intimismo non è più un luogo angusto, né una passione astratta. E’ la curiosità che spinge il grosso volatile ad aprirsi e a esplorare in libertà, solo a sprazzi se occorre, prima che venga settembre e sia irresistibile la chiamata di ritorno all’oceano. O di rientro a casa su una strada bellissima e insidiosa, tutta ammantata di neve.

Non si può disconoscere la propria natura. Che richieda il conforto di un prestigio un po’ frivolo, o che induca a vivere come artisti dell’eremitaggio. La si accetta, provando a trarne magari una morale sempre nuova. A volte non occorre davvero altro, se si è bravi a far tesoro di tutta la bellezza incontrata sul proprio cammino e la si porta con sé, senza fermarsi mai.

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Sometimes I Wish We Were An Eagle

 

Ancora una volta Mr. Smog ha fatto centro, senza bisogno di reinventarsi o stravolgere le proprie convinzioni estetiche. Non sbagliano gli intransigenti puristi che non gli hanno ancora perdonato l’accantonamento del vecchio moniker, e non sbagliano i detrattori di vecchia se non vecchissima data, sostenendo che questo nuovo lavoro di Bill Callahan non aggiunge nulla a quanto già detto in venti anni di onorata carriera, apprezzata o meno che sia. Sbagliano invece tutti loro nel servirsi di questo condivisibile assunto con dogmatica miopia, liquidando sbrigativamente il disco senza preoccuparsi di scoprire come dica quelle cose già dette, adoperando quale lingua. L’elemento cruciale di ‘Sometimes I Wish We Were An Eagle’ risiede a mio modesto parere proprio in questo dettaglio non trascurabile. Callahan ripercorre strade e temi a lui cari, ma lo fa con una consapevolezza formale straordinaria e senza alcun autocompiacimento. Dice cose dure, anche durissime (come in un finale che svela la fine della sua fede in Dio), eppure lo fa con un tocco leggero e misurato, tagliando all’essenziale la sua musica e riuscendo ugualmente a mantenersi su livelli comunicativi ed emotivi straordinari. Un quadro intenso e policromo che prende le distanze dalla magnificenza pop-rock della prima prova solista, riportando piuttosto alla memoria gli ultimi Smog: sobrietà elegante negli arrangiamenti, marginalizzazione delle tentazioni folk classiche (evitando di risultare eccessivamente crudo) ed apertura alle più svariate influenze in ambito cantautoriale. Il risultato è questo semplice ma convincente affresco, un’opera preziosa che riesce a porsi in una prospettiva personalissima fluttuando come in sospensione, senza tempo, fuori del tempo. Sarà anche per questa sensazione che lo ritengo un album vincente, libero da vincoli, classico già al primo ascolto e probabilmente ancora attuale dopo mille passaggi sul giradischi. Callahan in tal senso è sempre stato un maestro ed invecchiando ha saputo affinare questa sua prerogativa di sguardo come nessun altro. Disco dell’anno, nessun dubbio a riguardo.

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