Sveglia, Sir!  _Letture

      

C’è una canzone nel nuovo, sofferto, bellissimo album di Fiona Apple, che parla di amore infranto con il piglio puntuto e nervoso della donna ferita. Si chiama ‘Jonathan’ ed è il pezzo che la cantante newyorkese ha dedicato con feroce ironia (ma anche con un certo affetto, bisogna ammettere) a colui che è stato il suo compagno negli ultimi anni, raccogliendo a suo tempo il non poco ingombrante testimone del regista Paul Thomas Anderson. Non il miglior episodio nel disco, ma sicuramente significativo nel contribuire ad orientarne l’umore uggioso, torvo, nevrotico. Non ho riscontri validi in merito ma credo sia probabile che Ames, traditore farfallone, non abbia disprezzato un omaggio abbastanza in linea con la sua scrittura. Che è eccentrica ed umoristica quanto cruda ed intelligente. Da un giornalista autore di saggi stralunati, fumetti e sceneggiature autobiografiche per serie televisive di buon successo (‘Bored To Death’, con Jason Schwartzman nei panni di un investigatore chiamato – ma guarda un po’ – Jonathan Ames), ecco un romanzo (il terzo in più di vent’anni) davvero molto particolare, di quelli che dividono senza troppe esitazioni: irritante per alcuni, quasi un cult per altri. Io ci sono arrivato giusto dalla canzone, un po’ prevenuto considerate le malefatte amatorie dello scrittore e con un tantino di invidia scettica, visto che questa sorta di ibrido tra il buon Marty Feldman ed Edward Norton farà tanto “tipo” nel bel mondo newyorkese ma non mi sembra proprio ascrivibile alla lista dei belli e dannati. Bontà sua. Alla fine il libro non mi è affatto spiaciuto, si è rivelato una lettura estremamente piacevole senza mai strafare. Si regge sull’artificio mimetico di uno schermo wodehousiano che è anacronistico fino al paradosso, tramite il quale tuttavia aggredire e farsi beffa di una realtà (culturale) sciatta ed assolutamente contemporanea. Un’illusione costruita ed alimentata con poche, esplicite trovate ma anche con indubbio talento. Non ho idea se leggerò altro di suo, ma ‘Sveglia, Sir!’ si è rivelato un piacevole passatempo e gli vale il mio perdono per quel livore preventivo. E poi è anche merito suo se Fiona è tornata a scrivere grandi canzoni…

Alan Blair è uno scrittore benestante, pigro e viziato, alla disperata ricerca dell’amore folgorante e insieme di una solitudine ideale, condizioni “essenziali per produrre arte” e dare così un seguito a quel primo ed unico romanzo vecchio ormai diversi anni. Pur essendo già a buon punto con la sua opera seconda, un roman à clef vanamente ispirato al ‘Grande Gatsby’ e dedicato all’anziano coinquilino nel periodo della sua boheme newyorkese, questo trentenne ebreo agnostico ha almeno due grossi problemi da risolvere: la casa degli anziani zii del New Jersey, pure assai generosi con lui orfano di padre e madre, sembra diventata troppo stretta per una convivenza serena, anche perché i parenti – seconda e ben più ragguardevole grana – non paiono più disposti a tollerare la sua riluttanza a combattere una evidente dipendenza dall’alcool. Al mite Alan non resta quindi che impacchettare la sua collezione di eleganti giacche sportive e partire con il fidato maggiordomo Jeeves alla volta di un centro termale ormai caduto in disgrazia, prima che tutta una serie di fortunosi eventi spinga la sua Chevrolet Caprice verso una sorta di sofisticata comunità di artisti con corredo di nuove mirabolanti avventure. Ispirato con buona dose di ironia alla serie di romanzi che Wodehouse dedicò al ricco babbeo Bertie Wooster ed al suo impeccabile maggiordomo (di cui è ripreso tale e quale il nome), ‘Sveglia, Sir!’ è un romanzo apparentemente fatuo ed inessenziale ma a suo modo illuminante, assai più caustico di quanto una lettura superficiale e distratta non riveli. Il grande merito di Jonathan Ames è di aver saputo adottare in maniera del tutto convincente una prospettiva mimetica capace di trascinare il lettore in una sorta di costante straniamento, come se davvero le bizzarre vicende della coppia di protagonisti si svolgessero ai tempi di Fitzgerald, di Douglas Fairbanks e di Errol Flynn (continuamente chiamati in causa) piuttosto che in un presente che è anche il nostro. Al di là di pochi sottili indizi qua e là disseminati a spezzare l’incantesimo (su tutti il computer portatile usato al posto della macchina da scrivere, più per fare solitari che per partorire arte in realtà), la bolla di questo minuzioso ed intrigante anacronismo sembra poter reggere fino all’ultima pagina, specie in virtù di un’aderenza formale ossequiosa quanto ineccepibile agli espliciti modelli wodehousiani. Proprio come il salone della Rose Colony, quasi un diorama da museo ma senza cordoni rossi da scavalcare, il libro di Ames regala l’illusione di una letteratura d’altri tempi, sempre garbata nella critica ed accuratamente parodistica nella vivida caratterizzazione dei personaggi: un giovin signore i cui ragionamenti (su alcolismo, omosessualità e religione i più spassosi) e sentimenti ricalcano quelli ingenui di un adolescente nemmeno troppo sveglio, un servitore senza macchia che incarna quasi una forma zen di autocoscienza per lo sbalestrato protagonista, una sontuosa femme fatale vecchio stampo ed una ridotta ma preziosa galleria di irresistibili macchiette di contorno. E’ indubbio che il giocare sopra le righe nel tratteggiare gli attori in scena sia stata una precisa scelta stilistica, in linea con la scelta di presentare in rapida sequenza situazioni sempre rigorosamente paradossali. Giocare a lungo sull’ambiguità tra pazzia e genio creativo è ingrediente essenziale in una commedia degli equivoci che si rispetti, ed Ames non fa mistero della sua predilezione per l’eccesso nella misura. In fin dei conti già gli stessi due eroi rasentano per deformazione letteraria l’assurdo, e la stringata eloquenza del tenero Jeeves non deve stupire più della contorta e tracimante verbosità dell’anomalo dandy perché di un semplice espediente narrativo si tratta, la necessità di alleggerire in chiave dialogica le incontenibili filippiche del velleitario romanziere. Non si impiega molto, quindi, per familiarizzare con il meccanismo che orchestra l’affabulazione di questo libro, un evidente limite per certi versi ma forse anche uno dei suoi maggiori pregi. Insieme all’euforica passione per le citazioni, pescate ad ampio raggio (da Chandler a Don Chisciotte passando per Lost In Space) e sciorinate con una opportuna dose di understatement molto british, senza la minima spocchia. La sostanziale fluidità della scrittura e l’apparente leggerezza della trama non devono tuttavia ingannare. Per quanto sbarazzino e demodé, Ames non risparmia alcune stoccate feroci al bel mondo degli artisti e degli intellettuali da operetta, descritti non a caso come pazzoidi frustrati e perversi chiusi in una sorta di grande gabbia dorata e senza più il minimo contatto con la realtà. Una visione lucidissima al di là del delizioso artificio letterario, ironica fino al grottesco ed in parte, presumibilmente, anche autocritica. Senza mai rinunciare ad una sottile vena pessimista, se anche l’amore si riduce ad essere una pia illusione – con un mare di piattole al posto delle agognate qualità redentrici – e la causa ultima di disastri assoluti. Scritto da colui che tradì la meravigliosa cantante Fiona Apple può suonare beffardo, ma forse è estremamente godibile anche per questo..

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