Gurrumul

 

Ed ora qualcosa di completamente diverso. O forse no. In anni come questi, con un’omologazione artistica che fa capolino anche nei progetti più o meno meritori lanciati a salvaguardia della diversità culturale, l’idea stessa espressa da quella stanca etichetta perde tutto il suo significato. Se la corsa all’alternativa gridata diventa una pura e frenetica illusione, in un mondo come quello musicale in cui tutto è già stato detto, forse è già qualcosa accontentarsi di una prospettiva differente come mentalità, come modo di essere ed interpretare la propria vocazione in campo artistico. Il protagonista di questo breve pezzo potrà apparire come un vero alieno in tal senso, anche perché nelle sue canzoni vita e musica si percepiscono effettivamente come qualcosa di unico e potente, trasmettendo emozioni e toccando corde che difficilmente vengono interessate nella semplice ed un po’ distratta fruizione di un disco. Geoffrey Gurrumul Yunupingu sembra quanto meno fuori posto in un presente isterico e massificato. Eppure vuole dire la sua, ha un myspace, un sito proprio, è in tour in Europa proprio in questi giorni. Se – come immagino – non lo conoscete, ritagliatevi un po’ di tempo per concedergli una chance. Qualora dovesse deludervi il problema sarà vostro, esclusivamente vostro. Vorrà dire che qualcosa dentro di voi è compromesso. Se, al contrario, vi troverete a respirare uno strano e rigenerante senso di pace potrete dirvi a ragione sollevati. La purezza delle sue canzoni funziona magnificamente come termometro della purezza di chi le ascolta. E’ scientifico: se lascia indifferenti è segno impietoso che le scorie nel proprio bagaglio mentale ed emotivo sono arrivate ad un livello preoccupante, che l’inquinamento musicale e commerciale rende quasi irrecuperabili. Geoffrey è aborigeno. Viene dalla minuscola Elcho Island, a largo delle coste di quella Arnhem Land resa celebre dalle cartoline geneticamente modificate dei primi Jamiroquai, quelli terzomondisti che cantavano i nativi di questo e di quell’emisfero, piazzando sempre un paio di lunghi strumentali con il dijeridoo. Geoffrey è l’originale cantato in quei colorati ma fasulli pastiche a marchio Sony. E’ cieco dalla nascita ma non si è ancora guadagnato le copertine di Amadou & Mariam, anche se le meriterebbe. Non ha mai imparato il linguaggio Braille mentre per la chitarra ha fatto completamente da sè, in tenerà eta. Già in questa curiosa sproporzione tra i diversi ambiti del suo apprendimento si legge chiaramente la più sorprendente delle affermazioni identitarie: la musica è il mio linguaggio, il resto è superfluo, accessorio. Con ogni probabilità Yunupingu è l’essere umano più timido e mite sulla faccia della terra: non rilascia interviste per l’imbarazzo, condivide con tutti i parenti i guadagni del suo lavoro, nel rispetto di una tradizione aborigena. Ha fatto parte di uno dei più celebrati collettivi musicali della terra natia, gli Yothu Yindi, ma ne è uscito presto. Anche il suo ruolo nella Saltwater Band, gruppo che suona il reggae e lo ska, è assolutamente marginale. E’ stato quasi per caso, grazie ad un produttore che si trovava in Australia al momento giusto, che il talento di Yunupingu ha avuto modo di venire finalmente alla luce. Convincerlo a calarsi nella parte del protagonista deve essere stata impresa alquanto ardua ma non si può negare che ne sia valsa la pena. Un anno fa è stato finalmente pubblicato l’esordio solista, intitolato ‘Gurrumul’ come a voler ribadire la semplicità del personaggio e della sua comunicatività. 

 

E’ un album a proposito del quale sembra inappropriato anche dilungarsi in fiumi di parole: non sarebbe adeguato alla spontaneità, alla natura genuina, per nulla artefatta, di una raccolta di brani che arrivano dritti al cuore, senza la mediazione di chissà quali implicazioni colte e senza il fastidio delle sovrastrutture concettuali, degli intellettualismi d’accatto che oggi vanno come il pane. Un disco che va messo su e lasciato andare. Il singolo ‘Bapa’ offre un perfetto benvenuto nel mondo sospeso di Geoffrey. Semplice, fresco, illuminato a giorno dalla dolcezza di questa voce da bambino e da un canto che non si riesce a decifrare pienamente, se sia di nostalgia o di gioia vitale. Negli arrangiamenti (chitarra acustica, violoncello) si gioca  la carta di un essenzialità sobria, sincera. Come ‘Wirrpanu’, uno degli episodi conclusivi, ha il sapore di un’umanissima preghiera per la sera, docile e rilassante come tutto il disco. Volendo ricondurre lo stile di Gurrumul ad un genere ampiamente riconoscibile, diremmo che si tratta senza dubbio di un opera folk, nient’affatto distante dai canoni cui noi occidentali siamo ormai ben abituati. Da non banalizzare, però. Il lamento sofferto e la malinconia sottile dell’iniziale ‘Wiyathul’, con l’accompagnamento di un piccolo coro (i cui interventi sono comunque ridotti all’osso), lo dicono abbastanza chiaramente: non è pesante, non è scialbo, non è noioso. Al contrario, è molto diretto. Riesce a far apparire come elementare una dote incantatoria profonda. Ecco, in queste trame sono celati i fili magici di un vero e proprio incantesimo, un respiro che ha stregato tante persone in Oceania e che sta conquistando anche artisti occidentali tra i più acclamati (Björk è solo l’ultima). Canzoni radiose e leggermente più elaborate come ‘Djarimirri’, ‘Wukun’ e ‘Gathu Mawula’ lasciano trasparire un senso di avvincente religiosità laica (si perdoni l’apparente contraddizione dei termini), una spiritualità che la lingua Yolngu confeziona come mirabile testimonianza di arte e vita insieme, ispirata e lontana anni luce dai patetici artifici di tanta inutile world music. Qualcuno potrebbe sostenere che se la proposta espressiva è portata avanti con gusto, garbo e coerenza apprezzabili, un difetto riscontrabile è la scarsa varietà delle soluzioni offerte. Non sarebbe vera neanche una simile obiezione. Per l’ideale carta d’identità di ‘Gurrumul History (I Was Born Blind)’, ad esempio, Geoffrey predilige tonalità più raccolte senza rinunciare all’ingrediente tipico della sua ricetta, il senso di profonda meraviglia, ed opta a sorpresa per un inglese non proprio impeccabile (lo farà di nuovo in ‘Baywara’) senza per questo tradire se stesso. Il registro è cambiato subito con ‘Marrandil’, che porta in primo piano un sentimento potente come la dignità orgogliosa, evidenziando maggiormente il pathos e mantenendo intatti gli altri aspetti salienti del songwriting di Yunupingu, lo sguardo estatico e le tonalità malinconiche che si ammirano in filigrana. ‘Galiku’ è forse la più naturale delle sue interpretazioni, quella che ascoltata a mille miglia di distanza assume una fisionomia più marcatamente "esotica", verrebbe da dire. Non è però un tratto riduttivo del disco ma uno soltanto dei suoi aspetti. ‘Marrurumbul’, infatti, è la riprova della qualità cristallina e libera dell’arte di un cantautore maturo, capace di offrirsi al compromesso apportando qualcosa di personale ad uno standard intelleggibile ed in fondo universale. E’ un brano più vivace, nel cantato a tratti euforico, nel fraseggio schietto, negli accompagnamenti corali che non è esagerato definire folk-pop. Nel risvolti più delicati e convincenti della poetica di Gurrumul appaiono con evidenza le tracce di una contaminazione che ha tutto il sapore di un’apertura al resto del mondo, una volontà di far parte di una comunità e non di una cerchia esclusiva. E’ forse anche per questo che Geoffrey sa essere tanto toccante.

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