Luminous Night

 

OK, a questo punto sembra evidente che mi sto muovendo con estremo ritardo. Recuperare i dischi recensiti può andar bene a qualche mese di distanza, anche per formulare giudizi meno incerti di quelli della prima ora, ma quando ci si torna troppo a posteriori il senso di novità ha già lasciato il campo alla retrospettiva. Capita in particolare con quegli artisti così prolifici da lasciarti sempre qualche casella indietro, vedi Robert Pollard (già citato quest'anno), vedi John Dwyer dei Thee Oh Sees (idem) ed anche Ben Chasny dei Six Organs of Admittance, un altro di quei talenti che amano frammentarsi in una miriade di progetti rigorosamente attivi. Nel caso di 'Luminous Night' va segnalato come ulteriore inconveniente il fatto che l'album in questione ha fatto in tempo a diventare il penultimo per questa sorta di one-man band, visto che la Drag City (una garanzia) ha nel frattempo licenziato un nuovo album dei Six Organs intitolato 'Asleep on the Floodplain'. Avrebbe allora forse più senso presentare il disco vecchio parlando del nuovo ed in parte è quello che mi accingo a fare, evidenziando nella marginalità di entrambe le uscite il minimo comune denominatore che può raccoglierle nelle poche righe di questa mia laconica sentenza. Folk sperimentale, aulico, con puntate dreamy molto meno entusiasmanti di quanto si potrebbe immaginare ed una irriducibile passione per le lunghe divagazioni stumentali, prevalentemente in acustico ma con qualche occasionale deriva nel rumore. Questa a grandi linee la formula degli ultimi lavori di Chasny, interessanti più per il virtuosismo e la varietà a livello di teoria musicale che non per le emozioni autentiche suscitate, invero assai poche. Gli amanti di certe nuove tendenze della musica americana troveranno ancora un più che valido appagamento, visto che ogni lavoro a marchio Six Organs of Admittance conferma una spiccata tendenza a farsi specchio stilistico del proprio tempo, come un bignami in grado di miscelare – autorevolmente – fingerpicking eclettico e New Weird America (esiste ancora?), le contaminazioni drone e il cosidetto primitivismo, bassa fedeltà e trame al cristallo, bucoliche reminescenze del folk britannico dei primi anni '70, sporcature noise, sussulti barocchi, astrazioni space rock e, davvero, chi più ne ha più ne metta. Una caterva di spunti preziosi quindi, per giunta sviscerati da un musicista di altissimo profilo, il cui esito troppo dispersivo rischia però di lasciare in ombra le pur ricche suggestioni dei brani più riusciti, che non mancano certo. In attesa di opere più coese e impressionanti (come il suo gioiello, 'Dark Noontide') e di poterlo finalmente apprezzare dal vivo dopo averlo sfiorato in ben tre occasioni, non mi resta altro che guardare e passare. "Ascoltare" anzi. Ascoltare e passare.

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