Easter Parade _Letture

       

E’ da poco uscito in libreria “Sotto una Buona Stella”, prima edizione italiana del secondo romanzo di Richard Yates “A Special Providence”. Sbilanciarsi a sostenere che si tratta di un must, indipendentemente dal ritardo mostruoso (quarantacinque anni) con cui arriva nel nostro paese, pare cosa superflua. Si parla di famiglia anche in quel caso, forse perché – Yates amava ripeterlo – non c’è altro di cui scrivere. Beh, sul tema, la sua opera forse più impietosa è questo “Easter Parade”, memorabile ritratto di una madre e due figlie nel loro disfacimento totale sul filo dei decenni. La solita precisione sbalorditiva nel cogliere l’intima umanità dei personaggi, una scrittura piana in odore di verità, nessun artificio di forma o di lessico, e sullo fondo lo sgretolarsi del sogno americano in una sorta di implicito accompagnamento storiografico. Pur essendo un testo eccezionale, “Easter Parade” è forse il meno valido dei quattro romanzi che ho letto del maestro di Yonkers. Questione di gusti personali, evidentemente, e di sfumature non così cruciali, vista la qualità superiore di questa narrativa. Gli preferisco di pochissimo l’acclamato esordio “Revolutionary Road”, e considero entrambi inferiori – di quel nulla – a “Disturbo della Quiete Pubblica” e “Cold Spring Harbor”, opera-testamento di Yates (in genere poco considerata) che per il sottoscritto è un capolavoro assoluto. Mentre “Una Buona Scuola” vegeta gracilino sul mio scaffale e “Young Hearts Crying” è ancora in attesa di una traduzione italiana, resta da appurare quanto buono possa essere il suddetto “A Special Providence”: mi sa che è arrivata l’ora di andare a comprarlo. Anche a scatola chiusa, un ottimo regalo di Natale.

Sarah e Emily Grimes sono sorelle. Figlie di un matrimonio naufragato negli anni della loro infanzia, si dimostrano legatissime sin dalla più tenera età, anche se in una maniera implicita e poco avvezza agli entusiasmi, come due pacchi sballottati assieme in un faticoso, disagevole, ininterrotto trasloco. A separarle sembrerebbero esserci solo quei quattro anni di distanza, anche se le differenze caratteriali dapprima poco evidenti finiranno col prendere il sopravvento nell’effimera parentesi dei loro giorni da adolescenti. Sarah, la maggiore, indossa sin da piccola un’”espressione di innocenza fiduciosa” ed è schietta, espansiva, per quanto non proprio folgorante. Emily è al contrario molto più chiusa, riservata e giudiziosa, non parla mai a sproposito e ha la tendenza a entrare in punta di piedi nei discorsi degli adulti solo per puntualizzare in modo anche caustico. Il rapporto tra le due vive di sentimenti squilibrati: Sarah è bonaria ma non troppo presente mentre Emily è divisa tra un affetto intenso, che sconfina non di rado nella gelosia, e l’invidia, specie quando la più grande inizierà a poter vantare qualche successo con i ragazzi. Il padre, Walter Grimes, è un modesto correttore di bozze nella redazione di un quotidiano newyorkese, il Sun, che nemmeno apprezza in quanto troppo conservatore; la madre Esther, ribattezzata Pookie, è invece una donna ossessionata dal contegno e dalla finezza idealizzati dei ceti più abbienti. E’ lei che, dopo la separazione, scandisce l’infanzia delle figlie trascinandole con sé in giro per il New Jersey, nell’inseguimento a uno stile di vita da ostentare, a un benessere regolarmente al di sopra delle sue possibilità e a sogni d’indipendenza destinati a tramontare presto e miseramente.

Dopo una serie innumerevole di trasferimenti a rimorchio della genitrice, con la sola costante dell’impossibilità di un radicamento profondo, umano ed emotivo, le tre fanno ritorno a New York e si stabiliscono in un vecchio appartamento “elegante e ammuffito”, simbolo quanto mai eclatante delle aspirazioni decadenti della donna. Gli anni trascorrono rapidi, senza che Yates l’illusionista porti il lettore a coglierne la misura, o il peso. Quando Sarah si sposa dopo un breve fidanzamento, periodo immortalato nel testo alla stregua di un crocevia per grandi opportunità che non saranno colte (emblematica l’istantanea dell’intensa quanto sfuggente felicità per la nuova coppia, perfetta nel suo fragilissimo apice durante una parata pasquale, citata più e più volte in seguito, con malcelato rammarico), il romanzo rivolge buona parte delle sue attenzioni su Pookie e soprattutto sulla figlia minore, assumendo sempre più i contorni di una parabola amara sulla solitudine: il loro telefono non squilla mai perché nessuno può “avere voglia di telefonare a una divorziata di mezza età con i denti marci, o a una ragazza magra e bruttina”, sensibile e poca apprezzata, che è un fenomeno nel piangersi addosso ma non è in grado di versare una sola lacrima per la morte del padre. Se Emily si impone così come l’oggetto prediletto di questa nuova indagine verista di Richard Yates, la documentazione riesce addirittura trasparente quando si tratta di mettere in scena la patetica Pookie, personaggio profondamente autobiografico (un calco della madre dell’autore, Dookie, quasi un archetipo che il grande scrittore di Yonkers avrebbe riproposto in modo impietoso nelle sue ultime opere, si pensi alla stupefacente Gloria Drake di “Cold Spring Harbor”), incosciente in fondo della propria stessa disperazione e del tutto refrattario a ogni tentativo di cambiamento dettato dall’esterno, orientato quindi alla caduta con sublime aderenza ai canoni del tragico.

Seguono gli anni della formazione universitaria. “Vivrai nel mondo delle idee per quattro anni prima di dover cominciare a preoccuparti di banalità come la realtà quotidiana”, profetizza Walter Grimes alla figlia minore, venendo al corrente della borsa di studio vinta dalla ragazza. Emily però in quella stessa banalità è già immersa tutt’intera, la registra nel suo piccolo mondo e non è in grado di venirne a capo o prenderla per le redini nonostante un’intelligenza per nulla comune, se anche la perdita della verginità si riduce per lei a uno squallido teatrino con il più insignificante dei figuranti. Con la sorella intenta a sfornare tre maschietti in appena tre anni, Emily appare indirizzata su ben altri binari, persa nel gioco di ruolo dei veri intellettuali tra “egocentrismi al cubo” e un solo, esasperante, paradosso: essere seri, ma “dando a vedere che non si prenda mai nulla sul serio”. Far pratica di disincanto, per lei già così “matura”, non sembra un’impresa chissà quanto proibitiva. E’ l’apprendistato perfetto alle (dis)avventure sentimentali che seguiranno a questo punto, senza soluzioni di continuità: dalla vicenda passionale che la vedrà legata a un marinaio bisessuale a quella con il giovane docente di filosofia Andrew Crawford, irascibile e iper-complessato, chiusa con una fallimentare esperienza matrimoniale della durata di un batter d’ali. E poi ancora la lunga relazione con un poeta al tramonto, il trasferimento nel Midwest, il senso di vuoto e di insoddisfazione crescenti, e quel riscatto rispetto alle miserie delle altre donne della famiglia – in lei, da sempre assai più promettente – negato poco per volta ma inesorabilmente.

La terza e ultima parte del romanzo è una sorta di lenta elegia del disfacimento. Che colpisce in prima battuta la più vulnerabile Sarah, annientata dall’alcool, dalla depressione e forse da un marito troppo violento; quindi la stessa Emily, che dopo esser passata da una relazione all’altra sempre nei panni del timoniere inizia a perdere tutto indipendentemente dalla sua volontà, che si tratti di un rapporto che sembrava davvero solido o dell’impiego, sempre più carico di umiliazioni, in un’agenzia pubblicitaria capitanata da un’altra donna non proprio serena. Assistiamo così al suo lento sfiorire, al sui intristirsi nella solitudine mentre gli anni scorrono implacabili e lei scivola sempre un po’ più fuori posto, imprigionata dal peso dei ricordi e annientata dalla consapevolezza di non aver compreso – oltre che realizzato – nulla in tutta la sua vita. Come il John C. Wilder di “Disturbo della Quiete Pubblica”, sembrerebbe in grado di poter dire la sua, vorrebbe trovare a tutti i costi l’ordine dal caos ma alla fine è travolta dai propri limiti e deve arrendersi alla follia. Con Emily va però a farsi benedire anche lo sfavillio beffardo dell’American Dream, un miraggio che per le figurine affogate nel grande scenario della metropoli in trasformazione non ha saputo dare concretezza ai sogni e alle opportunità di cambiamento e ha reso tutti più poveri, più soli e infelici, nonostante il moltiplicarsi di feste o altre occasioni di colorata socialità.

Detto delle donne, protagoniste assolute di “Easter Parade”, resta da rendere conto di come gli uomini siano ritratti nel romanzo con crudezza a dir poco impietosa: cosi gli amanti della più giovane delle Grimes, egocentrici sino al parossismo, immaturi, inefficaci nell’amore come sul lavoro o in qualsiasi altra attività, e disperatamente bisognosi di un sostegno incondizionato che alimenti la loro irritante passività; così il marito di Sarah, un Lawrence Olivier dei poveri, esponente di una buona borghesia solo sulla carta e in realtà zotico razzista, senza ideali né cultura. Le relazioni di coppia, in questo quadro sconfortante, non sono fatte per durare: fa eccezione giusto il matrimonio della sorella maggiore, reso solido per paradosso proprio dalla connaturata superficialità dei suoi interpreti, dalla vacuità dei loro argomenti e dall’esile natura della loro intesa acritica, trasparente, ordinaria, oltreché dalla sopportazione silenziosa di tanti anni di violenze domestiche.

Per il resto non rimane che copincollare quanto già scritto a proposito dell’autore nelle critiche di altre sue opere. Yates non è spietato come molti hanno detto. E’ un umanista che non silenzia la disperazione. Fa recitare a turno i suoi attori ma si tiene sempre a debita distanza dal loro dramma, aiutando il lettore a scongiurare il fardello di una completa immedesimazione (anche se per Emily questo accade solo nelle battute conclusive). Gli interessano gli esseri umani al netto degli artifici letterari. Con pochi tratti brucianti ed essenziali riesce a caratterizzare in maniera miracolosa l’intima sostanza dei diversi personaggi, ed il realismo e l’onestà della sua narrativa si confermano ancora una volta limpidissimi, mirabili, non comuni. Tutti soffrono senza clamore come avvelenati poco alla volta dalla consapevolezza di una frattura non più recuperabile dentro di loro, lo scarto fra ciò che avrebbero voluto (e ancora vorrebbero) essere e ciò che sono in realtà. sulla dipendenza irriducibile dalle proprie e dalle altrui debolezze, sul bagaglio di aspirazioni e buoni propositi puntualmente disattesi e destinati a languire in una secca di rancore strisciante e sostanziale impotenza. Anche “Easter Parade” è l’opera di uno scrittore straordinario, quindi, nel rendere le psicologie ed i legami interpersonali – con il loro carico di silenzi, di ellissi, con tutti i relativi impliciti rapporti di forza, con il peso delle convenzioni consolidate – nello svelare il retropalco di ansie, egoismi spiccioli ed insoddisfazione che fa da contraltare al perbenismo apparente e radioso delle comuni famiglie della classe media. E non importa che si parli degli anni ’40, ’50 o ‘60. La sua impietosa indagine su una crisi generalizzata non potrebbe essere più attuale.

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