Fruit Bats

E la dieta continua…

          

Senza troppa cura per le mode o le strizzatine d’occhio ruffiane a questo o quell’hype, i Fruit Bats proseguono nella loro inclinazione omeopatica offrendo ai fan un nuovo gradevolissimo capitolo della loro ormai ricca discografia. Guardando all’interlocutorio predecessore ‘The Ruminant Band’, tassello di apertura per questa originale e radicale tendenza alla semplificazione, si sarebbe anche indotti a parlare di felice approdo, visto che – anche senza lasciare tracce straordinarie – il nuovo ‘Tripper’ ha in sé una compiutezza che al traballante (ma non malvagio) quarto episodio mancava per più di una ragione. Ha senso descrivere il gruppo di Seattle come felicemente assestato sulle nuove posizioni, anche se il titolo stesso di questa nuova fatica non consente di sciogliere tutte le riserve e lascia intuire che la band sia ancora in viaggio, alla ricerca di una sua identità più definita e limpida. Un passo avanti comunque Eric Johnson e soci sembrano averlo compiuto, e poco importa se non siamo proprio sui livelli di ‘Mouthful’ o ‘Spelled In Bones’: forse la vena non è più esaltante come una manciata di anni fa, forse semplicemente questi ragazzi non hanno più molto da dimostrare in un ambito espressivo nel quale sembrano aver già detto e fatto il possibile, preferendo ora far slittare la loro inconfondibile arte verso territori paralleli, non distanti ma nemmeno così accessibili (e prevedibili, in fondo).

Almeno in parte ideato come un concept, il disco scopre le carte nell’eloquente brano d’apertura ‘Tony The Tripper’, introduzione per l’eroe ed ispiratore della vicenda (personaggio reale incontrato da Johnson) ma anche passaggio emblematico per una cifra espressiva ormai disinvolta e consapevole. La linea è quella di una continuità marcata con le tonalità flou del precedente lavoro, con il profilo pacato, i toni soffusi e trattenuti da tenue acquerello che pure non soffocano il calore un tempo coltivato con vivo entusiasmo. Ancora una volta il senso di meraviglia traspare, parco ma genuino, in questi motivetti semplici semplici, apparentemente senza troppe pretese eppure gentilmente insinuanti nel loro candore easy mai banale, con la voce inconfondibile di Eric (di quelle che, a seconda dei gusti, risultano deliziose o fastidiosissime) ad imprimersi come più rilevante dei tratti anche quando la veste è disadorna, sfuggente (‘Wild Honey’, molto bella). Si confermano e si affinano il retrogusto nostalgico (‘Shivering Fawn’) e quel piacere nell’estetizzazione non di maniera, le melodie congelate in un passato elegante illuminato da un sole bianco e freddino, terso (‘So Long’, sorta di manifesto dei nuovi Fruit Bats).

Al di là di un impianto ormai consolidato, l’estrosa squadriglia Bats mostra comunque di voler tentare soluzioni diverse e nella parte centrale del disco infila una tripletta di titoli in parte anomali: la frivola (ma ironica) ‘You’re Too Weird’, illuminata dal falsetto e da un assolo di chitarra che non si potrebbe immaginare più sobrio, la vivace ‘Heart Like an Orange’, movimentata dalle spruzzate di synth, da un sottile tappeto percussivo e da una scorta corale radiosa, ed il gioiellino pop minimale di ‘Dolly’, ancora oltremodo asciutto ma impreziosito da un refrain di quelli contagiosi sul serio (con effluvio di tastierine). Trova anche il tempo per chiudere i giochi con una canzone troppo vecchio stile per non far palpitare gli estimatori della prima ora, estroversa ma quieta, in acustico. Questo in sintesi il quinto album di una band destinata a non scalare vette e a non pubblicare capolavori assoluti, ma onesta e tutto sommato libera dai condizionamenti dell’industria più cinica e spregiudicata. Un piccolo disco, con canzoni poco appariscenti, che riesce senza troppa fatica a farsi ricordare grazie al suo garbo d’altri tempi, molto piacevole. Oggi come oggi, un risultato da non disprezzare.

0 comment

Vetiver & Fruit Bats @ Spazio211

19-11-2009

 

Attrattive della vecchia formula "prendi due paghi uno"… Quando ti capita di cerchiare in rosso sul calendario una data che ti permetterà di assistere ad un paio di concerti (più o meno) attesi in un sol colpo, quasi non credi sia vero. Capita di rado che musicisti senza manie da primedonne e promoter illuminati mettano a disposizione dell’appassionato scampoli di tour in coabitazione, con l’opzione di abbinamenti nient’affatto ingombranti, anzi, curiosamente ben assortiti. Capita di rado ma accade, di tanto in tanto. Ti freghi le mani già solo all’idea, quando ci siamo paghi una somma modica e accatasti soddisfazioni su soddisfazioni come pezzi di legna da ardere. Capita di rado, ma quelle poche volte si traducono in buoni ricordi quasi regolarmente. Non hai neppure il tempo di refertare il live a braccetto dei Vetiver e dei Fruit Bats che già ti si prospetta una riedizione del sugoso modello, in questo caso con un cast che promette di regalare suggestioni anche maggiori: Beach House e Midlake, a luglio. Difficile non mettere in preventivo una trasferta. Certo non tutto di queste fortunate occasioni può essere annoverato alla voce goduria, ma qui entrano in campo altre logiche ed altri fattori ed il discorso si allarga inevitabilmente, deviando da quella che è la pura e semplice componente artistica. In una serata tutto sommato entusiasmante come quella di cui qui si lascia traccia (e di cui è possibile leggere e guardare qualche istantanea direttamente dalle foto in alto), l’unico momento non all’altezza è stato quello in cui la realtà brusca dell’organizzazione ha imposto le proprie condizioni alla festosa euforia della musica. Quel bigliettino passato con mano discreta ad un allegro Eric D. Johnson dopo appena cinque brani dall’inizio del loro set scintillante, con l’invito a suonare ancora un brano per poi levarsi gentilmente dalle palle. Questo dettaglio sì, è stato sconfortante. I concerti doppi (o tripli, o quadrupli…vabbé, quelli sono i festival) garantiscono quasi immancabilmente lo schiaffo della sintesi necessaria. "Necessaria" tra virgolette, visto che l’esigenza di cui si parla è prerogativa unica di chi produce e propone lo spettacolo, non degli artisti coinvolti ed in molti casi stoppati sul più bello né tantomeno di un pubblico in palese sintonia con loro. Prendere o lasciare, quindi, e noi accettiamo a malincuore anche gli scompensi che il lusso comporta. Spiace per il trattamento riservato ai Fruit Bats, band ruminante al primissimo tour europeo dopo più di dieci anni di carriera. Band deliziosa tra le altre cose, con un affiatamento invidiabile ed un leader gentile e riservato ma al tempo stesso dotato di indubbio carisma. Solo sei canzoni per loro e quasi nessun classico dal repertorio, ma l’idea che ci siamo fatti – insieme all’arrabbiatura per questa gioia interrotta – è che meriti e fiducia siano correttamente attribuiti alla compagine di Seattle: una creatura musicale simpatica, vivace e sufficientemente consapevole di sé, un gruppo che meriterebbe spazi tutti suoi. Anche i Vetiver si sono rivelati una buona conferma. Della qualità e del songwriting già si sapeva, quel che conta è che abbiano convinto soprattutto in termini di resa emotiva. C’era non poco scetticismo alla vigilia e, va detto, i meno avvezzi a certe sonorità quiete e morbide non hanno cambiato opinione. In compenso chi è venuto in cerca di una gratificazione folk pura ed elegante ha trovato pane per i suoi denti. Andy Cabic ed i suoi compagni di viaggio hanno saputo ammaliare e coinvolgere chi di questo universo apprezza le sfumature ed il velluto, regalando anche belle sensazioni in termini di intimismo non ruffiano e calore fraterno, confidenziale. Andy poi è un ragazzo a posto, molto alla mano, uno che può rendere meno pesanti anche vecchi classici country o southern di più di quarant’anni fa. E in questa serata quasi perfetta ne abbiamo sentiti, eccome.

0 comment

La dieta della band ruminante

 

Curiose novità in arrivo dal piccolo pianeta Eric Johnson. Non che negli ultimi tempi ci aspettassimo qualcosa da quella ridente isoletta musicale e forse una considerevole fetta della sorpresa nasce proprio da questo. Dopo la deviazione non proprio felicissima compiuta un anno e mezzo fa sul vascello Shins, ora il Nostro ne attua una non troppo dissimile sotto le spoglie meno note dei Fruit Bats, progetto collaterale (ma condotto nei panni del leader) che lo ha già visto licenziare tre album prima del nuovissimo ‘The Ruminant Band’. Nei brani che aprono e chiudono il disco, ‘Primitive Band’ e ‘Flamingo’, sono suggerite per sommi capi le linee generali di questa significativa revisione, non relativa al piano stilistico quanto piuttosto a quello relazionale. Uno scartamento in un certo senso, uno spostamento per vie orizzontali verso una prospettiva meno definitiva e più incerta, nebulosa. Le due canzoni in questione hanno più il sapore dell’impressione che non della concreta istantanea. La propensione per le tonalità estive è confermata ma quelli abbozzati in questo caso sono sogni più tiepidi, sfumati. La ballad dal retrogusto beatlesiano ‘The Hobo Girl’ chiarisce quanto sia ambita per Johnson questa direzione, nella scelta di mantenere una pregevole distanza a livello emotivo e formale. Sembra una canzone congelata nel passato, con l’intento di ingannare i vecchi Fruit Bats ora che si brama la lontananza. Stessi scenari per ‘Feather Bed’, con un pianoforte cadenzato eletto a protagonista assoluto ed Eric che gioca ancora a fare il piccolo Lennon, quello di ‘Double Fantasy’ (ma senza la sua Yoko). Il bello è che, senza voler strafare, nemmeno sfigura e riesce comunque a trasmettere tutto l’amore nella citazione. In brani come ‘Beautiful Morning Light’ si fanno più nette certe sensazioni: scarna, sospesa, efficace nel lasciare sprazzi di incanto grazie ad un arpeggio spartano come non mai, la canzone è una preziosissima testimonianza in acustico di questa curiosa ed ammirevole esigenza di concretezza, votata al taglio di ogni eccesso espressivo. Una prospettiva che a molti cantautorini di oggi farebbe parecchio comodo: sì M. Ward, è a te che sto pensando, proprio a te!

  

E’ una sorta di imperativo non scritto. ‘Tegucigalpa’ insiste con questa tendenza all’omeopatia, al rifiuto dell’inessenziale. Stavolta, tuttavia, negli scheletri architettonici di ossicini di pollo si ritrovano scampoli della polpa del precedente ‘Spelled In Bones’, forse il gioiello più splendente nel repertorio della band di Seattle. Ora però il cambiamento si percepisce, eccome. Nella Title Track le delicatezze della band sono ridotte ad un’essenzialità che sa di cartolina o di caricatura: apprezzabile l’intento dietetico, gradevole e ben svolta come bozzetto, forse un po’ riduttiva e con Johnson eccessivamente impegnato a giocare a nascondino. ‘Being On Our Own’ e ‘My Unusual Friend’ sono frizzantine. Pur sapendo molto del Johnson classico già ne incarnano la sconfessione, per lo stesso motivo appena esposto. Sono pacate, per nulla viscerali ma, grazie a Dio, non si riducono a sembrare meri esercizi di stile. Stesso discorso per ‘The Blessed Breeze’ dove il coefficiente di tipicità è più alto ma ancora una volta non si pigia sull’acceleratore. Se tanti indizi fanno una prova certa, non ci sono più dubbi che si tratti di una scelta espressamente voluta e ragionata. In fondo la tavolozza dei colori (qui quelli più nostalgici) è rimasta la stessa, per cui non si segnalano evidenti controindicazioni in fase di ascolto. Lunga vita allora a questo Eric Johnson spogliato e spigliato, apparentemente sgravato da chissà poi quali responsabilità. Con ‘Singing Joy To The World’ ci lascia il suo respiro e fa centro, lasciando intuire una versione dimagrita ma non disinnescata della genuina freschezza a marchio Shins. Un lavoro onesto in definitiva, sicuramente interlocutorio visti i diretti predecessori, ma tutt’altro che sgradevole. Per la caparbietà con cui declina il verbo del ‘Soft Focus’, l’effetto flou adottato come nuovo abito mentale oltre che estetico, merita senza dubbio qualcosa più di un rapido plauso. E poi è un disco estivo, placidamente estivo.

0 comment