Month: ottobre 2009

Sassolini…

 

Sempre amato la pietra pomice. Da bambino ne ho raccolta tantissima nelle mie vacanze in Grecia, dove se ne trova in quantità nelle infinite spiagge di ciottoli. Mai andato pazzo per le spiagge pietrose, ma la pomice, in quanto anomalia assoluta, era un curioso balocco di quel mare da sogno. Imbattutomi recentemente in maniera del tutto casuale in un artista che ha scelto come moniker proprio quella parola per me così evocativa, oltre che nella copertina sopra riprodotta, ho deciso all’istante che avrei approfondito. Provenienza remotissima quella di Stefan Neville, la Nuova Zelanda. Senza beneficiare di elementi illuminanti circa il genere e la qualità del prodotto discografico in questione, mi sono affidato ai soli strumenti a mia disposizione: l’esperienza e l’intuito. Nuova Zelanda come l’indie-rock intelligente e screziato di psichedelia dei Brunettes, dei Ruby Suns, dei Reduction Agents e dell’ottimo James Milne, meglio noto come Lawrence Arabia. Poi uno sguardo attento alla fotografia della cover e la conferma delle medesime sensazioni. Ho cercato il disco, insomma, convinto che mi sarei piacevolmente abbandonato alle vaporose nuvolette di un indie-pop di squisita fattura. Ora, non so quanti di voi conoscano Pumice in una qualsiasi delle numerose pagine della sua già copiosa discografia. Io sono andato alla cieca e l’incontro con questi ciottoli è stato abbastanza traumatico. Mai più avrei immaginato di essere confinato in una prova tanto frastornante all’ascolto, in regioni musicali così lontane da quelle più o meno rassicuranti cui sono abituato. Ho apprezzato comunque, ed è questa la vera stranezza. L’ingresso di ‘Eye Bath’ è chiarificatore, per quanto solo parzialmente. Come pure nella breve ‘Northland’, collocata in modo opportuno nell’esatta metà del disco (come momento per tirare il fiato, pensate un po’), sono le sventagliate elettriche di un garage rock molto sostanziale a segnare il clima sonoro. Non è però il garage succulento di tanti gruppi americani, quello che flirta con il blues e ti sorprende per il taglio citazionista sempre molto stimolante. No. Qui si tratta di scariche tutt’altro che eclatanti, di una gracchiante sbrodolatura di riverberi ed una vena sixties quanto mai arruffata, confezionata in bassissima fedeltà e arrivederci. Eppur mi piace, come tutte le analoghe esplorazioni nel catalogo specializzato della Woodsist.

Fosse tutto così questo ‘Pebbles’ non ci sarebbe nulla di preoccupante. Basterebbe spostare la classificazione immaginata verso una diversa ma ben definita etichetta e saremmo a posto. Invece la realtà dei fatti è quella di un’impresa ben più ardua per l’ascoltatore poco avvezzo alle sonorità di un’avanguardia tanto alternativa. Non è della Woodsist che stiamo parlando, bensì della Soft Abuse, oscura label di Minneapolis nella cui scuderia conosco soltanto gli Skygreen Leopards ed il loro frontman Donovan Quinn. Che si tratti di una strada in salita lo si intuisce con i due brani che fanno seguito. Il piano e la chitarra slabbrata di ‘Bold/Old’ disegnano i contorni di un psych-folk minimalista dal sapore nipponico (!). Nonostante la produzione si mantenga su standard molto approssimativi, si percepisce uno strano incanto, una sorta di disciplinato misticismo home made. Ancora più ostica è ‘Brownbrownbrown’, esempio di sabotaggio cosciente della forma canzone attuato ricorrendo continuamente alle pause e alle ellissi, e violentando i suoni con un depauperamento di fondo che è l’unica vera cifra stilistica dell’album, nel suo complesso. Privati della certezza e della solidità di un flusso melodico degno di questo nome si resta disorientati. La qualità deficitaria del cantato e dell’acustica, confermata dall’impressione di amatorialità diffusa che interessa anche ‘Stopover’, resta come emblema più diretto di una scelta estetica ben precisa: quella di Pumice mira ad essere musica indifferente, scontrosa, estranea ai compromessi, cruda e senza abbellimenti formali, ma con una sua chiara identità ed una logica, per quanto aspra e lacerata essa appaia.

Entrati seppur a fatica in confidenza con questo insolito piacere per lo spiazzamento, si può affrontare con maggior consapevolezza lo sconvolgimento espressivo approntato da Neville in una galleria di quattro autentici mostri sonori collocati quasi tutti nella seconda parte dell’album. ‘Greenock’ è discretamente scioccante, con il suo mix di increspature rumoristiche, distorsioni, voci ultrafiltrate, inserti acidi (anche una cornamusa?) e chincaglieria varia. Quasi sette minuti di inesorabile ciarpame elettrico, infido e via via più denso, intossicante. Non è certo una prova di talento calligrafico ma resta indubbio l’impatto che questa prolungata istantanea di inquietudini contemporanee è in grado di determinare. A rincarare la dose di stordimento pensa presto ‘Spike/Spear’, con il suono dell’organo spinto in un baratro ossessivo che potremmo agilmente definire post-noise. Ancora una volta al posto della spensieratezza dei synth e delle chitarrine catchy ci si trova ad aver a che fare con un magma sonoro sconcertante che invade e permea di sè ogni interstizio, incurante, alieno. Nel maelstrom affiora pian piano anche la voce di Stefan, ma è distante, altra, imprigionata in una schiuma elettrica crescente. A poco serve la boccata d’ossigeno dei due passaggi che seguono. La fragilissima e squinternata triangolazione tra il cantato, l’ukulele e la tastierina a fiato (‘Both Breasts’) non si presenta meno stralunata degli episodi precedenti, mentre la spazzolata di spumoso lo-fi di ‘The Only Doosh Worth Giving’ si gioca la carta di un’assurda somiglianza con i primissimi Sonic Youth (diciamo fino a ‘Bad Moon Rising’), ovviamente riletti attraverso il filtro e la sensibilità unica di Mr. Pumice. La riconoscibilità di questa doppia formula (il cliché della bassa fedeltà e la vampirizzazione di un nome celebre) ne disinnesca in parte il potere deflagrante facendo di questo titolo forse il più accessibile del lotto. Si metta pure il cuore in pace chi crede però che in questa concessione si possano individuare le tracce di una via per la normalità. L’irregolarità di questo artista è destinata a non essere riassorbita ed il terzo moloch dell’album, ‘Onion Union’, è quello gravato dalle più fosche ombre sintetiche, conformandosi come un abnorme e rumoroso soffritto in cui è davvero arduo reperire segnali di una qualsivoglia intellegibilità musicale. A chiudere coerentemente i giochi pensa ‘Pipi’, un ultimo incubo ad occhi aperti cui spetta la replica ossessiva della suggestione di un frammento, a imitazione della follia di un mondo che pare aver smarrito gli ultimi barlumi di lucidità e si muove senza direzioni, in un eterno e vuoto presente. Ennesima dimostrazione di un estremo squilibrio, non privo – come l’intero ‘Pebbles’ – di un fascino tutto suo.

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Set 'Em Wild, Set 'Em Free

 

Doppia review per questo potentissimo nuovo album degli Akron/Family, e non poteva essere altrimenti. Riconosciuto dal sottoscritto come uno dei dischi del 2009 già ai primissimi ascolti, il nuovo lavoro di Seth Olinsky e compagnia ha rivelato una soddisfacente stagionatura nei seguenti sei mesi, presentandosi di fatto all'appuntamento con le classifiche di fine stagione come una delle prove più riuscite in ambito rock alternativo. Ho scritto rock e non altro perché la dimensione è quella. Si potrebbe discutere a lungo di etichette e 'file under' ma, nei fatti, ci si perderebbe dietro qualche sfumatura ingannevole. Ne ho parlato diffusamente in entrambe le recensioni, soprattutto in quella di Monthlymusic cui si accede dalla foto in basso: rimasti in tre dopo l'abbandono di colui che era forse il più prossimo all'idea di leader della squadra – il mistico Ryan Vanderhoof – i tre componenti della famiglia Akron hanno saputo trovare nelle difficoltà di una nuova vita live gli stimoli per proseguire la propria avventura discografica senza fermarsi ad una formula comoda, che avrebbe sicuramente mostrato presto la corda. La propensione al post, l'insopprimibile esigenza di sperimentazione sonora e destrutturazione formale, diventano in 'Set 'Em Wild, Set 'Em Free' una forza motrice che non si pone limiti e punta ad una liberissima riscrittura del proprio patrimonio identitario. Punto di partenza ed oggetto di questa profonda quanto caotica opera di ricodifica linguistica è il folk, quello cristallino degli esordi del gruppo newyorkese, quasi un pretesto per mettere in scena il più isterico dei tradimenti formali. Tutto l'album gioca sul paradosso di questa deflagrante corruzione stilistica, sia quando opta per soluzioni apparentemente agli antipodi rispetto al modello (le scudisciate fugaziane di 'MBF') sia quando si destreggia in un capolavoro di imitazione che ha già in sè i segni della negazione di quella stessa ortodossia ('River', bellissima). Ogni brano termina in maniera assai differente da come è cominciato, a riprova che alla band prema in primo luogo ribadire la sconfessione dell'apparente, della tranquillità di una forma-canzone e dei cliché di genere oramai dati per scontati. 'Gravelly Mountains of The Moon' è la vetta di questo processo creativo rigonfio di esasperazioni, che fagogita e devasta la quiete di un assurdo prog-folk bucolico. Anche l'ironia è ingrediente indispensabile per arrivare a risultati esaltanti, proprio come nella precedente gemma anarchica, 'Love Is Simple', forse ancora inarrivabile nella bacheca dei capolavori. La contaminazione che ribalta sorprendentemente ogni prospettiva resta la miglior testimonianza della superba intelligenza artistica di questi miti antieroi americani, tanto sfrontati da non far sconti neanche al vecchio traditional 'Auld Lang Syne' nella beffarda parodia che chiude 'Sun Will Shine'. Difficile pretendere di più da una band che è già al top della condizione.
 
 

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Oggi Dylan è un Fratello Felice

 

Se appartenete alla nutrita schiera di fini pensatori che vivono con inappellabile orrore tutto ciò che qualche avventato recensore ha sbrigativamente liquidato come "derivativo", fate bene a non proseguire nella lettura di questo articolo. Se, al contrario, siete convinti che ogni presunta novità nell’attuale scena musicale sia inevitabilmente frutto di un continuo lavoro di recupero e riciclo creativo, il consiglio è di appuntarvi il nome "Felice Brothers" da qualche parte e di approfondire al più presto. Per quanto la ragione sociale in questione non sia esattamente nuova di zecca, per lo meno negli stati Uniti, sono ancora in pochi quelli che in Italia si sono accorti di una band che pare difficile non definire fenomenale, pure con l’incombenza minacciosa di quel bistrattato aggettivo. I resoconti biografici reperibili in rete sono tutti estremamente stringati: il gruppo, come suggerisce la denominazione, è composto da tre fratelli (Ian, Simone e James), con l’aggiunta di un paio di fidati compagni di lungo corso. Un film visto tante volte, anche in tempi recenti. Sonorità e riferimenti, poi, sono tra i più abusati ed apparentemente logori in circolazione: Bob Dylan. Un solo nome rilevabile in concreto, ma di quelli che nel 2009 potrebbero far sembrare legittimo un repentino cambio di canale. Invece no, questa volta lasciare equivarrebbe ad una sciocchezza. Pitchfork l’ha fatta. Nell’archiviare l’eponimo ‘The Felice Brothers’, secondo vero e proprio LP di questa compagine (fatta la tara ad un prima acerba opera acustica e ad un paio di raccolte vendute inizialmente solo durante i concerti), il trombone di turno sciorinava tutto un repertorio di bei concetti triti e ritriti sul dylanismo ancora imperante, su come tanti giovani musicisti si perdano nell’imitazione pedissequa "catturando immancabilmente il suono ma quasi mai la magia incisiva", sull’insensatezza di chi abbraccia un surrogato quando c’è l’originale bello e pronto, a disposizione. Con coerenza ammirevole quelli di Pitchfork devono aver considerato il nuovo album dei fratelli Felice, ‘Yonder Is The Clock’, indegno di un pur laconico resoconto, non avendovi ravvisato segni evidenti di pentimento stilistico. Poco male, ci è stata risparmiata la solita stanca tiritera da passatisti senza frontiere.

I ragazzi originari dei monti Catskill, esplosi poco più di cinque anni fa come fenomeno letteralmente underground (i primi show cittadini li tennero infatti nelle stazioni della metropolitana di Greenwich Village e Union Square), hanno in effetti qualcosa in più rispetto alla miriade di gruppi e gruppuscoli più o meno validi nati sull’onda sempre lunghissima dei successi immortali del signor Zimmermann: un talento vero e cristallino che va ben al di là della volgare mimesi, concretizzandosi proprio in una miscela benedetta di poesia, epicità e magia, che rende molto meno pesante il fardello di un debito quantomai scoperto. Tra i nomi nuovi, anche quello (notevole) di Donovan Quinn & The 13th Month esce ridimensionato dal confronto. Basta mettere su il disco e lasciar andare ‘The Big Surprise’ per rendersi conto di quanto l’omaggio trascenda l’idea di maschera assumendo i contorni di un’affinità quasi spirituale, per quanto illusoria essa possa apparire. Nelle vibrazioni sottili di questo nuovo esordio non si nasconde banalmente una forma di aderenza estetica, nè tanto più di meschina aderenza. L’amore per Dylan è palesato dentro ogni risvolto di questa placida folksong: nei tempi, nel cantato, nella malìa ruvida ed un tantino strafottente, cui i fratelli aggiungono le sensazioni terrose, fumisteriche ed alcoliche, che portano in dote con innata autorevolezza. Ha fatto molto bene Conor Oberst a metterli sotto contratto con la Team Love, piccolissima etichetta da lui fondata e per la quale già militavano, tra gli altri, Gruff Ryhs e Nik Freitas: scelta preziosa in un ambito musicale neanche poi così distante dagli orizzonti sonori  riconoscibili nell’ultima fatica discografica di Mr. Bright Eyes, per quanto qui sviluppati con idee e consapevolezza decisamente migliori. Per quanto il Dylan celebrato dai Felice Brothers sia prevalentemente quello della svolta elettrica del ’65, quello di ‘Bringing It All Back Home’ e ‘Highway 61 Revisited’, in ‘Yonder Is The Clock’ alcune delle pagine migliori sono quelle scritte prediligendo un’impostazione più sofferta, meditativa. ‘Ambulance Man’ ne è un esempio chiarissimo, con un bel contrasto tra il tono vagamente funereo evocato dalla fisarmonica ed il respiro oggi non proprio comune conferito dalla chitarra essenziale e dalla incredibile voce strascicata di Ian. Una ballata gentilmente lacerante, come non se ne sentono più, ma non un episodio isolato. ‘All When We Were Young’ sviscera l’anima più intima e notturna del quintetto di Brooklyn con arrangiamenti puliti, eleganti, l’ottimo contrappunto del pianoforte e ricami fascinosi di slide e Cry Baby. ‘Katie Dear’ insiste in questa direzione accentuando il taglio romantico ma mantenendo un pregevole senso della misura, senza dilungarsi eccessivamente e senza cedere terreno alle tentazioni piacione e alla melassa. Verso la conclusione, poi, ‘Cooperstown’ sorprende svelando i Felice Brothers seri e profondi, nel solco di una tradizione che omaggia per una volta anche il Neil Young pre-Harvest senza timori reverenziali e con una fiducia nei propri mezzi che non può non lasciare ammirati. E’ un folk classico ed attualissimo, suonato a regola d’arte, imperdibile non solo per gli appassionati.

 

Curioso come certi rimandi all’epopea dylaniana affiorino del tutto casualmente ma sappiano tradursi in suggestioni potenti. Tutti i telegrafici resoconti in merito alla breve esperienza dei Felice Brothers non mancano di citare un concerto leggendario tenuto dai fratelli al celebre Newport Folk Festival in Rhode Island, nel 2008. Un’edizione in condizioni climatiche proibitive, con uno show senza elettricità svoltosi sotto al palco in mezzo al pubblico ed in versione totalmente unplugged. Il Newport Folk Festival, stessa ambientazione dello strappo servito più di quarant’anni prima dal menestrello di ‘Like a Rolling Stone’ a puristi del folk e benpensanti, uno schiaffo memorabile. Sulle orme di quell’artista in quel particolare momento storico i Felice Brothers stanno costruendo la loro carriera, alternando come detto la loro vena più accesa e roboante a momenti di più rilassato spleen autoriale, e completando il quadro con sonorità frenetiche e di entusiasmante vitalità. In tal senso ‘Yonder Is The Clock’ offre all’ascoltatore una varietà di soluzioni ed una compiutezza forse anche maggiore che nei due capitoli precedenti. ‘Chicken Wire’, per dire, ha una scoppiettante propensione al blues, è laida ed emozionante insieme, saccheggia con devozione febbrile il Dylan di ‘Maggie’s Farm’ ma come nel bel mezzo di una seduta particolarmente allegra e sbracata. Qui i riferimenti ai vari Joe Henry, ai Freewheelers, ai Whiskeytown, ai Marah ma anche ai Black Crowes si sprecano. Come già nelle famiglie Bielanko e Robinson, i fratelli che vanno a briglia sciolta saranno anche meno eleganti ma mostrano scampoli di inarrivabile purezza. Che quello di ‘Memphis Flu’ sia un titolo assolutamente azzeccato pare innegabile: l’influenza sudista si respira a pieni polmoni, il clima è accalorato, alticcio, svaccato, perfetto come alleggerimento (dal gruppo che ha scritto ‘Whiskey In My Whiskey’ è il minimo che ci si possa aspettare). Anche in ‘Penn Station’ si opta per un’andatura trottante che è ideale per la voce roca e da adorabile canaglia di Ian. C’è più equilibrio comunque, la canzone è degna di nota. Un crescendo verace con aromi da country-blues d’osteria non inficia il giudizio positivo e non cancella l’impressione di una destrezza naturale e disinvolta, il marchio di fabbrica della band. L’apoteosi arriva comunque intorno a metà disco (dopo un paio di rallentamenti) con ‘Run Chicken Run’, strepitosa deviazione sanguigna, singolone tutto nervi che trascina con il più irresistibile dei ritornelli bostick e si candida a diventare la più degna erede dell’ormai classica ‘Frankie’s Gun’, il must di ogni concerto dei Felice Brothers. Genuinità ed efficacia sono espressi nella loro pienezza, senza bisogno di ricorrere a chissà quale artificio o doping produttivo.

Non è tutto. Con ‘Boy From Lawrence County’ torna a riecheggiare l’elegia dylaniana, ma sono gli incanti western di ‘John Wesley Harding’ e della colonna sonora di ‘Pat Garrett & Billy The Kid’ a prendere il sopravvento questa volta, in una forma depurata dalle scorie più caustiche e fracassone del collettivo per lasciar emergere un profondo afflato yankee, cui giova non poco il contributo del banjo e del mandolino. Con un’ellissi espressiva che non esclude una certa coerenza stilistica di fondo, in ‘Yonder Is The clock’ c’è spazio anche per ombre di altra natura ma non meno interessanti. Il cantato e lo sciroccatissimo piano dal sapore di Bourbon di ‘Buried In Ice’ evocano senza troppe ambiguità lo spettro del maledettismo d’alta scuola del Waits dei seventies. Sicuramente l’atteggiamento, la posa, l’adeguamento ai relativi cliché hanno il loro peso ma, come scritto riguardo all’omaggio a Dylan, è indubbio che i Felice Brothers ci mettano anche molto del proprio: una vocazione, una sincera attitudine verso forme musicali polverose. La riprova di questo secondo importante riferimento arriva con ‘Sailor Song’, ennesimo rimescolamento di carte in un album che è tutto un travestimento di stili ed influenze: il pianoforte cambia registro e si fa più classico, sofisticato, delineando i contorni di una ballad sostanzialmente depressa, prossima al romanticismo waitsiano degli ’80. Ancora una conferma dell’abilità eclettica di un gruppo che ad oggi sembra già molto più che una semplice promessa. Appuntatevi il nome, questi ragazzi faranno molta strada.

 

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Farewell Good Night’s Sleep

Sempre la solita dannata Islanda! Dannata in senso buono, eh, ché la nostra ammirazione usa termini altisonanti solo per variare il tenore di un discorso già fatto milioni di volte. Come sfornano fuoriclasse nell’isola forse meno densamente popolata del mondo resta un enigma assoluto, roba da ipotetico quarto mistero di Fatima. Ogni nome nuovo si propone puntualmente come conferma e come anomalia e non fa eccezione il caso della giovane, assai promettente, Lovísa Elísabet Sigrúnardóttir, in arte Lay Low. Una conferma, perché non occorre un titolo di studi particolarmente ambito per rendersi conto che questa ragazza ha molta stoffa e di buona fattura. Un’anomalia, perché in questo caso la protagonista e la sua musica sono figli di un meticciamento molto articolato e dagli esiti curiosi. In questo caso i natali sono londinesi, il ramo paterno viene dallo Sri Lanka mentre solo mammà è effettivamente islandese. Un buon 50% comunque e, visto che una tale fetta di patrimonio genetico è piuttosto rilevante, l’effetto "genialità" si percepisce, eccome. Anche lo stile di Lovísa ha una peculiarità tutta sua: c’è un retrogusto di fondo che è piacevolmente dream pop, se l’etichetta vale ancora qualcosa. Una spruzzata appena, ma significativa nei fatti. La matrice fondamentale resta il country-folk delle Dolly Parton, delle Loretta Lynn e delle Patsy Cline, interpretato comunque con una spiccata ed autonoma sensibilità oltre che con la dovuta devozione. Riferimenti e background che nel precedente esordio (‘Please Don’t Hate Me’) e nelle prove dal vivo hanno conquistato una marea di suoi conterranei ed almeno una personalità di grido, quella Lucinda Williams che l’ha immediatamente promossa con parole molto lusinghiere. Ora, nel disco della riprova, Lovísa insiste con i suoi cavalli di battaglia e strappa applausi convinti per quel suo saper essere originale ed al tempo stesso ben radicata nel territorio. Che non è, questa volta, semplicemente l’Islanda, bensì quella sorta di minicontinente che racchiude in una sola "terra del cuore" tutti i paesi scandinavi e nordeuropei. Nella recensione ho fatto quattro nomi (uno per nazione) pescati dal mazzo forse casualmente ma emblematici di questa eccellenza ambientale che rende magici molti artisti di quella provenienza: l’inarrivabile svedese Lekman, la norvegese Wallumrød, la danese Sennenvaldt e il mite Teitur, dalle sperdute isole Faroer. Anche Lay Low può vantare la medesima aura di aliena eleganza e merita di rientrare in questo sempre più numeroso club di eletti per merito dell’intelligenza con cui rivisita standard e cliché espressivi generalmente logori. Molto brava Lovísa: non si tratta di una nuova Björk ma ha tutte le carte in regola per fare strada.

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