La Versione di Geremia _Letture

       

James Purdy è stato un gigante della narrativa americana, anche se ad appena sei anni dalla sua morte sembra quasi che non sia mai esistito. Poche le tracce, specie in Italia, dove diverse sue opere non sono mai state tradotte. Quando Einaudi pubblicava “La Versione di Geremia”, il nome era ben più quotato e ogni nuova uscita non tardava più di qualche anno per essere promossa anche da noi. Poi l’oblio, fino a una modestissima riscoperta con Minimum Fax prima e Baldini Castoldi e Dalai poi, purtroppo su titoli già editi e non sugli altri. “La Versione di Geremia” dovrebbe essere uno dei suoi titoli migliori, anche se di rado ho riscontrato un’assoluta costanza qualitativa come nel caso di Purdy. Autore e romanzo difficili, comunque, pervicacemente anacronistici, tetri e lenti. Ma anche esempio di una narrativa potente, di un realismo sporco e sconfortante ancor più che in Richard Yates. Non mi sentirei di consigliarlo, a meno che non siate lettori con i controcoglioni e con una soglia di sopportazione della (presunta) noia particolarmente elevata.

Nella cittadina in disgrazia di Boutflour, lo “zio” Matthew Lacey è il classico individuo anacronistico sul quale si è ricamata un’ampia e fantasmagorica mitologia: attore di buon successo agli albori del cinema, in seguito rovinato dal demone dell’alcool, si sarebbe ritirato nella rassegnazione di quella sua città – odiata cordialmente da lui come da nessun altro – per divenirne una sorta di “capo fantasma tra i fantasmi”. L’incontro casuale con il quindicenne Geremia Cready in un giorno di tempo infame diventa l’occasione per porre le basi di un’insolita amicizia e per far sì che una storia prodigiosa abbia modo di essere raccontata e, successivamente, affidata alla memoria della pagina scritta. L’anziano e l’adolescente imbastiscono un rapporto di natura professionale davvero franco e senza fronzoli, con il primo a dettare i suoi ricordi idilliaci sul conto dell’ormai dimenticata famiglia Fergus (che in gioventù lo aveva accolto come un figlio) e il secondo a operare da puntuale amanuense. Quei resoconti su un universo e i suoi presunti eroi cancellati dal tempo non potranno che infiammare l’immaginazione di un giovane senza prospettive come Geremia, spingendolo a vivere come una missione quell’incarico di apostolo e testimone di una leggenda lontana. E nel racconto che prende così vita sotto gli occhi del lettore quasi fosse un placido sogno, con il ragazzo spossato dalle verità complementari della sua matura sorellastra Ella e del vecchio Matt, proprio quest’ultimo tende a svanire e a confondersi tra le figure di fondo, chiamate a recitare la loro parte solo di tanto in tanto ma senza mai togliere rilievo ai veri protagonisti delle vicende: in primo luogo Elvira Summerlad, donna caparbia ridotta sul lastrico dalle avventate speculazioni del marito Wilfred Fergus, poi datosi alla macchia negli stati del sud lasciando alla moglie l’incombenza di crescere tre figli senza un soldo e dovendo abbracciare alla svelta la necessità materiale di un’esistenza pragmatica quanto avvilente, lontanissima dagli agi e dalle talentuose promesse della giovinezza ma anche dalla condotta rispettabile di una donna sposata; quindi sua cognata Winifred Fergus, altro personaggio femminile imponente ed emblema di un’impronta yankee più fieramente tradizionalista, a sostenere in vece del pallido fratello le ragioni dei Fergus nel braccio di ferro a distanza con Elvira; e infine Jethro, l’enigmatico “figlio di mezzo” di quest’ultima, considerato folle e imprevedibile un po’ da tutti a causa di un gravissimo incidente patito in tenera età, che lo ha reso di fatto assai più sensibile e tormentato non solo dei suoi coetanei ma di tutta la meschina umanità in scena in questi States di provincia negli anni della Grande Guerra.

La “Versione di Geremia” non è altro che la messa in scena asciutta e priva di clamori di una tragedia senza morti ma con tante vittime, la cui illustrazione in un passato distante e non più replicabile è curata da Purdy con verità sbalorditiva, cogliendo sfumature marginali nell’intimo dei suoi soggetti e nelle difficoltose relazioni costruite tra di loro, oltreché evitando fermamente ogni forma di forzatura teatrale o di implicazione moralistica per non influenzare l’interpretazione di chi legge. Un tetro, sudicio realismo prevale sempre e comunque sul dramma, come nei pochi litigi corali con al centro le due donne forti e apertamente, lealmente, rivali, e soprattutto nella prolungata ordinarietà del loro scontro a distanza: silenzioso, strisciante e inesorabile logorio, con le austere cadenze di uno stillicidio. Inevitabile con queste premesse una narrazione lenta e anti-spettacolare, che si alimenti di minimi scarti emotivi o psicologici e possa risultare tediosa, snervante, ostica. Purdy fa ricorso con polso fermo a tutta la sua maestria di romanziere asettico, distaccato, trasparente, ma non manca di offrire riflessioni non banali sull’animo umano, sulle sofferenze causate dai legami o dalla loro mancanza, e sulla vacuità di sogni spazzati via in maniera impassibile dalla gelida impassibilità del reale. Nondimeno si percepisce comunque la presenza dell’autore, nella figura del giovane testimone Geremia e nella di lui identificazione negli scomodi panni dello sventurato Jethro, il cui diario senza filtri (letto per caso dal padre e dalla zia) si rivelerà sconvolgente per come mostri in tutta la sua brutalità la natura di esseri umani che bruciano nella convinzione ostile e fasulla della propria rispettabilità. Attraverso il suo volto reso disumano dalle fattezze del capro espiatorio, scopriamo per paradosso la purezza del più umano e disincantato tra i personaggi del testo, annientato dall’affetto opprimente della figura materna fino a progettarne la morte per emanciparsi, e consumato dalla consapevolezza di non serbare vero odio nei riguardi di un padre egoista e latitante, simbolo estremo del più sconfinato dei fallimenti esistenziali. Come lui e come Geremia, per estensione, anche il lettore non ha modo di schierarsi per un’aperta condanna nei confronti di alcun personaggio in scena, e non può che limitarsi a contemplare con il giusto distacco il ritratto di un mondo condannato all’oblio, nella sua flemmatica dissolvenza verso il silenzio. Un grande romanzo sui fantasmi chimerici della libertà, sulla solitudine cui siamo destinati anche senza volerlo (e anche quando tutto sembrerebbe negarle asilo), oltre che sulla fragile sostanza della memoria, individuale e condivisa. Richiede una buona dose di pazienza ma sa ripagare chi non intenda gettare la spugna.

8.4/10

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