Jeffrey Moore

Gli Artisti della Memoria _Letture

       

Avete presente quei vecchi videogame da sala giochi, con gare automobilistiche in cui la permanenza in pista era vincolata dal passaggio attraverso determinati “cancelli” a tempo? Bene, questo (ex)blog sembra essersi ridotto ormai a nulla più che questo. Ogni mese un pezzo di recupero su un libro o un disco di attualità pressoché nulla, caricato sempre più a ridosso della mezzanotte del 31. Mi ero posto come condizione essenziale che se un determinato mese non avessi pubblicato nulla avrei chiuso baracca e burattini. Beh, è evidente che ci siamo quasi e la corsa sta per finire. Il cancello di luglio 2015 passa per il rotto della cuffia, e solo grazie a un romanzetto senza troppe pretese di Jeffrey Moore, autore canadese che aveva fatto un lavoro discreto con l’esordio, “Una Catena di Rose”, ma che con questo “Gli Artisti della Memoria” sostanzialmente delude le aspettative. Ad ogni conto, anche stavolta qualche spunto buono non manca, a cominciare dalla vivacità (almeno quella) dell’intreccio per concludersi ai numerosi rimandi a pittori simbolisti inglesi. Io ho cercato le loro opere qui menzionate – per lo più dedicate a giovani fanciulle affogate – su google immagini e ammetto di essere rimasto piacevolmente colpito in più di un caso.

Noel Burun presenta sin dall’infanzia i tratti tipici del vero genio. Educato già in tenera età a privilegiare l’arte e il bello nella loro forma più compiuta – la poesia, “zenit della creatività – ha ricevuto in eredità dai suoi avi una memoria assolutamente prodigiosa, accompagnata però dal pesante fardello collaterale di una complessa sensitività sinestetica, una distrazione “in scala di colori” dalla realtà, alquanto limitante e non certo agevole da contrastare. Grazie all’aiuto di un controverso neuropsicologo, il professore svizzero Emile Vorta, la sua faticosa quotidianità sembra stabilizzarsi su uno standard di accettabile compromesso, nell’illusione sfuggente che la sua singolarità possa davvero riassorbirsi. Così almeno lo ritroviamo, dopo un cappello introduttivo che ce lo ha presentato bambino prodigio, nei panni di un trentenne riservato e intelligente, non esattamente schiacciato dalla tirannia dei suoi talenti, e alle prese, più che altro, con problemi dolorosi nella loro ordinaria quotidianità, su tutti l’Alzheimer che sta minando un po’ alla volta le facoltà cognitive dell’adorata madre Stella. Siamo così invitati a seguire (senza troppa passione, in realtà) quella che è la sua rincorsa, di pochi mesi appena, per trovare il giusto rimedio sperimentale alla malattia materna, per conquistare un’insperata normalità che annulli come d’incanto tutti gli ostacoli, e per far breccia nel cuore della bella Samira, non meno indecisa negli affetti del personaggio da lei interpretato al cinema in “Una sposa per tre sposi”, sotto il misterioso pseudonimo di Heliodora Locke. Accanto a lui, un ristretto team di giovani dallo scintillante intelletto, idealmente capitanato dal gelido (e insopportabile) dandy saccente Norval Blaquiere, duro come il granito e in apparenza spietato nelle relazioni con il gentil sesso, per cercare di dimenticare in verità una pagina tristissima del suo passato.

Se nel delicato rapporto tra Noel e Stella traspare la grazia, quella gentilezza à la Coupland che è per definizione nelle corde di Moore, è innegabile che “Gli Artisti della Memoria” si conceda qualche scivolone di troppo in una banalità buonista abbastanza fastidiosa, mentre la presunta straordinarietà del protagonista è annacquata per esigenze pratiche e di copione (per favorire l’identificazione nel lettore, ad esempio) in un carattere d’intelligenza non così estrema o problematica. La narrazione è inframmezzata da stralci del “diario sinestetico” di Noel – effrazioni letterarie suggestive e in fondo funzionali – e da quelli più tangibili di sua madre (cronache del disagio di una mente alla deriva), di Norval (una dettagliata tassonomia delle proprie conquiste carnali, manifesto di quell’arte “esecutiva” denominata “Alpha Bet”, da lui praticata per scommessa come narcisistico atto di ribellione) e della fragile Samira. Se il romanzo si avvantaggia in questo modo di una vivacità innegabile, movimentato dal flusso discontinuo come da una colorata polifonia multiprospettica in stile Rashomon, questi stessi espedienti sono sviluppati in maniera prevedibile e rischiano di risultare troppo “facili” per un lettore smaliziato ed esigente.

Dopo il lieve ma assai brillante “Una Catena di Rose”, questa volta Jeffrey Moore non riesce altrettanto convincente e tende a deludere proprio in quelle che dovrebbero essere le migliori qualità della sua scrittura: la toccante umanità, la leggerezza concreta, realistica, una resa psicologica semplice ma opportunamente sfumata. Qui si sconfina spesso e volentieri nella melassa (emblematici i tarallucci e il vino del finale – con l’amaro calice riservato al solo amico/antagonista), nulla di quanto narrato è anche solo lontanamente credibile e i personaggi sono pretenziosi, tagliati con l’accetta, e non mancano i passaggi a vuoto (tipo il resoconto postumo su Vorta affidato ai ritagli di giornale). Se i due protagonisti faticano terribilmente a risultare credibili (e, in sostanza, falliscono), l’asticella dell’intrattenimento si alza in via esclusiva quando è Jean Jacques “JJ” Yelle a rubare la scena, campione spumeggiante di stravaganza e auto-deprezzamento, inventore, scrittore, umorista fallito quanto indefesso, erborista, alchimista, “celestiale idealista”, sorta di idiot savant che funziona come valido contraltare al razionalismo poco entusiasmante – “Cieco al miracolo” – di Noel e si trasforma in un megafono ideale per l’irriducibile ottimismo dell’autore canadese.

Il consueto profluvio di citazioni dispensate ad ampio raggio (da Primo Levi a Baudelaire, da “Le mille e una notte” ai pittori simbolisti inglesi di fine ‘800) riscatta soltanto in parte i limiti di un testo troppo forzato per riuscire avvincente.

6.3/10

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Una Catena di Rose _Letture

      

Promettono sicuramente bene i titoli dei romanzi di Jeffrey Moore che ancora non ho letto: “La Società degli Animali Estinti” e “Gli Artisti della Memoria”. Chissà che non li trovi prima o poi sulla mia strada, a metà prezzo o meno. Potrebbe valerne la pena, anche se, stando al clamore suscitato, potrebbe essere considerato superfluo aggiungere una nuova frequentazione con l’autore canadese se si è già fatta la sua conoscenza attraverso questo “Una Catena di Rose”. Che, l’ho scritto in fondo al mio pezzo su Anobii, non è certo uno di quei romanzi che cambiano la vita, anche se, nel suo piccolo, può essere tra quelli che contribuiscono a renderla un pochino migliore. Lettura agile, brillante, tutto sommato soddisfacente, visto che Moore conosce il suo mestiere e non è (quasi) mai banale. Consigliato come cuscinetto di qualità quando di intenda ammortizzare prove letterarie ben più impegnative senza sbracare nel frivolo da due soldi. Leggero, intrigante, veloce, e da moderate aspettative. A volte sono proprio questi i libri che gratificano di più.

Jeremy Davenant è un ragazzo perbene, forse anche troppo. E’ appena stato mollato da una fidanzata non proprio fedele e ha deciso di cambiare dimora, affittando uno squallido appartamento nel quartiere meno esclusivo di tutta Montreal, per ripartire anche letteralmente dal gradino più basso. E’ un tipo romantico, impacciato, cordiale e sobriamente idealista. Intelligente e ironico appena sopra la media, insegna senza troppo entusiasmo all’ateneo cittadino e pare incapace di liberarsi di certi fantasmi del passato: una madre molto amata, morta troppo presto a causa di un incidente stradale, e un’infanzia brevissima trascorsa senza padre ma con ben due patrigni – Gerard nella natia York, Ralph nella metropoli canadese – assai diversi l’uno dall’altro. A scompaginare la fin troppo tranquilla routine dei suoi giorni irrompe una giovane donna misteriosa, Milena, che gli appare a più riprese nelle più disparate circostanze e sembra corrispondere fino al più insignificante dei dettagli alla donna del destino profetizzatagli in tenera età dalla “pagina magica”, un frammento dell’enciclopedia selezionato durante una cruciale seduta a mosca cieca e regalatogli dallo “zio” Gerard per guidarne le future passioni lontano dall’Inghilterra. Tra tediosissime cene accademiche, colazioni a due nei più improbabili bar del boulevard, passeggiate o pedinamenti nel parco e grottesche serate al Café Noctambule o al Dame de pique, tra sciami di pseudo intellettuali falliti e boriosi artisti d’accatto, siamo invitati a seguire con sempre maggior partecipazione le tragicomiche vicende sentimentali del protagonista nella sua disperata caccia a una bella oltremodo bizzosa, inframmezzate a flashback rivelatori dai suoi trascorsi giovanili nello Yorkshire, tra precoci epifanie amorose e leggende attorno alla figura del suo unico, vero, grande nume: William Shakespeare.
Il senso di “Una Catena di Rose”, in fondo, è già tutto racchiuso nel suo titolo azzeccatissimo: c’è un legame vincolante che parrebbe predestinato e che la ragione non è in grado di spezzare; e ci sono le rose, bellezza inarrivabile e spine dolorose, in egual misura. Questo primo romanzo di Jeffrey Moore sembra un libro senza troppe pretese: l’ennesima effervescente storia d’amore e tormenti, qualcosa di estremamente trito insomma. Non sarebbe in effetti molto più che questo, ma la caratterizzazione dei personaggi, l’autenticità di un io narrante pieno di falle e di dubbi, l’andamento rilassato e i piacevoli aromi di fondo – tra disincanto che non cede mai alla disperazione e quel tono da moderna favoletta scanzonata – lo rendono un’opera particolarmente gradevole, di agile lettura e brillante inventiva. Lo scrittore canadese non promette la luna, non spaccia fastidiose pseudofilosofie e non indugia in eccessivo autocompiacimento. In compenso scrive molto bene, forbito ma senza spocchie o snobismi, e riesce a intrattenere il lettore divertendolo senza stancarlo. La carta vincente, come detto, sono gli attori in scena. Jeremy in primo luogo, apparente baluardo del razionale nelle sue lucide riflessioni a tutto campo, eppure pronto a smentirsi alla velocità della luce in compagnia dell’oggetto dei suoi desideri idilliaci, ossessionato dalla superstizione e da impulsi infantili nella tendenza a drammatizzare e a ritualizzare ogni evento, anche il più insignificante. Accanto a lui, Milena è una femme fatale (o, meglio, “feministe fatale”) che non si dimentica: bellissima e sensuale anche senza trucco, affilata come una lama, crudele nell’indifferenza ostentata senza troppi riguardi, eppure incapace di reggere decentemente gli alcolici e abituata ad “affogare il caffè nello zucchero”.
Il loro rapporto squinternato diviene da subito una sorta di paradigma: “puntualità compulsiva che incontra sregolatezza senza scrupoli”, “fante di cuori e donna di picche”, “l’oro dei poveri, l’oro dell’alchimista, la sfolgorante zingara-sirena” nello scontro fatale con “l’ingenuo, il burattino, il ragazzo pazzo che sbaglia, sbanda, sbarella”. Per i giovani lettori di sesso maschile è assai difficile sottrarsi a un principio d’immedesimazione: chi di noi non ha avuto a che fare almeno una volta nella vita con la sua Milena? Lo ribadisce Jeremy, tirando in ballo il Platone del Simposio (“in amore l’imperfezione aspira alla perfezione”) e ricordando l’infallibilità del “rifiuto come afrodisiaco”: è più desiderabile la donna che ti respinge, tanto più se passa per lesbica (e in fondo non lo è). Peccato solo che nelle battute conclusive questo magistrale squilibrio sembri destinato ad annacquarsi, a ricomporsi nel meno plausibile dei lieti fine (solo suggerito però, in realtà negato per il rotto della cuffia dalle ultime due pagine, e meno male). Particolarmente riuscite, in ogni caso, anche le numerose figure di contorno: dalla gioviale Ariette alla depravata Violet, sorella di Milena; dall’amico fidato Jacques, esteta pretenzioso e inconcludente dedito a ogni sorta di stravizio, alla bella galleria di antagonisti, più presunti che effettivi (il fastidioso rivale Victor Toddley, l’insopportabile collega saccente e impiccione Clyde Haxby, il corpulento e pericoloso padre di Milena). E infine Gerard, soprattutto: padre putativo, uomo coltissimo, spassoso e un po’ folle, millantatore sfrenato e avventuriero dal cuore d’oro, col vizio del gioco d’azzardo e dei giochi di parole. E’ lui a orientare il protagonista verso Shakespeare e l’amore sconfinato per la letteratura (che traspare in ogni pagina ed è un innegabile valore aggiunto del romanzo), a trovargli un posto in università coniando false referenze, e a spronarlo continuamente affinché finga di essere un uomo diverso, per realizzarsi: “siamo tutti impostori, tutti attori e bugiardi”. Moore lascia intendere di pensarla evidentemente in maniera simile, pur adottando l’irrinunciabile distacco offerto da un’ironia a tratti efficacissima. Questi i dettami affidati ai suoi personaggi come unica consegna narrativa, esemplari proprio per il modo magistrale in cui recitano parti non (del tutto) loro.
Una sorpresa molto gradevole questo “Una Catena di Rose”: non certo tra i libri che cambiano la vita, ma senz’altro tra quelli che la migliorano, nel loro piccolo.

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