Notare Notari

 




Di lui non ha parlato nessuno. Non ancora, almeno. Scoprire qualcosa sul suo conto dalla rete pare impresa ardua. Di più. Al primo ascolto vi schianta con un senso di vecchio, di fuori moda, di strasentito, di così terribilmente poco cool da indurvi nella tentazione di cancellare quel suo nome in parte italiano dall’angolo più recondito dei cassetti della vostra memoria. Sbagliereste. Lo dico dando per scontato che il genere vi appassioni, perché se così non fosse sarebbe la scelta più azzeccata a vostra disposizione. Se però questo tipo di musica è nelle vostre corde ed avete allenato a dovere la vostra pazienza con pesantissimi polpettoni acustici, ‘Very Long Dream’ può fare sinceramente al caso vostro. Per quanto mi riguarda, ho faticato. Il primo ascolto in certi casi è verità sputata, in altri può trarre in inganno. Lasciando correre il disco nei miei spostamenti da e per il lavoro, mescolato con un’altra decina di opere in un certo senso affini o perlomeno non così distanti (Stephen Steinbrink, Bill Callahan, Ohtis e Felice Brothers), mi sono trovato a dare presto ragione al tizio che su Rym (utente Sodastreamer, una garanzia) lo accoglieva col pieno di stelline ed un allettante quanto definitivo “Eternal”. Per quanto lapidario in positivo e striminzito, il giudizio potrà apparire un’esagerazione ma credo non lo sia affatto. Trovo che abbia colto nel segno, catturando la maggiore qualità di un album e di un songwriter che sanno porsi magicamente fuori dal tempo. Mi chiedo se, nel corso di un’annata che verrà ricordata dagli estimatori come la più significativa degli ultimi venti o più anni per l’universo folk, il piccolo Huck Notari avrà modo di dire la sua. La mia convinzione è che, per quanto in pochi abbiano avuto modo di fare la sua conoscenza, questo sia già avvenuto. La santa triade Oldham – Callahan – Molina, tutto un corredo di altri attisti affermati come Chesnutt o Bird e di cantautori europei apprezzabilissimi (Alasdair Roberts, King Creosote e James Yorkston i primi che mi vengono in mente), puntualmente a referto con album ottimi o molto buoni. In questo quadro di esaltante, febbrile e non preventivata messe produttiva, Huck sembrerebbe destinato a recitare il ruolo del pulviscolo, della pulce, della comparsa di terz’ordine. A dargli credito si riconoscerà che certe fragranze restano inestimabili se autentiche. Il rompighiaccio ‘Save The Day’ parla questa lingua, vive di classicità sobria e corale spaziando a ritroso dall’alt-country dei ’90 a Dylan, un segmento che pare un semplice punto nelle sue canzoni. Datato ed attuale si confondono sulle facce contrapposte di una stessa moneta che rotola a terra. In ‘Play Them All’ i rimandi al più noto dei menestrelli si impongono con prepotenza, come l’immancabile armonica in stile country. L’ortodossia da folksinger d’impronta classica è rispettata con una certa dovizia ma anche con l’amore filologico del cultore appassionato. Magari l’andatura si fa di tanto in tanto più schietta, magari il tocco del banjo orlato di mandolini può lasciare l’illusione di una maggior vivacità (‘Falling Too Hard’). Chi detesta certe sonorità non si farà certo trarre in inganno anche perché la veste è alquanto spoglia e non disdegna la bassa fedeltà. Gli altri, al contrario, ammiccheranno compiaciuti.

 

 

 

Non ha alcun legame col nostro Notari, Marco. Si è dedicato dapprima al vaudeville con una combriccola messa su alla buona, i Cardboard Songsters, quindi al ragtime in quel di New Orleans, con una band (Kitchen Syncopators) dal nome altrettanto improbabile ed ignoto. Trasferitosi nella sempre fertilissima Portland (Oregon, non Maine) ha iniziato a fare sul serio in proprio, non rinunciando comunque ad esperienze di gruppo come quella da pianista nei ranghi di Oz St. Fossils (altra compagine non esattamente ultrapopolare). Cosa tenere di buono in questo secondo album solista di cui parliamo? Cosa rende così speciale Huck Notari da richiedere che il suo nome vada al di là dell’infame anonimato delle misconosciute formazioni sopra citate? Beh, in ‘Very Long Dream’ non ci sono forzature, né colpi ad effetto. Come ‘Who Could Let You Go?’ dimostra, emerge un ricamo secco, un tramare paziente che attinge all’inesauribile fonte del folk statunitense con una credibilità sbalorditiva. E poi le canzoni: semplici, dirette, pacifiche, oneste. A loro modo sono impeccabili e la confezione spartana si rivela quanto mai adeguata. Anche quando paiono più introspettive ed essenziali (vedi ‘Undone’, o il dialogo voce e chitarra di ‘Wall Around Your Heart’) restano convincenti per integrità, coerenza, rigore. La disciplina country-folk non esclude i lampi, ma questi sono adottati in forma di sfumature tanto esili quanto decisive. ‘I Want To Win’, canta Notari, con l’afflato forte e chiaro dell’Americana. Certo, però, il tono tranquillo da focolare, quei violini controllatissimi e le aperture di grazia gentile portano nel contrasto all’esito inatteso di una ballata di rara dolcezza. La Title Track fa di meglio manipolando la stessa materia. Racconta molto più lei del suo autore di tutte le biografie che in rete gli devono ancora essere dedicate. Incredibile questo fraseggio serafico, questa voce che si presenta soltanto dopo più di tre minuti, non facendo mistero di guardare con sprezzante indifferenza alle più elementari regole dell’appeal canzonettaro. Ovviamente alla fine è lui che ha ragione da vendere: questo brano è meraviglioso e merita di intitolare l’intera raccolta. Il fragilissimo duetto conclusivo di ‘He Rode Off’ raggiunge dal nulla buone punte d’intensità per merito di un pregevole incastro d’ombre con la voce femminile. Lineare fino in fondo, anche emozionante se lo si sa ascoltare. Stesso discorso per il brano che lo precede, ‘Dark And Dreary Day’, più sospeso, volutamente nebuloso e con un bel sapore da canzone di viaggio. E’ uno standard che al cantastorie di stanza a Portland riesce benissimo. Per non dire dei risultati raggiunti quando è ai sixties che si guarda. ‘Nora’s Song’, il capolavoro, è un gioiellino country-folk ossequioso verso la tradizione ma forte di alcuni passaggi melodici in chiaroscuro veramente mirabili. Sempre pacato, sempre equilibrato, il piccolo cantante americano dimostra di avere i numeri giusti in questo campo. Si chiama Huck Notari, appuntatevi il suo nome.

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