Month: gennaio 2009

Carla Bozulich @ United Club

25-1-2009

Carla Bozulich è decisamente un’aliena, nessun dubbio in proposito. Lo capisci dai suoi sguardi, che sembrano assenti e invece nascondono chissà quanti pensieri o ricordi. Lo capisci dai movimenti ingenui ed impacciati, quasi infantili nella loro banalità apparente, eppure tanto cruciali nel dissimulare la rabbia ed il fuoco che questa donna custodisce dentro di sè. Carla è come un’aliena che ti parla guardandoti appena negli occhi. Preferisce destinare lo sguardo al pavimento, sembra quasi patire l’incontro visivo coi suoi spettatori pur ritenendolo sicuramente un qualcosa di vitale ed irrinunciabile, qualcosa che la spinge anzi a pregare il suo pubblico di farsi avanti e colmare quel poco spazio lasciato libero, lì sotto il palco, e a rammaricarsi di non poter vedere in faccia quelli che stanno dalle parti del bancone, prigionieri della penombra sul fondo della sala. Ci chiama “timidi”, ma le sue parole non suonano come rimproveri. Siamo in effetti un po’ troppo seri e imbambolati, molto poco reattivi, ma Carla non si mostra scoraggiata e ribadisce con un certo orgoglio quanto è più importante questa sera, il fatto che non sia “timido” anche chi sta sul palco a cantare.

 

Carla Bozulich è decisamente un’aliena che sa come tenerti in scacco, potente come gli extraterrestri megalocefali delle stickers americane o come i bambini inquietanti de ‘Il Villaggio dei Dannati’. A differenza loro, però, Carla è scesa sulla terra con intenti pacifici, non per sottometterci ma per condividere con noi i suoi sogni e le sue strambe visioni, rumorosamente e visceralmente. Ora che l’Italia è diventata la sua seconda casa, ora che anche i fan italiani possono festeggiare una sua più generosa presenza sul territorio, è giunta l’ora di un rendez-vous con questa città rinviato così tante volte in questi ultimi due anni da far gridare al miracolo per il concerto di questa sera, con opportuna scorta di scongiuri prima dell’inizio quasi ad esorcizzare l’ennesima brutta sorpresa.

 

Qualcosa nell’aria di questa fredda domenica, non proprio da giorni della merla ma tutto sommato abbastanza rigida, qualcosa dicevo sembra anticiparci che tutto andrà invece per il verso giusto, con un bel corredo di sorprese piacevoli e la pace gratificante del lasciarsi trasportare come dal raggio sfavillante delle astronavi marziane, forti della consapevolezza di essere al sicuro comunque, cullati dal controllo e dalla sicurezza che altri hanno conquistato con fatica anche per noi, una limatura caratteriale dopo l’altra . Magari è il trucco di una strega, magari il classico obnubilamento del pensiero da romanzo o B-movie di fantascienza. Sia quel che sia, questo stare a mollo nello stanzone dello United come gli astronauti di 2001 nelle loro teche programmate è una sensazione nient’affatto sgradevole. Davanti a noi c’è Carla nella sua più fresca incarnazione musicale, quel progetto Evangelista che pare già di suo una celebrazione dell’hic et nunc, considerata la transitorietà nelle sue fila di alcuni dei musicisti sul palco (vedi il nostro connazionale Francesco Guerri, violoncellista turnista ma estrememente a suo agio nella parte), una scaletta con più di un pezzo scritto non più tardi di una settimana fa e la natura in divenire che spesso i brani della Bozulich assumono dal vivo, asserviti all’estro e alla contingenza dell’improvvisazione per plasmarsi in forme ogni volta inedite.

 

Questo è il sapore più netto che ci lasciano le canzoni di Carla questa sera. Impregnate di vitalità sin nella più apparentemente superflua delle note, sfrangiate nei mille rigagnoli della possibilita sonora, dal rumorismo bizzarro (ad esempio l’archetto che incontra il piatto della batteria o la chitarra suonata con un martello/lima in ferro) al groviglio sporco ma sincero dei feedback, dall’impetuosità punk mai sopita al mood febbrile e sanguinante di un romanticismo straziato ma fondamentalmente puro, commovente. Ecco c’è questa tenerezza di fondo della donna sul palco a rendere più evidente l’eccezionalità della sua performance. Il sentimento non è nascosto se non con ricorrendo ad alcune pose che sono in fondo genuine anch’esse, fedeli all’estetica consolidata del personaggio sino al punto di diventare un vestito trasparente che si confonde con la pelle dell’artista, a metà strada tra Patti Smith e Lydia Lunch. L’emotività è spontanea, non trattenuta né simulata, così da toccare il cuore quando si presenta come una carezza, o da far vibrare ogni muscolo del corpo quando si scioglie in in una marcia roboante e selvatica. E’ quasi un requisito fondamentale per chi pubblica dischi con la Constellation, un modo di essere prima che una semplice label. Inutile ribadire che con il contratto per l’etichetta canadese Carla ha trovato anche una casa vera: lo dimostra l’ebbrezza creativa da lei manifestata negli ultimi due anni.

 

Poche concessioni alla maggiore ortodossia che certi episodi della recente pubblicazione a nome Evangelista prefiguravano. La forma canzone tende ad essere aperta, complicata o contaminata, senza che questo si traduca comunque in casi di radicale stravolgimento. E’ un principio che vale per alcuni brani già di loro perfetti per simili esplorazioni, come l’apertura tutta fragori e rarefazioni di ‘Evangelista I’ o i lancinanti squarci dark di ‘Baby, That’s The Creeps’, ma lo stesso discorso può essere rivolto all’ormai rodata rivisitazione scarnificata di ‘Pissing’ dei Low o all’altrettanto convincente cover hegarthiana di ‘For Today I am A Boy’, tanto sentita, traboccante ed intensa da riuscire nella non facile impresa di non far rimpiangere l’originale. Non male anche gli inediti presentati, sulla stessa linea emotiva dei pochi pezzi già noti e sufficientemente intriganti da lasciar presagire interessanti sviluppi nel prossimo futuro discografico della Bozulich. Menzione speciale per Ches Smith, batterista iper-stimolante già protagonista di un breve set introduttivo alle prese con un armamentario elettronico assai ricco ed una batteria suonata in ogni modo possibile, privilegiando i clangori metallici e sorprendendo con un drumming sullo schizoide andante: anche considerando la sottile follia di un prova eseguita interamente ad occhi chiusi, non mi sembra fuori luogo il termine ‘percussionismo autistico’ da me coniato al termine della sua esibizione.

 

Infine un ringraziamento per quell’unico bis, ‘Hello Voyager’, regalato a noi spettatori come ultimo lampo visionario: Carla è stata entusiasmante, tamburo alla mano e briglia sciolta, finalmente libera di dar sfogo ad umori e tensioni per trascinarci anima e cuore nel suo mondo senza finzioni. Un invito a condividere il viaggio sul suo vascello magnetico, evocato dagli stessi stridori presentati in apertura (e qui ripresi come a voler chiudere il cerchio) oltre che dall’invito a navigare insieme a lei racchiuso nel testo della canzone. Uno strepitoso canto di battaglia e insieme inno entusiasta all’amore come forza motrice.

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W

Finalmente un bel film che passa in televisione in prima serata, finalmente un bel film da Oliver Stone, uno che non mi faceva divertire tanto dai tempi assai remoti di ‘Natural Born Killers’. Sorpresa per la rapidità con cui questa pellicola ci entra in casa, presentata giusto un paio di mesi fa al Torino Film Festival ed evidentemente transitata nei cinema a velocità supersonica, sempre che ci sia andata effettivamente. Non so se l’anomalia sia dovuta alla sgradevole accoglienza ricevuta qui da noi, non mi sono documentato, ma può essere che nessuno abbia voluto distribuire il film in Italia ritenendolo poco conforme alla linea di chi comanda, anche e soprattutto nel settore. Per cui magari se l’è comprato La7 con buon anticipo e l’ha trasmesso, senza dare noia a nessuno visto anche che il tam tam pubblicitario è stato limitato ai sentieri della rete e a qualche quotidiano (tanto non li legge più nessuno, no?).

Allora, dicevo di quando fu presentato al TFF’08: ne parlano tutti i telegiornali, visto che si tratta dell’evento promozionale clou del miglior Film Festival italiano (escluso Venezia, in teoria), fortemente voluto da Moretti presumo, e considerato il nome pesante del regista (di cui ancora si avverte l’eco più per i suoi film politically correct sul Vietnam che non per il resto della filmografia). Accoglienza tiepida nel migliore dei casi, stroncature abbastanza feroci per lo più, ridicole in quanto a motivazioni e di un qualunquismo disarmante. Anche senza aver visto il film e non essendo certo un fan di Stone (di cui ho apprezzato veramente solo ‘Salvador’, ‘Talk Radio’ e ‘NBK’), ho intuito che, al solito, il gioco dei presunti critici alla Mollica fosse alquanto Sporco e ho preso in simpatia la cosa, se non proprio il film almeno l’idea, il soggetto. Ne è venuta fuori un po’ di curiosità da parte mia.

E’ un buon film. I paragoni più immediati che mi vengono in mente sono quelli con altre pellicole che parlano di personaggi controversi e tuttora “in carica”: ‘The Queen’ di Stephen Frears e ‘Il Caimano’ di Moretti. Se i collegamenti col secondo si limitano quasi esclusivamente a questo, la somiglianza dello sguardo con il primo, a livello narrativo e come biopic “non regolamentare”, mi sembra abbastanza marcata. Definirli film satirici è riduttivo. Questi sono ritratti impietosi, non così calcati o sproporzionati come avrebbero voluto farci credere. C’è ovviamente una tendenza alla deformazione grottesca, che è molto più accentuata e quasi poetica in un’altra opera del genere quale è ‘Il Divo’. Qui però il ricorso alla caricatura è limitato all’essenziale, il fatto che sembri abnorme non è da imputare a Stone quanto al personaggio che racconta, ai personaggi meglio. Maschere allucinanti quelle dell’entourage di Bush, maschere terrificanti dell’ideologia TeoCon che appaiono più vere del vero. Almeno a me. E il discorso vale per il protagonista incontrastato di questa tragicommedia, di questa storia che farebbe anche sbellicare dal ridere non fosse tutta incredibilmente vera. Meglio, molto meglio dell’analoga testimonianza di Michael Moore, più giocata sul potere manipolatorio dell’immagine per fare satira o strappare la lacrima a comando e dunque più vincolante in termini ideologici (non fraintendetemi, Moore mi piace un sacco comunque anche se quel film non mi ha entusiasmato). Qui il pensiero del regista è quasi completamente sepolto tra le pieghe della prospettiva scelta, che forza un po’ il resoconto ma senza caricare mai troppo, lasciando libero di agire il suo eroe inetto e disarmante, imbecille ma non come si immagina, inadeguato ma capace di arrivare al cuore della gente, patetico come Elisabetta in ‘The Queen’ e come lei addirittura umano, solo, sventurato.

Questo è il merito maggiore di un film che evita il rischio del manicheismo (sarebbe stato facile, scontato e sgradevole) e riesce comunque a  condannare il male nel suo protagonista rendendolo evidente, lapalissiano. Stone sembra amare il suo eroe, lo segue con un occhio che qua e là tradisce un po’ di benevolenza, un po’ di tenerezza addirittura, anche se sotto sotto affonda i colpi in maniera spietata, senza risparmiare nulla. Strepitoso Josh Brolin, veramente un mattatore assoluto. E accanto a lui un cast superlativo, con menzione speciale per lo Scott Glenn che interpreta il “gelido coglione” Rumsfeld con abilità mimetiche impressionanti e oselle ai migliori travestimenti da destinare ex aequo alla Condoleeza di un’avvizzitissima Thandie Newton (sì, proprio la bellissima di ‘L’Assedio’) e all’incredibile Dick Cheney di Richard Dreyfuss, icona spielberghiana trasformata in una sorta di mefistofelico Fagin. Notevole.

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About a (Ball)boy

Allora, è uscito da un po’ questo benedetto nuovo album dei Ballboy e, come da copione, nessuno se lo è filato. Non che si dovesse celebrare una band che ha da sempre scelto di essere schiva sino all’inverosimile, ma almeno che qualcuno ne parlasse: Pitchfork e simili non li hanno mai cagati, da noi nemmeno i fanatici tuttologi di or li hanno degnati di una briciola di attenzione, niente.

Forse sono io a considerarli oltre misura, ma i Ballboy mi sembrano un gruppo importante, quasi unico nel suo genere (ovvero figli dei Belle&Sebastian ma con un proprio percorso stilistico ben definito e, cosa più importante, chiaramente distinto dal modello). Non è nulla di stratosferico ‘I Worked On The Ships’, non ha lo sfacciato menefreghismo dei primi due dischi di Gordon McIntyre, ‘Guide For The Daylight Hours’ e ‘Club Anthems’, non ha quella veste elettrica, quel sapore tra il cinico e il nichilista che te li faceva amare immediatamente. Sa anche un po’ meno di Smiths, purtroppo, anche se negli anfratti di queste pacatissime ballate si respira ancora una bella aria Morrisseyana. Però se si sono apprezzati quei dischi si apprezzerà anche questo che ne è quasi la naturale evoluzione.

Lo ascolto e capisco forse il perché di questa dimenticanza. Un disco così non può piacere, se ci fermiamo al gusto comune, all’idea imperante e banallissima di indie-rock. Non è affatto un album indie-rock, allora. Come potrebbe, quando raccoglie una manciata di canzoni à la ‘The Sash My Father Wore’ ma le colora con quel po’ di candore buono (ma non buonista), rallentandole magari, colmandole di un bell’incanto che le rende ora autunnali ora invernali. Tanto calore, calore di cantuccio mentre fuori c’è la brina, mentre fuori piove o la sera si perde nella foschia. Dentro si sta bene, al sicuro, in un ambiente confortevole che si ritrova uguale a come lo si era lasciato.

‘The Guide To The Short Wave Radio’ è il paradigma perfetto di una canzone dei Ballboy, umanissima e romantica. Poi la dolcezza mirabile di ‘Songs For Kylie’ e un po’ di sano ritorno alla scapigliatura, con ‘Picture Show’, ‘We Can Leap Buildings And Rivers, But Really We Just Wanna Fly’ e ‘Cicily’, un pezzo meravigliosamente croccante. L’ukulele di ‘Disney Ice Parade’, Quella sorta di ‘Avant Garde Music Revisited’ che porta l’assurdo titolo di “Gozzilla contro l’isola di Manhattan (con te e me da qualche parte nel mezzo)”  la scarna ‘Absent Friend’ e la malinconia rubata ai Tindersticks di ‘Empty Throat’ sono prove affidabili della discreta varietà offerta dall’album. Da applausi quel riassunto perfetto di una poetica che è ‘A Relatively Famous Victory’. Alla fine vi resteranno in testa le parole di quell’altra dolcissima canzone che rivendica e ripete all’infinito il proprio elogio dell’indipendenza: “You’re walking home / And you’re on your own / And your mobile phone / Has / No / News / At / All“.

 

 

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A proposito di Giant Sand

     

Si avvicina per me l’inizio della nuova stagione di concerti e i Giant Sand saranno il primo tassello importante. Dopo un aperitivo a base di Carla Bozulich nelle nuove vesti di Evangelista, in quel posto a me sconosciuto che è lo United Club, arriveranno loro tra dieci giorni esatti. Un’attesa dapprima molto tiepida che è cresciuta con l’andar dei giorni, primo perché non vedo l’ora di tuffarmi nuovamente nei concerti che ritengo giusti per il sottoscritto, secondo per vedere come se la cava dal vivo una band da cui mi aspetto parecchio, terzo per capire la resa dal vivo delle fascinose canzoni di ‘ProVISIONS’. E poi, naturalmente, per fotografare quella faccia pazzesca di Howe Gelb, metà Vincent Price e metà Macchianera, uno che riconosceresti sempre anche dopo un incontro sfuggente.

Quando il disco è uscito l’ho buttato un po’ da parte, dopo averlo degnato giusto di un ascolto distratto e fugace. Alla fine dell’anno passato l’ho ripreso per prepararmi decentemente al concerto e devo ammettere che è stato un peccato quel trattamento sbrigativo. Liberando il campo da vani giri di parole e stanchi ricami descrittivi, dirò per prima cosa che si tratta di un lavoro buono, molto buono, migliore – per citarne uno con più di un’affinità con questo – di quello nuovo dei Calexico. Per nulla vaporoso come molte cose della discografia di Gelb, decisamente ben calibrato, tutto giocato su atmosfere e velature malinconiche che restano impresse, conquistano. Riducendo al minimo lo spazio per le divagazioni e le perdite di tempo, aprendo ancora felici chiazze elettriche come nel finale di ‘Well Enough Alone’, anello di congiunzione mirabile con il precedente ‘Is All Over…The Map’. D’altro canto la band è sempre quella, un manipolo di danesi non meno innamorati degli States dei conterranei Raveonettes. Meno deserto questa volta, meno Tucson e più New York allora: sarà, ma dovunque si sposta il signor Gelb convince, se l’ispirazione e le motivazioni sono quelle giuste. E’ questo il caso. Speriamo che capiti anche dalle nostre parti, tra gennaio e febbraio. Per un resoconto della trasposizione live si attendono quindi positivi riscontri.

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