Month: novembre 2010

Realism

 

Tempo di bilanci con la fine dell'anno. In attesa di buttare giù una classifica sommaria con i miei migliori dischi, recupero l'ultimo Magnetic Fields a quasi un anno dall'uscita. Improbabile rientri in posizioni alte pur essendomi piaciuto abbastanza, ma una considerazione di rilievo la strappa ugualmente. Tra gli album usciti in questo faticoso 2010, 'Realism' è con ogni probabilità uno dei più sottostimati, forse anche dei meno compresi (meglio, dei più equivocati). A suo discredito ha giocato senza dubbio un ampio ventaglio di fattori, dall'ossessivo doping concettuale del suo autore al fatto di essere arrivato troppo presto nei negozi, oltretutto dopo un'opera che aveva invece goduto di eccessivi apprezzamenti da parte della critica. Non per vantarmi di fantomatiche doti da veggente, di certo non comprese nell'esigua schiera di qualità che posso riconoscermi con qualche slancio di puro ottimismo, ma a gennaio avevo avuto sentore che la tendenza nei confronti del disco fosse questa. Nel primo pezzo scritto quest'anno per Monthlymusic avevo scelto di puntare un riflettore interessato su Merritt e la sua delicata psicologia di creativo contrastato, in perenne lotta per l'automiglioramento e condannato alla fame di riscontri positivi. La rinnovata competizione con un monumento come '69 Love Songs' rimane un dato di fatto incontrovertibile, così come l'impossibilità di uscire vincitori da sfide impossibili come questa. Il vero problema di Merritt è non averlo capito, o, forse, non aver saputo dire basta ai pretestuosi schematismi cui si aggrappa ogni volta che scrive un disco. In questo senso non solo quell'immane capolavoro resta irraggiungibile, ma anche alcuni dei primi scintillanti lavori usciti a marchio Magnetic Fields (due per tutti, entrambi del '94: 'The Charm of the Highway Strip' e 'Holiday') sembrano destinati a risultare inarrivabili. Parlare di "drastico calo di creatività" o di "esaurimento di buone idee" mi sembra tuttavia ingeneroso, perché Merritt non ha mai smesso di dimostrare di essere uno straordinario songwriter. Anche in quest'ultima fatica ad esempio le buone trovate non mancano, e bisogna essere miopi per non riconoscerlo. Se per il precedente 'Distortion' aveva fatto buon gioco il ricorso ad un noise-pop (che è sempre discretamente di moda) massivamente impiegato, come a voler mascherare un generale appannamento, questa volta non ha pagato il ricorso a sonorità evidentemente ritenute molto meno cool da chi tende a lasciarsi influenzare da simili dettagli, nonostante il materiale a disposizione fosse generalmente migliore. Gli arrangiamenti sono tra i più ricchi e sfarzosi dell'intero repertorio Magnetic Fields, fin troppo forse. Ma le qualità migliori di Stephin lavorano tutte per rendere il più trascurabile possibile questa tendenza al ridondante. La scrittura pop del cantante di Boston è in forma smagliante, probabilmente la migliore da dieci anni a questa parte, e diverse perle easy listening lasciano chiaramente il segno. Di per contro anche queste nuove canzoni tendono a risentire della pesante infelicità del perfezionista che le ha scritte, del suo schermo di inguaribile decadente che maschera e raffredda la vitalità dei sentimenti. Nelle intenzioni di Merritt 'Realism' e 'Distortion' dovevano offrirsi all'ascoltatore come facce contrapposte di una stessa medaglia, il vero ed il falso applicati alla superficie sonora, ma è abbastanza chiaro che entrambe le opere hanno finito col tradire un senso di finzione evidente. Là l'artificio era il vestito posticcio riservato senza alcuna distinzione a tutti i brani, snaturandoli anziché nobilitarli con i (fin troppo evidenti) richiami a Jesus & Mary Chain e affini. Qui la falsificazione opera in termini più sottili ma non meno invasivi, coinvolgendo tanto le parti vocali quanto l'insistito cortocircuito tra ampollosità sonora e crudezza dei testi, affogando la pretesa di veridicità in una diffusa atmosfera fiabesca che è fuori del tempo come poche altre cose. Non che questo non lasci spazio a risvolti intriganti, anzi, di certi passaggi e della loro artificiosità ci si può innamorare, sono il primo a riconoscerlo e a rivendicarlo. Ma il velo della maniera, inesorabile e limitante, resta un elemento con cui Merritt e i suoi aficionados devono per forza fare i conti. Ancora una volta dunque molta qualità viziata in partenza, l'eccellente mestiere di creatore, paroliere ed arrangiatore, reso in parte vano dal bisogno di lasciare ancora troppo campo al fantasma della propria mania. Di fatto, un altro buon disco ed insieme un'altra occasione mancata.  

0 comment

Jonathan Richman @ Spazio211

27/10/2010 _ Il nostro (altro) concerto

 

"Non perfetto, mi arrangio”. Umiltà ed ironia come armi irresistibili, oltre ad un incomparabile bagaglio di trucchi mimici, siparietti improvvisati e tanta buona arte dell’intrattenimento. Non immaginavo che il menestrello gentiluomo Jonathan Richman, cinquantanovenne che si direbbe ormai arrivato da un pezzo, fosse un tale pozzo di sorprese e calore, ma artisti senza maschere come lui sono tra i pochi a saper gestire i propri spettacoli come autentici spezzoni di vita, confondendo il piano espressivo e quello esistenziale senza lasciare mai facili coordinate allo spettatore. E’ questo a lasciare stupefatti e piacevolmente spiazzati, la genuina follia di un cantautore fuori dagli schemi come pochi altri perché sincero come nessun’altro. Non sapevo che questo suo nuovo tour, ad un anno appena dall’ultimo passaggio italiano, servisse in teoria a promuovere una nuova fatica discografica, ‘Oh Moon, Queen of Night on Earth’. L’ho scoperto soltanto qualche giorno dopo, cercando tramite la rete di dare un nome a qualcuno dei brani inediti sentiti al concerto. Lui in tutta la serata non ne ha fatto menzione neanche una volta, e questo la dice lunga. Gli album di Richman hanno ormai un’importanza assai relativa, non occorre molto per accorgersene. Pur suonati benissimo, restano trascurabili come istantanee, garbati ma senza grandi lampi, sostanzialmente sovrapponibili ad una stessa matrice riproposta senza variazioni di rilievo da tanti anni a questa parte. Non sono i dischi a contare, non fanno la differenza per gradevoli che possano suonare. E’ lui soltanto a rendere uniche queste canzoni, è la loro svalvolatissima interpretazione dal vivo. Ho dovuto attendere l’inizio di questo prezioso live torinese a Spazio per arrivare a comprenderlo, ma un indizio importante avrebbe dovuto mettermi sulla strada giusta già qualche minuto prima: il pubblico. Aspettavo un pugno di spettatori, per lo più brizzolati, ed il livello di sale e pepe sulle teste degli astanti ha confermato la bontà della previsione. Del tutto fuori strada è stata invece l’intuizione sul dato quantitativo: con 2-300 presenti ravvisabili ad occhio con incredula panoramica sul locale prima del via, siamo andati ben al di là del più roseo preventivo della vigilia, superando con ogni probabilità anche il numero di biglietti venduti due sere dopo all’assai più hypato doppio appuntamento con No Age e Abe Vigoda. In pratica non immaginavo che esistesse un culto tanto vivo ed affettuoso nei confronti dell’ex leader dei Modern Lovers, ma sono bastati cinque minuti scarsi per comprenderne la pur incredibile ragione. Jonathan è un ometto alla mano. Il volto percorso da rughe in lungo e in largo, il pizzetto grigio, gli occhi vispi ma tristi di chi ne ha viste di tutti i colori. Nonostante l’aspetto alquanto compassato, è un entusiasta per natura. Un tipo curioso che ama mettere in piazza la sua ingenuità fanciullesca e condividerla con i fan, un piccolo esercito che evidentemente gli si è sempre dimostrato legatissimo. Accompagnato dal fido Tommy Larkins, armato di una semplicissima chitarra classica (non elettrificata) oltre a qualche sonaglio e vestito con una buffa camicia da ballerino di Flamenco, il cantante di Boston si è lanciato immediatamente, dopo gli applausi di benvenuto, in una liberissima performance lunga l’intero concerto, una sorta di ininterrotta serenata e nel contempo farsa, balletto, improvvisazione letteraria. Un mix semplicemente incredibile, difficile anche solo da raccontare vista l’insolita inclinazione spettacolare dell’evento, gestito con fantasia ed umorismo dall’arguto musicista ed orientato alla dialettica aperta con il pubblico, nel modo più spontaneo che vi riesca di immaginare. A suo modo Richman è un animale da palcoscenico, i suoi estimatori lo sanno. Ve n’erano molti, a ridosso del palco, che hanno seguito in prima linea i suoi concerti cittadini dei primi anni ’80. Lo hanno incalzato ricordandogli il Big Club o lo Studio Due, raccogliendo da lui conferme sui begli anni che furono, ma anche una risoluta presa di distanza: “il passato non deve incatenarci”.

 

Sarà per questa rigidità malinconica nei confronti della sua età dell’oro che Richman ha voluto subito chiarire di non essere venuto per riproporre una stanca replica del leggendario Ice Cream Man. Atteggiamento franco ma onesto da parte sua, condivisibile nonostante la delusione per l’assenza di tutti i favolosi pezzi di quel remotissimo esordio, ‘The Modern Lovers’, 1976. Al di là di questo, lo show è stato comunque generoso e godibilissimo. Poteva essere ostica l’impostazione frammentaria conferita allo spettacolo, con pezzi avviati ed interrotti, variati in corsa con testi del tutto nuovi, spezzettati da parentesi danzanti o teatrali ed affogati, soprattutto, in un’orgia irresistibile di ciance, parole su parole (solo apparentemente) a vanvera. Gli si perdona tutto comunque. Richman suona da Dio. A tratti sembrava ricordarsene, allora ha incantato con la sua chitarra e per alleggerire si è preso in un po' in giro – “Non perfetto, mi arrangio” – chiamando la risposta del pubblico. Si è lasciato andare, molto volentieri, discorrendo di Torino, di mass media, di Slow Food, dell’Italia e della Francia, di Boston e della pazzia contemporanea. In certi passaggi era così coinvolto e infervorato dai suoi spettatori al punto di dimenticarsi per qualche attimo di cantare o suonare davanti al microfono, con quelle note che si facevano spazio a fatica per arrivare comunque alle nostre orecchie. Si è fatto sostenere di continuo dai fan, specie nella contagiosa (e maccheronicamente reinventata) versione di ‘Così Veloce’, a dir poco irresistibile come collezione di frammenti nonsense in italiano, amaramente sensati ed attuali ad essere sinceri. Ho parlato di “italiano” ed in effetti il fattore linguistico nei concerti di Richman meriterebbe una ampia trattazione a parte. Per farla breve dirò soltanto che di inglese ne abbiamo sentito abbastanza poco, almeno al di là delle canzoni. Per rivolgersi agli spettatori nel botta e risposta come nei suoi strampalati monologhi, Jonathan si è affidato ad un italiano imbastardito dallo spagnolo e dal francese ma alquanto ricco in quanto a vocabolario, sorprendendo a più riprese per l’uso di termini complessi e persino desueti della nostra lingua, prontamente accompagnati dall’immancabile “non perfetto, mi arrangio” che è valso come autoritratto poetico per eccellenza oltreché come limpida dichiarazione d’intenti. Nel venire travolto da questo bislacco carnevale idiomatico mi è venuto subito in mente il personaggio di frate Salvatore ne ‘Il Nome della rosa’, che “parla tutte le lingue, e non ne parla alcuna”. Questa variegata messe di stimoli ha accentuato la vivacità di una performance assolutamente su di giri dal primo all’ultimo minuto, tra sketch ritmici affidati all’imperdibile Larkins ed una ninna nanna di commiato proveniente dall’Iran. La scaletta in fin dei conti, considerata anche l’assenza del vecchio repertorio, è stata assolutamente secondaria come dettaglio. Quella da me riportata in coda, abbastanza facile da ricostruire (le canzoni di Jonathan si ricordano dopo un solo ascolto), con ogni probabilità non è neppure completa. Se i momenti più divertenti sono stati quelli in spagnolo e in italiano (anche seri in realtà, vedi la sempre apprezzabile ‘In Che Mondo Viviamo’), un paio di inediti si sono rivelati chicche assolute (‘If You Want To Leave Our Party, Just Go’ – per lo più recitata – oltre ad una ‘Keith Richards’ dedicata al chitarrista omonimo ed infarcita di estemporanei innesti di marca Stones) mentre prove di classe sono arrivate nell’unica parentesi in francese (‘Le Printemps Des Amoreux Est Venue’) e soprattutto con alcuni classici recenti di straordinaria intensità, uno per tutti ‘Not So Much To Be Loved As To Love’, meravigliosa. Imperdibile Richman, veramente artista a tutto tondo. Pensare che lui e Larkins hanno accompagnato Vic Chesnutt nel suo disco testamento, quello ‘Skitter On Take Off’ così distante dalla positiva leggerezza di questa serata ma non meno autentico, aiuta a comprendere perché Jonathan gode ancora oggi di così tanta stima tra i colleghi cantautori come tra i fedelissimi aficionados. Forse perché come la vita non è perfetto, ma sa sempre come arrangiarsi.

Scaletta: 'In Che Mondo Viviamo', 'Oh Moon, Queen of Night on Earth', 'Springtime in New York', 'Because Her Beauty Is Raw and Wild', 'Dancing in the Moonlight', 'Così Veloce', 'No One Was Like Vermeer', 'Not So Much To Be Loved As To Love', 'Es Como El Pan', 'Le Printemps Des Amoreux Est Venue', 'A Qué Venimos Sino A Caer?', 'Let Her Go Into The Darkness', 'Keith Richards', 'If You Want To Leave Our Party Just Go', 'These Bodies That Came To Cavort'.
 

0 comment

Embryonic

 

“Questo non è un album”, farebbe scrivere Magritte in calce alla copertina. Direbbe il falso ovviamente, ben sapendo di avere ragione. ‘Embryonic’ non è un album, è la liberta assoluta di fare musica. Rubando al sessantotto e a Marcuse una formula ormai logora, lo si potrebbe definire con una certa pertinenza “l’immaginazione al potere”. Questo non è un concetto che ho riportato nel pezzo dedicatogli, ma solo perché in quel caso ho preferito non soffermarmi affatto sul disco. ‘Embryonic’ non è un album di cui si possa scrivere come di qualunque altro, vivisezionandolo, azzardando paragoni con questo o quell’artista, riportando meccanicamente esiti di scansioni stilistiche spesso campate per aria. Per il nuovo Flaming Lips il giochino del bravo recensore lascia il tempo che trova, non solo (o non tanto) perché di un lavoro tutt’altro che agevole si tratta, ma proprio perché le parole suonano dannatamente superflue. Per la prima ed unica volta, quindi, mi sono mosso in linea con i dettami di Monthlymusic.it, regole narrative che posso comprendere ma non ho mai condiviso: la scrittura libera è una palestra fantastica, uno sfogo eccellente che è sempre bene essere in grado di coltivare, anche se rimane campo per esercizi un po’ sterili quando sceglie di sfruttare la musica come mero pretesto. E’ un’opinione personale, chi gestisce quel sito la conosce e – devo dire – mi ha sempre lasciato la licenza di operare al di fuori di quella norma, con estrema autonomia. Una indipendenza che, nel rarissimo episodio di cui sto dando testimonianza, mi ha consentito di adeguarmi a quello stesso schema appena criticato e di servirmene. Non è una questione di incoerenza, anche se mi tocca ammettere di aver ceduto al compromesso. Ho scelto di parlare in questo modo di ‘Embryonic’ perché in un certo senso è stato il disco stesso ad impormelo. Limitarmi ad un elenco di semplici notazioni formali sarebbe stato poco consono ad un album che di studiato a tavolino ha davvero molto poco. Ho ascoltato svariate volte quelle che si fa fatica a definire canzoni, almeno nel senso canonico del termine, quindi ho dato mandato alla fantasia di abbozzare una sceneggiatura immaginaria per la pellicola appena visualizzata nella mia testa. Lavoro insolito per me, un po’ come costruire un film partendo dalla colonna sonora e non viceversa (mi viene in mente ‘Yellow Submarine’ comunque, a confortarmi, ma anche per i videoclip vale lo stesso principio). Aggrappandomi alle sonorità più utilizzate da Coyne e soci in questo lavoro (come in altri precedenti) è nato quasi automaticamente un richiamo allo spazio. L’idea del viaggio, vero filo conduttore della vicenda, mi è parsa ideale per dare sostanza narrativa al pezzo, mentre i costanti accenni ad una psichedelia assai variegata per forme e sviluppi mi hanno come invitato a lasciare un’allusione alla parallela sfera dell’inconscio, del ricordo, di un passato terrestre che potrebbe coincidere con il futuro sognato dal protagonista. Le immagini evocate, naturalmente, corrispondono a determinati risvolti sul piano musicale, magari ai titoli delle canzoni (vedi l’ovvia “danza delle costellazioni”) oppure palesano qualche assonanza rilevata nei confronti di altri lavori della band (quell’autunnale “ribellione cosmica” è una citazione sin troppo scoperta). In parole povere ho operato con la stessa libertà che ‘Embryonic’ mi suggeriva, partendo da una base di riferimenti tangibili ma muovendomi poi guidato dal piacere delle associazioni disinvolte, dell’improvvisazione, dello scrivere per gusto e niente più. Se ancora non avete ascoltato il disco in questione (e magari siete tra i pochi a non conoscere quei pazzi dei Flaming Lips), non cercate da me indicazioni precise in proposito perché non sono disposto a fornirvele, almeno per una volta. Mi limito a dirvi che ‘Powerless’, ‘Convinced of The Hex’ e ‘Watching The Planets’ – davvero ideale come conclusione – sono i brani che preferisco. Magari la troverete tutta fuffa trash senza capo né coda, pretenzioso onanismo noise o scaltra presa per i fondelli nei confronti di qualche fan (mentalmente) in disarmo come il sottoscritto. Può darsi sia così. In ogni caso, provate ad ascoltarlo e avisualizzare il vostro personalissimo film. Buona visione.

0 comment

Black Heart Procession @ Spazio211
18-05-2010

 

Ancora Black Heart Procession. La settimana live più intensa di tutto l'anno, quella che ha visto collassare le mie orecchie al cospetto dei vandali giapponesi Acid Mother Temple, che ha registrato una trasferta felsinea per i miei adorati Quasi ed una capitolina per i riassemblati Pavement, è iniziata un martedì sera sotto la palla frangiluce di Spazio, in uno di quegli appuntamenti vanamente attesi per dieci anni almeno. Come ho scritto nel report , l'occasione mi si era presentata solo pochi mesi prima, con una trasfertina invernale a Milano che però non si è fatta, e meno male. E' evidente che Pall Jenkins ama la terra dei suoi avi, perché non si spiegherebbero altrimenti l'immediato ripresentarsi di un tour in Italia ed il relativo soggiorno in Sicilia raccontatoci da Agghiastru, grande fan del gruppo di San Diego. Parimenti è indubbio che Pall e Tobias abbiano creduto molto in questa loro recente creatura, 'Six', da me accolta abbastanza tiepidamente e poi via via riabilitata (come ho scritto ampiamente proprio su queste pagine). Lo show al 211 si è rivelato in linea con le aspettative, bello per la sua semplicità ma non esaltante, a parte alcuni episodi emotivamente più intensi o trascinanti. La band si è presentata in una formazione di grande sostanza, con i due veterani supportati da una sezione ritmica di valido impatto ma senza l'apporto di archi o altri ornamenti. Questo ha chiaramente orientato l'esibizione verso la polpa rock del disco recente, rivitalizzato in versioni tutto sommato sobrie ma efficaci (tipo una ottima 'Release My Heart'), lasciando qua e la spazio all'ammaliante griffe dei classici più notturni, specie in quei frangenti "confidenziali" in cui Jenkins e Nathaniel hanno suonato da soli, voce, piano e sega (regalando perle come 'The Waiter #2'). Si è intravista peraltro anche quella prodigiosa franchezza pop ('Rats'), la puntualità di un songwriting essenziale e quadrato, che i due leader hanno da poco sfoderato in 'The Inevitable Past Is The Future Forgotten', incoraggiante riesumazione di studio per i Three Mile Pilot dopo tredici anni di pausa: la riprova che il parziale ritorno alle origini di 'Six' e dei relativi tour promozionali ha giovato, in termini di stimoli e di idee, anche a quel non trascurabile side project. Tornando al concerto c'é da aggiungere che la scaletta era migliorabile, senza dubbio, ma sono stati sufficienti la festa elettrica di 'Tropics of Love', il calore di 'Square Heart' e la toccante sincerità di una 'Drugs' spogliata di tutti gli inutili orpelli a decretare il pollice su, per il sottoscritto. Una piccola nota di merito la voglio infine dedicare ai Grimoon, la promettente compagine franco-italiana che ha avuto il compito di aprire la serata. Niente male: tanta carineria mai fine a se stessa ed un filotto di deliziose intuizioni color pastello.

0 comment