Musica d’altri tempi, oggi

 

Revivalismo folk. Il termine ed il relativo movimento sono stati talmente citati negli ultimi anni che forse anche l’idea di ‘revival del revival’, di cui avrebbe più senso parlare, pare non avere più corso legale. Le mode, si sa, hanno valori e consistenze effimeri, per cui è sempre bene accoglierle con la dovuta diffidenza. E pur vero però che se dei Fleet Foxes – come di tutti gli altri articoli da “riflettori ben puntati” – ci si sta dimenticando relativamente in fretta, non sono certo svanite tutte quelle fertili scintille che da parecchi anni si alimentano nell’ombra del sottobosco indipendente, su una sponda dell’atlantico come sull’altra. Naturalmente i meno accesi tra gli appassionati di queste sonorità, quelli attratti magari dai suoni curatissimi dell’artista eletto dell’ultim’ora, farebbero bene a non sprecare il loro tempo con i più puri e testardi rappresentanti di un genere ormai anacronistico. Lo scrivo con una certa franchezza elitaria, a mo’ di provocazione. In realtà non ritengo che quello dedicato ai dischi di un David Colohan – visto che è di lui che si sta parlando – sia tempo buttato via, niente affatto. Solo ci va la giusta pazienza, una qualità che gli ascolti frammentari e convulsi (di cui siamo tutti un po’ vittime) non aiutano certo a coltivare. Al di là di una premessa quanto mai necessaria, non trattandosi di musica per tutti i gusti, ci tenevo a spendere queste parole e ad abbozzare un confronto tra universi tanto distanti, perché quello di Colohan è revivalismo folk autentico, non alterato dal doping discografico né viziato dall’autocompiacimento. Se nel suo più noto (parola grossa, vabbé) progetto solista, quello che risponde al nome di Agitated Radio Pilot, il songwriter di Ballymahon ha provato ad aprire la tradizione verso soluzioni più sperimentali (con esiti convincenti, vedi lo splendido ‘World Winding Down’ e non solo), se alla guida degli United Bible Studies ha cercato la corruzione della psichedelia al suo folk trasfigurato, nei Magickal Folk Of The Faraway Tree ha provato invece a seguire tutt’altro percorso, studiando in maniera maniacale il canzoniere di traditional inglesi ed irlandesi raccolti dal musicologo Peter Kennedy (citato al primo posto tra le influenze del gruppo sulla sua pagina Myspace) ed assimilando a tal punto la lezione da scrivere le proprie canzoni sulla falsariga di motivi e musiche ormai fuori dal tempo. Il risultato di tanta fatica è una raccolta monumentale intitolata ‘The Soup & The Shilling’, utilissima per inquadrare tutto il lavoro del cantautore in questo ambito forse meno accessibile ma ugualmente interessante. In un doppio LP Colohan e i suoi compagni d’avventura presentano quanto prodotto dal 2003 ad oggi in chiave di rilettura e riarrangiamento dei classici, l’album ‘The Mildew Leaf’ ed il corposo EP ‘The Cat’s Melodeon’, oltre ad una ricca selezione di inediti del bardo irlandese che replicano nella sostanza il medesimo spirito e lo schietto taglio amatoriale dei rifacimenti più datati. Nei numerosi pezzi in lingua gaelica come nelle composizioni in inglese, Colohan mantiene uno stile disadorno, frammentario ma appassionato, un approccio di prodigiosa essenzialità refrattario all’attrattiva di qualsivoglia elaborazione produttiva, come a non voler tradire il fascino arcano e la purezza del materiale da lui rimusicato. L’impressione, ascoltando brani scarni e tardo autunnali come ‘She Was My Rum One’ o ‘Daybreak’, è quella di alberi spogli (cantato austero, spartane linee di banjo) su cui poco per volta compaiono germogli (la voce femminile, il flauto) che conferiscono colore e dolcezza sin quasi a fiorire sui refrain. A seconda dei gusti e dell’umore, l’afflato traditional di una ‘Spencer The Rover’ potrà suonare entusiasmante o tedioso: di certo è difficile immaginare qualcosa di meno cool di questo cantilenare reiterato e fragilissimo, capace comunque di scaldare il cuore e conficcarsi nella testa. Sono poco più che istantanee le canzoni di ‘The Soup & The Shilling’, si limitano a suggerire una sfumatura emotiva, uno stato d’animo, senza curarsi di cercare per forza qualcosa di più articolato o culturalmente ricercato. Lo sguardo è orientato a riproporre la tranquilla poetica agreste del folk del passato remoto, la pace e la purezza insite nelle tonalità bucoliche – ora oscure, ora ariose – tipiche di determinati strumenti e sonorità. Certo una simile forma di cantautorato retrò non può che uscire corroborata quando sposa la prospettiva di un rigore solipsistico assoluto, velandosi d’una malinconia mai cinica (perché non gioca ricatti all’ascoltatore) e aprendosi occasionalmente a forme espressive più partecipate come i duetti: canzone popolare e canzone d’autore ad un tempo, intimista ma non pedante, esile ma non debole, aggraziata ma risoluta. Come una brezza al tramonto, viene e va. Specie nella prima parte prevalgono il registro della filastrocca (‘Two Corbies’, ‘Blackbird and Thrushes’) ed il bozzettismo, quello che in genere è considerato brutta copia, first tape. Banditi i belletti e le rifiniture si prende l’immediatezza del canto, pure in un’estemporanea sea shanty come ‘The Marmaid’. I risultati possono essere notevoli anche in lavori di genere come questo, ‘Trelawny’ ne è una più che valida dimostrazione: un cantato quanto mai carico, la cui enfasi affonda direttamente nella tradizione, un banjo che insiste a definire le sue sobrie trame, un bouzouki che si dedica ai ricami in sottofondo ed un flauto che regala un tono ancestrale insieme ai cori. In questo ricco quadro c’è comunque spazio per momenti di maggior grazia e fluidità, per parentesi di intensa spensieratezza (gli aromi gradevolissimi di ‘The Cat’s Melodeon’, la schiettezza solare di ‘Here’s a Health For all True Lovers’) che ampiano lo spettro di soluzioni offerte smentendo i detrattori di tanta intransigenza formale. Non fosse sufficiente, si può aggiungere che saltuariamente l’alone di revival irish viene meno, rimpiazzato da echi calorosi di folk nordamericano (‘Time To go Home’) o da una flemma più sofferta (‘Being Here Has Caused My Sorrow’) che allo stesso modo potrebbe piacere anche al di là dell’Atlantico. Un piccolo diversivo in una raccolta altrimenti coerente, assimilabile (pur in un contesto di più accentuato pauperismo) per disciplina all’esperienze appalachiane della Language of Stone e alla nuova scuola scozzese dei King Creosote, dei James Yorkston e degli Alasdair Roberts. La conferma che, un po’ ovunque, il passato può essere egregiamente riscritto.
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