Pavement @ Atlantico, Roma
24-05-2010

 

Piaccia o meno, il 2010 sarà ricordato, in fatto di musica alternativa, come l’anno del ritorno in scena dei Pavement. In dodici mesi caratterizzati da una sconfortante carenza di lampi veri, la raccolta retrospettiva ‘Quarantine The Past’ (pur frutto di scelte compilative abbastanza discutibili) avrebbe in sé tutti gli ingredienti per sbaragliare una sì fiacca concorrenza, se solo si trattasse di un disco di inediti. L’album doveva valere come stuzzichino in previsione del lunghissimo tour che ha riportato la band di Stockton in giro per i palchi di mezzo mondo. Tutto questo – uscita preventiva e carrozzone live – ha funzionato alla perfezione. Eppure non si può essere del tutto soddisfatti. Oddìo, vivendola con leggerezza e superficialità avrei potuto scriverne esclusivamente in termini lusinghieri. Avessi vent’anni o giù di lì credo l’avrei fatto, perché lo spirito giusto da adolescenti è quello ed il fatto di aver trovato all’Atlantico live un grandissimo numero di ragazzini è stato incoraggiante, molto positivo. Passati i trenta tuttavia, avendo comunque vissuto almeno di striscio i Pavement pre-scioglimento, un minimo di disincanto era pur prevedibile. Per questo nel report del concerto romano (immortalato purtroppo solo da fotografie della mia compatta, off limits tutte le reflex) ho voluto partire dall’idea di bolla in cui il pubblico è stato avvolto, sorta di velo d’illusione che per un paio di ore è riuscito ad annebbiare la mente dei presenti tenendo sotto scacco – meglio, sotto ricatto – le emozioni. Per me almeno è stato così. Certo non ho mancato di dare ampio risalto ai molteplici aspetti positivi della loro esibizione e dell’intera serata, dell’atmosfera, del coinvolgimento profondo degli spettatori. Però non posso evitare di ripensare a quello show, adesso come a caldo, con una certa freddezza. Ho scritto che i Pavement non hanno tradito i Pavement, il ché è inconfutabilmente vero. Non si sono persi in pose da divi, in sterili atteggiamenti autocelebrativi, hanno rispolverato e rimesso in scena loro stessi, senza sostanziali variazioni sul tema. Un bel rosario di hit da battaglia, fotografia degli anni d’oro di un genere, della sua belle epoque. Il tutto con fare ordinario, da monelli scapestrati di una volta, con l’unica finalità apparente nel divertimento condiviso. Forse. Beh, diciamo “anche”, si spera. Tutti gli indizi sembrano orientare i ragionamenti in questa direzione: la scenografia sobria, una sceneggiatura senza fronzoli, la genuinità con cui ci si sono presentati, spelacchiati ed imbolsiti ma anche commoventi. Tutti gli indizi tranne uno, in realtà. L’insistenza con cui hanno puntato – sono stati costretti forse – a replicare il passato senza aggiungere nulla di nuovo. Il presentarsi come congelati in un 1994 che è ormai così remoto da essere solo un ricordo pallidissimo, almeno per quelli come me. Non ha giovato. Non ha permesso di andare al di là della classica operazione nostalgia (anche non volendo considerare come rilevante, recitando la parte degli ingenui, il lato economico dell’operazione), buona solo quando la si vive ed in fondo fine a se stessa. Non ha consentito di elaborare un giudizio completo ed attendibile sul loro attuale stato di salute creativa, né di liberare completamente l’entusiasmo, cosa sin quasi necessaria considerato uno scenario emotivo prossimo alla perfezione. Per quello, forse, valga la speranza espressa in coda alla cronaca dell’evento: che gli stimoli a tal punto evidenti, presumibilmente non simulati dai cinque californiani, siano convogliati al più presto in un nuovo progetto condiviso, in nuove canzoni e in nuovo tour. In un nuovo presente, in pratica. E’ chiedere troppo? Magari i prossimi mesi ci regaleranno una risposta apprezzabile in tal senso e sarà quello il momento per fare festa, finalmente.

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