On Hiatus

Pausa di riflessione in un periodo ricco di pensieri e preoccupazioni. Il tempo che solitamente dedico alla musica, già scarso di suo, si è ridotto ai minimi storici. Dovendo recuperare alcuni album importanti da poco usciti, preferisco comunque orientare i pochi minuti giornalieri a mia disposizione all’ascolto invece che alla scrittura, lasciando da parte per un po’ le uscite marginali che in genere propongo su queste pagine per spendere qualche parola su questi lavori più “rilevanti”, nella speranza un domani di affrontarli con la dovuta attenzione. Quattro dischi e quattro band americane, sostanzialmente quattro conferme piene. Le vibrazioni migliori sono forse quelle che arrivano da ‘The Golden Archipelago’, la nuova fatica degli Shearwater a meno di due anni dall’uscita di ‘Rook’. Qualitativamente, Jonathan Meiburg riesce ancora una volta ad attestarsi sui suoi standard recenti, dimostrandosi autore versatile ed eccellente alle prese con registri diversi, dalla vena intimistica e sofferta (‘Runners of the Sun’) all’efficacia di uno sguardo sempre attento alle inquietudini (‘An Insular Life’), dalla delicatezza (‘Meridian’, ‘Hidden Lakes’) all’impatto vertiginoso della vitalità e del rumore (‘Black Eyes’ – eccellente traino – ma anche la frenetica ‘Corridors’). Un’opera bella e palpitante come da attese, con la certezza rinnovata che l’uscita di Meiburg dagli Okkervil River sia valsa ai fan lo sdoppiamento di quel cuore creativo in una coppia di formazioni di eccellenza. Il leader degli Shearwater è un fuoriclasse alla stregua di Will Sheff, nessun dubbio a riguardo, e questo album non sarà ‘Palo Santo’ ma poco ci manca. Il respiro, la profondità, la solidità degli arrangiamenti non possono non far parlare di garanzia rinnovata, puntualmente. L’unico elemento discutibile, a questo punto, restano le copertine vagamente new age, sicuramente bruttine perché un po’ fasulle (questa e quella di ‘Rook’). Un peccato veniale comunque.

Restando in Texas, non posso non dire qualcosa su ‘The Courage of Others’, l’album che è valso ai Midlake, fino al giorno della pubblicazione, la palma di gruppo più atteso dell’anno. Vertiginosa la distanza temporale da ‘The Trials of Van Occupanther’, quattro anni quasi eterni considerando quante uscite di rilievo si siano alternate nella medesima mattonella musicale dal 2006 ad oggi (su tutti i Fleet Foxes, almeno in quanto a eco nei circuiti alternativi). Enormi anche le aspettative per questo terzo passo della band di Tim Smith, forse veramente troppo elevate per poter consentire di leggere con la giusta lucidità un cambio di prospettiva in realtà meno radicale di quanto abbiano immaginato (e scritto) i più. E’ un disco che ha spiazzato, questo sì, dividendo la critica tra entusiasti forse eccessivi e detrattori feroci. Mediamente l’accoglienza è stata tiepida, proprio per l’errore di valutazione da cui l’analisi di queste nuove canzoni è parsa viziata in partenza. ‘Van Occupanther’ è stato un grande disco e i Midlake non hanno potuto (forse) né voluto (sicuramente) replicarne l’impatto easy listening, il fascino diretto, l’irresistibile magia pop-folk che tante tracce ha lasciato nel sottobosco indie statunitense. E’ cambiato anche il contesto, questo va detto, ma mi sembra importante non limitarsi ai riferimenti esteriori e al background del gruppo per svelare il limitato appeal che il disco pare aver espresso. ‘Van Occupanther’ va dimenticato e, se possibile, demitizzato. Un’opera emozionante e riuscita, non il capolavoro che ci è stato spacciato o che abbiamo creduto di vedervi. Con questa semplice premessa si può rendere giustizia alla peculiarità e alla natura altra di ‘Courage’, che è un disco bello alla stessa maniera di quello, meno facile e ruffiano, meno efficace, ma più maturo. Il recensore di pitchfork lo ha demolito sulla base di una convinzione secondo me errata, citando (fregandosene) il lavoro fatto da Smith nella rilettura del folk britannico di fine anni ’60, quello anche obliquo e misterioso dei Fairport Convention e dei Pentangle, senza segnalare però come quella rilettura fosse filtrata da una sensibilità yankee in direzione psych folk e come la fattura dei brani sia veramente ottima, sempre. Come ho scritto altrove i Midlake “classici” io ce li sento eccome (in ‘Small Mountain’ per esempio), mi conforta che la band abbia scelto di percorrere una strada diversa senza snaturarsi davvero, facendo propria la prospettiva stilistica di un Greg Weeks o di un Ben Chasny (‘Bring Down’ – strepitosa – valga come emblema) ma rifiutandone a priori gli eccessi più acidi e barocchi, proponendosi con un equilibrio ed una pulizia sonora sufficienti a scongiurare i rischi di caricatura che il sottogenere spesso porta con sé.

‘Teen Dream’, ritorno in pista per i Beach House a meno di due anni da ‘Devotion’, è valso al duo di Baltimora un’inattesa quanto indiscutibile consacrazione. Non è una sorpresa, soprattutto non è così ingiustificato questo risultato. Meno “dream” e più “pop”, una prodigiosa capacità di sintetizzare le proprie linee melodiche in modo da renderle facilmente metabolizzabili per gli ascoltatori meno smaliziati. Una dote, questa, tutt’altro che comune, e che in fondo era intuibile anche nella scrittura più articolata, ovattata e stilosa dei due album usciti per Carpark. A questo giro sarà il benemerito marchio Sub Pop, sarà la semplificazione intelligente delle trame, sarà l’intatto fascino della voce di Victoria Legrand, sia quel che sia, i Beach House dimostrano senza ombra di dubbio di aver saputo creare le perfette condizioni per una loro entusiasmante volata sul traguardo. Pitchfork li ha sempre apprezzati, ora li esalta con la ragion di stato che si deve ai cavalli vincenti, alle promesse sostenute dal primo istante e accompagnate trionfalmente al successo. Personalmente non tutto in ‘Teen Dreams’ mi convince a pieno. Il singolone ‘Norway’ o la nuova versione di ‘Used To Be’ sono abbacinanti e retorici (in termini pop) quanto basta, qualche canzone è meno riuscita e non può certo vantare le virtù della dolce ipnosi che avevano le seconde linee nei primi due album della coppia. Ma un brano come ‘Silver Soul’, straordinario a dir poco, conferma che sotto sotto non ci si è allontanati troppo dalla magia irresistibile di ‘Devotion’ (per il sottoscritto quello resta il capolavoro della band). Validissima in produzione l’enfasi attibuita senza indugi a synth, tastiere e all’organo della Legrand, a conferire al sound spiccate tonalità di pastello, calzanti e per nulla artificiose per quanto indubbiamente orientate a rendere più catchy l’impatto delle nuove canzoni. Un’altra svolta non draconiana ma comunque precisa, importante, a riprova di come oggi si possa fare ottimo easy listening solleticando anche i palati fini del pubblico alternativo. ‘10 Miles stereo’, ‘Zebra’ e ‘Lover of Mine’ – tra le altre – sono qui a confermarcelo.

Due parole, infine, le voglio dedicare anche al meno considerato tra i dischi in questione. ‘Die Stadt Muzikanten’ avrebbe dovuto essere il secondo vero album per i canadesi Woodpigeon, la formidabile band guidata da Mark Hamilton e di cui già ho scritto su questo blog. Il condizionale è necessario, dato che, di fatto, l’album da poco uscito è in realtà il terzo capitolo nell’avventura della numerosa compagnia di Calgary. La fortuna ha voluto che il precedente ‘Treasury Library Canada’ uscisse dai cassetti cui pareva destinato in virtù di logiche distributive e promozionali carbonare. Lo abbiamo intercettato, conosciuto ed amato. In pochi purtroppo hanno potuto godere della nostra stessa opportunità, ma questo è un problema loro. Ora arriva fresco fresco il seguito di quella meravigliosa scoperta ed il risultato non delude. Sulle prime l’ascolto mi ha un po’ spiazzato, devo ammetterlo. Non perché io abbia riscontrato un qualche inopportuno cambio di direzione, che peraltro nemmeno c’é. ‘Die Stadt Muzikanten’ è, tra i quattro nuovi LP citati in questo pezzo, quello che evidenzia una più netta continuità rispetto al passato recente dei suoi autori. A lasciarmi un po’ perplesso erano le canzoni: non le trovavo, molto semplicemente. La pazienza e l’attenzione nell’ascolto hanno rimesso le cose a posto, e questo è accaduto con la massima naturalezza. Un vero piacere far propri i dischi in questa maniera, poco per volta, con scoperte minime, ma ripetute. Ora posso sostenere che al nuovo Woodpigeon manca soltanto l’effetto sorpresa che tanto aveva fatto, nel caso di ‘Treasury Library Canada’. Per il resto la band si conferma come un’anomala ma bellissima realtà folk-pop-rock contemporanea, un gioiellino di gruppo. Nel disco è regalata, con la generosità cui i canadesi ci hanno piacevolmente abituato, tutta la gamma di canzoni della capiente valigia d’artista di Hamilton, un americano con la vocina acidula (alla Brian Molko) che ha studiato in Scozia carpendo il meglio da due distinti mondi musicali. La lunghezza del nuovo album (ma anche del vecchio) può scoraggiare, ma resta innegabile che la lievità prodigiosa di tutte le composizioni sappia compensare egregiamente un limite strutturale che, diciamocelo, non è certo il peggior male del mondo, considerata la qualità. Dalle deliziose e rarefatte folksongs ‘Our Love is as Tall as the Calgary Tower’ e ‘Such a Lucky Girl’ al caloroso jangle-pop di ‘Duck Duck Goose’, dalla grazia fragilissima di ‘Morningside’ agli sfiziosi aromi traditional di ‘Redbeard’ o ai passaggi più accesi e chitarrosi tipo ‘My Denial in Argyle’, il piatto è ricco e soprattutto non stanca. Se il buon anno si vede dall’inverno, beh, sarà un grande 2010.

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