I Figli della Mezzanotte  _Letture

      

Ormai questo cosiddetto blog è diventato un collettore di critiche scritte un po’ qua e un po là, senza più pezzi originali da tirare fuori di tanto in tanto. E’ un peccato, mi rendo conto, ma significa che tutto il mio tempo extra sta andando in recensioni o live report pubblicati comunque, e questo è un bene. Nell’alternanza disco/libro di questa indefessa operazione recupero tocca ora ad un romanzo, e sono contento che si tratti di un signor titolo. Rushdie è un autore spesso criticato, sicuramente controverso, che a detta di molti ha perso da tempo la sua magia. Io non saprei dire se questo sia vero o meno, avendo avuto a che fare esclusivamente con questo che è spesso citato come il suo capolavoro. Una lettura impegnativa ma anche molto stimolante. Per me è stata insolitamente lunga e faticosa, ma non posso dire di non esserne stato ripagato. Spiegarlo in poche parole è impresa ardua e probabilmente vana, anche se io ci ho provato con la disamina che segue. Non certo il libro della vita ma un testo comunque suggestivo e importante. Mentre lo leggevo è uscita nelle sale la sua riduzione cinematografica. Ho provato ad accelerare la lettura per imbastire un confronto tra le due opere ma devo aver fatto tardi, perché la pellicola non era più proiettata in alcun cinema. Troppo lento io, probabilmente, o troppo scarso il film (così ho sentito dire): tra un po’ di tempo, forse, sarò in grado di dare una risposta anche a questo ennesimo, insignificante interrogativo.

In una terra dove “il numero di divinità fa concorrenza a quello degli abitanti”, Saleem Sinai non ha più tempo e deve ancora portare a compimento l’ingrata missione di una sentita, vitale testimonianza. Vuole affidare alla carta memorie e confessioni sulla propria esistenza, intrecciate agli avvenimenti storici cruciali dell’ultimo mezzo secolo del suo paese, l’India, ma tradisce tutto il nervosismo di chi ha una fretta del diavolo, forse per la paura di incorrere nelle lacune tipiche dei suoi connazionali, eterni smemorati. Anche per questo finisce allora per imboccare la strada più impervia, lunga e panoramica, per offrire ai lettori la visione più ampia e dettagliata possibile delle proprie origini e, in parallelo, di quelle della sua patria, riducendo al minimo (solo nelle intenzioni però) il rischio di fuorvianti inesattezze. Non una sola storia quindi bensì una miriade di tracce diverse, “un tale eccesso di linee, eventi, miracoli, luoghi e chiacchiere intrecciati” e con enormi moltitudini di individui costretti “a fare a gomitate e spintoni” dentro di lui. La prende alquanto larga, romanzando la storia d’amore dei propri nonni nella spettacolare cornice del Kashmir per rendere conto dei possibili antefatti ereditari nel proprio corredo umano e caratteriale, tra il rigore assoluto della devota mussulmana “Reverenda Madre” e il rassegnato razionalismo del medico Aadam Aziz. Sullo sfondo gli eccidi perpetrati dalla potenza coloniale inglese ormai in declino, ma anche i conflitti interreligiosi e sociali, destinati a esplodere come una polveriera di contraddizioni irrisolte all’indomani della tanto agognata indipendenza, il 15 agosto 1947, data d’ingresso in scena del protagonista narratore Saleem e degli altri straordinari figli di quella mezzanotte così speciale. Tra servitori bugiardi e poeti nascosti in cantina, scioperi della parola e assurde profezie da santoni, incredibili scambi in culla ed eccentrici inglesi pronti a rinunciare a tutto fuorché alle proprie tradizioni, il piccolo Sinai sembra destinato a irrompere quando ogni mirabolante evento ha già avuto luogo. Dal suo resoconto impariamo a conoscerlo solo poco per volta, tra istantanee del suo presente di “anziano” trentaduenne e curiose corrispondenze con gli avi. Il suo vissuto è narrato in prima persona attraverso i contorni flou di un’avvincente esperienza onirica, sospendendo quasi per necessità ogni criterio di veridicità nella relazione con il lettore ma affabulando con la pazienza di chi voglia stupire senza smargiassate il suo pubblico. Senza mai perdere di vista eventi capitali come gli scontri per l’autonomia linguistica o la morte violenta del Mahatma Gandhi, vediamo dipanarsi la sua riservata esistenza di predestinato incompreso, sbeffeggiato da coetanei crudeli e vessato dall’indomabile vitalità della sorella minore “Scimmia d’ottone”, alleata ma anche imprevedibile competitor in un’infanzia tribolata nonostante gli indubbi agi garantiti dal censo alto-borghese. Nelle sue riflessioni mature ritroviamo la certezza che ogni vita può essere fatta di alti e bassi, “scale e serpenti”, sventure imprenditoriali e fortunatissime puntate alle corse, e che persino due gocce di veleno di cobra possono salvare un bambino che pareva spacciato. La più clemente delle sorti sembra rivelarsi la più terribile delle sventure, ed è proprio con la scoperta delle proprie qualità straordinarie che per il mite Saleem e la sua conferenza di piccoli mostri dai poteri sovrannaturali si spalanca la prospettiva di una rovina incalzante – tra fughe infinite, misteriosi nemici, l’apnea in un mondo adulto oltremodo grottesco e, parallelamente, la nascita di Pakistan e Bangladesh con relative guerre sanguinarie – verso un finale visionario e angosciante in cui tutto sembra precipitare.

Dall’epica saga famigliare all’autobiografia composta in chiave falso-realistica al romanzo immaginifico: quest’opera di Salman Rushdie è tanti libri assieme. Un lavoro affascinante e complesso con il quale non si può che familiarizzare un passo alla volta, entrando in sintonia con meccanismi e topoi letterari intriganti, per nulla lineari. L’intreccio è a dir poco tortuoso, una commistione di concretezza e fantastico che non concede facili appigli nella lettura, ma anche una fantasmagoria infarcita di anticipazioni e flashback, simmetrie ipotetiche, piste ingannevoli e specchi deformanti, verità tangibili e fate morgane, oltre alle corrispondenze impossibili eppure fondamentali tra il vissuto individuale e la storia di una nazione. L’autore è fenomenale nel gestire questo coacervo di spunti pazzeschi senza deragliare, suggerendo ad ogni svolta la possibilità di un disegno che sarà ricomposto tessera su tessera soltanto con l’ultima pagina e al solo prezzo – irrisorio considerando gli esiti – dell’indispensabile perseveranza da parte del lettore. E’ notevole anche la sua capacità nel tratteggiare una miriade di splendidi personaggi, accomunati dalla tendenza ad un repentino ribaltamento caratteriale (memorabili i genitori Ahmed e Amina ma ancor più la sorella del protagonista, riciclata da fanciulla terribile a voce devota nella “Terra dei Puri”, o l’appannato incantatore di serpenti Picture Singh) che pare la perfetta sottolineatura del brusco cambio di scenario tra India e Pakistan per l’intero clan Sinai, come da un destino invariabilmente infausto condotto nel segno del più completo annientamento. Non comune anche l’abilità nel trattare la materia con autentico talento sinestetico (riflesso della capacità nel giovane Sinai di annusare le altrui emozioni), offrendo una concretezza quasi fisica a colori, odori e sapori costantemente evocati, ma riuscendo nel contempo a scongiurare i facili inciampi in un esotismo da quattro soldi, oggi tremendamente di moda. Non mancano i passaggi di grande suggestione, e non intendo certo cartoline selezionate di un India per turisti: sono luoghi simbolici come la magica foresta delle illusioni del Sundarbans, dove volteggiano i fantasmi delle speranze dei soldati dispersi, oppure la casa delle vedove, metafora e incubo di ogni forma di prevaricazione oppressiva. Espedienti di pregevole fattura questi, solo due tra i tanti adottati da Rushdie soprattutto nella seconda metà del romanzo: l’amnesia ad esempio, accorgimento melodrammatico che nella confessione del protagonista diventa irrinunciabile per raccontare la sua rinascita; la figura di Padma come lettore dentro al racconto, per stemperare il carico delle allusioni e alleggerire (nonostante l’eccessiva ridondanza) il proprio intento didascalico; e poi la comunità stessa degli eccezionali “Figli della Mezzanotte” e le loro doti magiche, un aspetto appena abbozzato e presto confinato sullo sfondo evitando comunque di rinunciarvi, filtro fiabesco imprescindibile per mantenere la leggerezza del tocco e permettere a chi legge di metabolizzare oltre cinquecento pagine di eventi drammatici e scontri cruenti, senza patimenti eccessivi. Ultime qualità mirabili di questo libro sono i suoi due protagonisti. In primo luogo la voce narrante Saleem, tenuta sotto perenne scacco dalla bugia della sua balia (e dal di lei delitto originario) secondo cui quel che si aspira ad essere si può essere, senza indugi o preclusioni; condannato a ricercare senza sosta surrogati di una figura paterna troppo evanescente; sfibrato dalla necessità di raccontare se stesso e la sua patria con lui, nell’illusione crudele di poter approdare a un finale in linea con le proprie premesse, quando è invece di brandelli di memoria inattendibile che ci si deve accontentare. E accanto a lui il tema chiave del ricordo, appunto, inteso come qualcosa che si è destinati a perdere. Rushdie lo sviluppa attraverso un paio di mirabili invenzioni, eloquenti allegorie del popolo indiano e della sua bizzarra abitudine a usare la stessa parola per dire “ieri” e “domani”. Il ghetto peripatetico dei maghi, spinti dalla miseria, dalle vessazioni poliziesche e dalla frenesia raminga a dimenticare i propri trascorsi ed ogni personale abilità, rimpiazzati dalla “monomania da lumache” di un grigio quotidiano; il club “Midnite Confidential”, regno di inservienti cieche e avventori che non vogliono essere visti: “Questo è un mondo senza visi e senza nomi. Qui la gente non ha ricordi, famiglia o passato. Qui conta l’adesso, niente altro che l’adesso”. L’oblio come il peggiore dei mali insomma, raccontato con amarezza in un romanzo che è tutto giocato sui fragili fili della memoria, storica o fantasiosa che sia. Senza di essa individui e comunità sono condannati in partenza a rivivere eternamente i propri errori e le proprie sofferenze, a non poter vivere né morire in pace, come la triste ma meravigliosa avventura di Saleem Sinai insegna.
Grande libro “I Figli della mezzanotte”, non un capolavoro ma poco ci manca.

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